Palazzo dei Conservatori, le Storie di Roma nelle decorazioni della Sala di Rappresentanza.

di Daniela MATTEUCCI

La decorazione delle sale di rappresentanza del Palazzo dei Conservatori si è imposta come il documento più valido e autorevole della storia della città; dalla fondazione giuridica e amministrativa che si concretizzò negli Statuti del 1363, rappresenta la più imponente testimonianza di legame indissolubile tra Stato e Chiesa che si affermò in due distinte fasi ancora oggi individuabili.

I Conservatores Camerae Urbis  sono citati nel più antico documento relativo, che si data al 1311, dove si ribadisce la loro competenza, successivamente affermata negli Statuti del 1363 che attestano e suggellano l’antico legame tra potere civile e religioso. Il pontefice della Cappella Sistina, Sisto IV Della Rovere  -della stessa famiglia che darà i natali al futuro papa Giulio II, il committente di Raffaello e Michelangelo della ‘Pittura-vetrina’ ufficiale della Chiesa- donò le quattro celebri sculture bronzee fino ad allora collocate nell’antica sede pontificia, il Patriarchium lateranense, come simbolo ufficiale della continuità tra il potere imperiale della Roma classica e il potere temporale della Roma cristiana.

Lo stesso Sisto IV fu il papa che inaugurò la Cappella Sistina nel 1483: alle pareti una squadra di  pittori umbri e fiorentini com’è noto realizzarono le ‘Storie di Mosè’ (Antico Testamento) e le ‘Storie di Cristo’ (Nuovo Testamento); probabilmente il suggerimento per questi artisti si dovette a Lorenzo de’ Medici, per favorire la riconciliazione con la Chiesa Romana; alla morte di papa Giulio II verrà quindi eletto il figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni, ossia Leone X, papa della Roma del Rinascimento trionfante; a lui si rivolgerà Raffaello con una disperata lettera ‘di protesta’ per difendere i marmi classici della Roma imperiale del Foro, che si era imposta come ‘la scuola del mondo’.

La frattura con Firenze si ribadisce nella figura di Alessandro VI Borgia, il papa che fu il primo committente degli affreschi delle Sale dei Conservatori, iniziati nell’estate del 1503 e che il pontefice non vide mai, morendo nello stesso anno; oggi restano le decorazioni nella sala di Annibale  nella sala della Lupa; corrispondono alla prima fase e la più antica parte sopravvissuta.

Palazzo deio Conservatori, Appartamento dei Conservatori

La seconda fase della decorazione risale al pontificato di Paolo III Farnese, il papa della scuola di Raffaello in Castel Sant’Angelo, con una scelta decorativa assai diversa, che testimonia l’evoluzione del gusto, nella scelta dei fregi nella parte alta delle sale che raccontano episodi che si svolgono con intento svelto e narrativo; restano oggi gli affreschi delle sale minori: delle Oche, delle Aquile, degli Arazzi.

La terza e ultima fase si colloca nel periodo conclusivo della Controriforma e del primo Seicento, sotto i papati da Pio IV Medici (1560-65) a Urbano VIII Barberini (1623- 44), cioè, considerando le opere rappresentative nell’arco di tempo, dalla cupola di San Pietro al Baldacchino di Gian Lorenzo Bernini. Questo ultimo intervento si concretizza nelle sala dei Trionfi, che si data al 1569, nella sala dei Capitani, decorata tra il 1587- 94 da Tommaso Laureti e nella sala degli Orazi e Curiazi, che, iniziata nel 1595 fu terminata solo nel 1638-39; si tratta in realtà della prima, in ordine di visita.

La Sala degli Orazi e Curiazi è un’immensa architettura dipinta, dove l’inquadratura monumentale delle scene trattate come arazzi si articola entro cornici di gusto imperiale con festoni, inganni prospettici e ideali quadrature architettoniche. In ordine di esecuzione le scene rappresentano: Il Ritrovamento della lupa con Romolo e Remo, del 1596; la Battaglia di Tullio Ostilio contro i Veienti e Fidenati, 1597- 1601; Combattimento degli Orazi e Curiazi, 1612- 1613; il Ratto delle Sabine, 1635-36, Numa Pompilio istituisce il culto delle Vestali e dei Sacerdoti, 1636- 1638; Romolo traccia il solco della Roma quadrata, 1638- 1639.

Pietro da Cortona, iI Ratto delle Sabine; Gian Lorenzo Bernini, Statua di Urbano VIII Barberini (foto dell’Autrice)

E’ la Sala del Consiglio Pubblico, la più importante di tutte, e l’incarico fu affidato a Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino nel 1595, con l’accordo di consegna al 1599, in vista del Giubileo del 1600. Nel 1613 però erano state realizzate solo le prime tre scene e solo dopo una lunghissima interruzione i lavori furono terminati nel 1640. Lo stesso papa Clemente VIII Aldobrandini, che gli aveva conferito il titolo nobiliare di “Cavalier d’Arpino” lo incaricò, al contempo, di realizzare gli affreschi nel transetto della Basilica di San Giovanni in Laterano e i cartoni per i mosaici della cupola di San Pietro. Giuseppe Cesari si pone come  una delle figure più in vista del tempo, pittore dei larghi spazi, decoratore, frescante e pittore di opere di più piccolo formato, di gran moda al tempo. Cavalier d’Arpino fa parte del giro dei ‘mercanti –amatori’ dei pittori incaricati dagli antiquari e collezionisti di realizzare opere-souvenir su commissione di ricchi borghesi in nostalgici e appassionati viaggi in Italia, alle radici del ‘Gran Tour’.  La formazione iniziale dell’artista è da ricercarsi nel classicismo emiliano di Raffaellino da Reggio, che interpreta in chiave tonale la monumentalità dell’indimenticato Raffaello.

Cavalier d’Arpino è anche il maestro che oltre ad accogliere Caravaggio a Roma, fu artista-simbolo della Controriforma trionfante, che dipinge soggetti e temi cari alle tematiche tradizionali e svolti nella linea della tradizione classicista romana, che trova in Raffaello più che in Michelangelo il suo modello più accreditato e indiscutibile. Fu lui a ricevere l’incarico da Mathieau Cointrel, italianizzato in Matteo Contarelli, di dipingere l’omonima Cappella in San Luigi dei Francesi e dove in effetti realizzò solo gli affreschi del soffitto con le ‘Storie di San Matteo’ entro cornici a stucco (quadri riportati) poichè, a causa dei numerosi impegni, lasciò il completamento a Caravaggio, che ebbe così l’occasione perfetta per mostrarsi alla committenza religiosa romana, dipingendo le tre tele alle pareti.

Il Ritrovamento della Lupa con Romolo e Remo fu dipinto nel 1596; oltre la ricca cornice un ideale sipario viene aperto da due telamoni di insolita iconografia, quello di sinistra, di profilo, è imponente e serio, mentre l’altro di destra ci da le spalle, quasi nell’ombra. Davanti a loro, due svelti amorini si aggrappano agli scudi della romanitas La scena principale si svolge dal centro verso destra, con il pastore Faustolo che scopre l’amorosa lupa intenta a nutrire i gemelli; sono presenti altre figure, tra cui si riconosce in secondo piano la moglie Larenzia davanti alla capanna. Il modello indiscutibile è la cosiddetta Lupa capitolina, i cui gemelli sono però opera quattrocentesca poiché furono aggiunti dallo scultore fiorentino Antonio del Pollaiolo per ordine di Sisto IV, per il quale realizzò anche la monumentale tomba d’argento ora conservata nel Museo del Tesoro della Basilica di San Pietro.

Cavalier d”Arpino, Sala degli Orazi e Curiazi (foto dell’Autrice)

Ben si presta il tema dei natali di Roma all’inquadramento idilliaco-pastorale, caro alle nostalgiche tematiche tardo-cinquecentesche, classiciste e barocche; Cavalier d’Arpino riesce a distinguersi in momento in cui la decorazione è divenuta opera a più mani, promossa principalmente dai pontificati di Gregorio XIII Boncompagni e Sisto V  Peretti, dove immense imprese decorative vestono velocemente gli interni dei più importanti palazzi del potere. E’ una pittura monumentale e calda, morbida negli sfumati pastello di figure, animali e paesaggio dai delicati toni atmosferici.

La Battaglia contro i Veienti e i Fidenati (1597- 1601) è una grande e suggestiva regia teatrale, proto-barocca, nell’ammasso di figure e cavalli umanizzati, dagli sguardi di terrore anche rivolti verso lo spettatore. Il cavallo è un animale e un tema molto amato dagli artisti, primo fra tutti Leonardo da Vinci, come simbolo di fortezza, nobiltà, eleganze, intelligenza, mentre il tema del gruppo equestre, emblema della cultura imperiale, si evolve nel Rinascimento nell’intesa tra uomo e cavallo. La scena prelude ai grandi dipinti di tema storico ma trova il suo modello nella Battaglia di Costantino nella sala omonima delle Stanze di Raffaello. Anche la spartizione architettonica rimanda al gusto della sala vaticana e quest’opera ne è l’ideale prosecuzione, amplificata e monumentale, dove la vittoria di Tullio Ostilio lascia  sangue e di polvere. Il riferimento alla cultura classica è anche qui evidente: in basso a sinistra, nel particolare dei guerrieri l’uno con la spada e l’altro a terra ferito troviamo una citazione del Galata suicida e del Galata morente, conservati rispettivamente al Museo di Palazzo Altemps e ai Musei Capitolini.

Nel cielo, la lotta dell’airone contro il serpente è di belliniana memoria: questo  particolare è presente nella Madonna del prato di Giovanni Bellini, 1505, oggi a Londra. L’airone vince sul serpente, colpendolo agli occhi; simbolo positivo, l’airone trionfa sull’animale che incarna il peccato e il male. E qui, a rafforzarne il significato, un altro airone arriva in soccorso del compagno.

Il Combattimento degli Orazi e dei Curiazi (1612- 1613) offre allo spettatore un dramma senza pathos. Tutto si risolve nell’ultimo atto di un dramma reso teatrale, tra i corpi riversi a terra e i guerrieri in secondo piano come spettatori attoniti. Ai lati, due cavalli con cavalieri chiudono scenograficamente l’impostazione architettonica, stabilita in fasce parallele e orizzontali, cha dilatano l’orizzonte in eteree luminosità. Una gran cornice impagina l’affresco mentre in basso corre l’impalcatura architettonica, con medaglioni che in pillole spiegano i retroscena della storia.

 La ‘narrazione’ in affresco è pittura di moda, memore delle grandi imprese dei precedenti papati. Intanto Carlo Maderno ‘firmava’ la facciata di San Pietro in Vaticano, nel 1612, per Paolo V Borghese.

Nel Ratto delle Sabine realizzato tra 1635 e 1636 si ha nella parte sinistra dell’affresco una scena statica, a cui si contrappone la parte dinamica sulla destra; ‘cortonesca’ la spartizione spaziale e l’enfasi, che possono trovare riscontro nell’omonimo soggetto, sempre in sede capitolina, proprio realizzato da Pietro da Cortona.

Pietro da Cortona esordisce in quegli stessi anni come pittore per la famiglia Barberini nel loro Palazzo affacciato su Via di Quattro Fontane: il Trionfo della Divina Provvidenza realizzato sulla traccia del poemetto di Francesco Bracciolini della ‘Elettione di Papa Urbano VIII’, scritto nel 1625 è la catarsi del sogno papale.

E’ il primo ufficiale soffitto barocco a Roma, che pone evidenti analogie con la tela capitolina e con questo affresco.

Agli stessi anni risale Numa Pompilio istituisce il culto delle Vestali e dei Sacerdoti, del 1636- 1638, grandiosa impalcatura architettonica in prospettiva centrale, ancora memore del Raffaello romano ma amplificata in chiave barocca: la porta centrale viene resa base dell’ara, fulcro prospettico e scenografico, da cui si aprono l’arco e le colonne, grandissime, che quasi schiacciano le figure. Un morbido drappo, illusionistica ‘quinta teatrale’ impreziosisce la porta e ne cela in parte la modanatura in un elegante ‘trompe –l’oil’. Il culto, come gli altri episodi, viene narrato da Tito Livio nella ‘Storia di Roma’ e si sviluppa nella narrazione con una disposizione delle figure ai lati della vera porta centrale, mentre lo spazio  – anche questa soluzione  raffaellesca-  viene equilibrato attraverso un’attenta calibratura e giustapposizione tra architetture e persone.

Romolo traccia il solco della Roma quadrata, del 1638- 1639 è un episodio compresso tra le due aperture, velocizzato in prospettiva, dove l’azione centrale che dà titolo alla scena è relegata e sfocata, al centro, tra i buoi che tirano l’aratro e Romolo che ordina il punto dove tracciare il solco.

Gli avvoltoi che volteggiano sono menzionati da Tito Livio come segno augurale a Remo, vinto dalla sorte che favorì il fratello assassino; cenno debole, quasi punto cromatico nel paesaggio che si fonde all’incorniciatura ‘teatrale’ e di memoria classicheggiante.

La Sala dei Capitani  narra episodi tratti dalla storia della Repubblica e fu la penultima ad essere affrescata; l’incarico fu affidato a Tommaso Laureti, pittore palermitano affiancatosi alla cerchia romana di eredità michelangiolesca.

Tommaso Laureti, La Giustizia di Bruto (foto dell’Autrice)

Attivo in Emilia come progettista e architetto legato al Vignola, a Roma si distingue per una pittura controriformata più che bizzarra e manierista, espressione della cultura artistica legata ai papati di cui già abbiamo fatto cenno, Gregorio XIII Boncompagni e Sisto V Peretti. Tommaso Laureti si fa conoscere a Bologna, lavorando alla Fontana del Nettuno per poi trasferirsi a Roma durante il papato di Gregorio XIII per completare la decorazione della volta nella Sala di Costantino in Vaticano. Vasari lo ricorda a fianco di Sebastiano del Piombo, l’interprete ‘tonale’ della monumentalità michelangiolesca, in contrasto con la poetica di Raffaello.

La spartizione architettonica della sala è ampia e ridondante e il colore ha accento lombardo-veneto. L’interpretazione di Sebastiano del Piombo si scorge nei volumi morbidi e tondeggianti; già Sebastiano aveva rivisto da veneziano il titanismo di Michelangelo offrendone una versione cromatica e classicheggiante in chiave romana.

La sala era riservata alle Udienze indette dal Consiglio Segreto; i documenti permettono di ricostruire le fasi di lavoro, mentre non viene precisata la scelta dei soggetti e delle storie, poiché nella sottoscrizione del contratto l’artista scrive di

(…) quattro historie grandi, ciò è una per facciata, con un fregietto intorno per ornamento, et depignere… battaglie o altre attioni notabili’

con altri particolari in fino bronzo o in chiaroscuro.

Evidentemente la scelta dei soggetti non era una priorità per la committenza e infatti si ricalcarono pressoché interamente le stesse scene della primitiva decorazione realizzata dal Ripanda.

Le scene sono realizzate come grandi arazzi esposti ed incastonati tra le pareti e hanno  il loro riferimento storico, come per la precedente sala, nella ‘Storia di Roma’ di Tito Livio, ad eccezione della Battaglia presso il lago Regillo in cui troviamo l’inserimento dei Dioscuri, assenti nella fonte citata. Tutte le scene concorrono a rafforzare la politica papale di Sisto V, che nel suo breve pontificato impose in Campidoglio una ‘politica culturale’ che intendeva sottrarre alla città di Roma quelli che erano i privilegi consolidati e legati alla storia antica, quindi fortemente simbolici, con l’intento di indebolire l’autorità civica a favore di un rafforzamento della politica della Chiesa, quasi trasformazione naturale della e dalla Roma imperiale.

In questa prospettiva è da intendersi  anche il trasferimento nel 1538 del Monumento equestre del Marco Aurelio dal Laterano, per volere di Paolo III Farnese, che a Michelangelo commissionò il progetto della Piazza del Campidoglio (oltre al Giudizio Universale in Cappella Sistina e agli affrerschi nella Cappella Paolina in Vaticano). Alla sua committenza si devono anche gli affreschi delle sale minori che seguono, dette appunto ‘farnesiane’.

L’impalcatura prospettica de La Giustizia di Bruto rimanda chiaramente alla Scuola di Atene di Raffaello, dove la struttura lineare e matematica della prospettiva centrale apre lo spazio davanti allo spettatore: le due figure centrali sono il punto di fuga di un’architettura ampia e scenografica, monumentale e classicheggiante nelle aperture sui lati e nei due propilei di chiusura e che prelude a una teatralità di sapore secentesco.

E’ lo spazio degli allievi di Raffaello, il primo grande pittore che ebbe una scuola ‘accademica’ anticipando la dinamica formativa bolognese ed emiliana del XVII secolo, come si può riscontrare soprattutto nella Battaglia presso il lago Regillo, chiaramente derivante dalla Sala di Costantino, dove le figure ordinate e rinascimentali della Sala della Segnatura diventano una teoria intrecciata agli animali che si sviluppa in un racconto continuo di colore scolpito. Tommaso Laureti si ispirò alla scuola di Raffaello attiva nella Sala di Costantino, realizzata da loro dopo la morte del maestro e dove il Laureti dipinse, come accennato, gli affreschi della volta, su committenza di papa Gregorio XIII Boncompagni. I cavalli appaiono come incastrati l’uno con l’altro, in un movimento bloccato e monumentale.

Muzio Scevola davanti a Porsenna si svolge in uno spazio difficoltoso per le due aperture delle porte, situazione che già si era presentata a Raffaello in Vaticano: la soluzione prospettica proposta si affianca alle coeve imprese decorative degli Oratori romani, soprattutto a quello del Crocifisso, dove le figure si snodano ‘crollando’ davanti allo spettatore in gigantesche quinte teatrali e fughe prospettiche.

La scena narrata si allontana nello spazio in Orazio Coclite sul ponte Sublicio dove si svolge uno degli episodi più toccanti dell’antica storia di Roma: l’eroe virtuoso Orazio Coclite contro gli Etruschi. In lontananza si perdono i personaggi e un paesaggio fitto e caliginoso, che si conclude nell’edificio sottile.

Daniela MTTEUCCI  Roma 17 Marzo 2024