Nuovi elementi di analisi confermano: la Maddalena addolorata è di Caravaggio

di don Alessio GERETTI*

*Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo importante studio che don Alessio Geretti ha dedicato ad un dipinto di straordinario interesse e fascino più volte esposto e pubblicato come particolare autografo di Caravaggio preso dalla Morte della Vergine oggi al Louvre. Le analisi dallo studioso ribaltano questa tesi e ne confermano l’autografia. La nostra rivista è aperta naturalmente ad ulteriori contributi.

Il volto misterioso della Maddalena addolorata di Caravaggio

Nell’esistenza di una donna di nome Maria, proveniente dal piccolo villaggio di Magdala presso le rive del lago di Tiberiade, in Galilea, l’incontro con Gesù di Nazareth fu una svolta decisiva: «C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni»[i]. Quella donna, tra le “pecore perdute” della casa di Israele portate in salvo da Cristo, dopo essere stata liberata dal totale asservimento al Maligno che la affliggeva, ricevette una nuova vita che volle vivere per Gesù e con Gesù. Ultima, con un gruppetto di donne, a separarsi dal corpo esangue e martoriato di Cristo, composto per la sepoltura dopo la crocifissione, le parve di morire vedendo morto chi l’aveva fatta rivivere. «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio… Maria stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva…»[ii]. Un istante dopo, dalle lacrime amarissime di un vuoto inconsolabile ella passò alle lacrime di una gioia travolgente, poiché «si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi»[iii], prima fra tutti coloro ai quali egli volle manifestarsi risorto, nello splendore intramontabile della sua vita che aveva sconfitto la morte: «risuscitato al mattino nel primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Màgdala, dalla quale aveva cacciato sette demòni»[iv]. Dopo l’incontro di quell’indimenticabile mattino, le tradizioni antiche e l’immaginario degli artisti nei secoli ha descritto Maria Maddalena come immersa in un cammino mistico, carico di struggente pentimento per quella vita passata in cui non era ancora entrato Cristo, denso di nostalgia e attesa per l’anelito di giungere alla perfetta unione dell’anima con lui.

Una specifica sezione della mostra Amanti doveva giustamente essere dedicata all’unione mistica d’amore tra Cristo e l’anima, sperimentata da grandi sante come Caterina d’Alessandria e Caterina da Siena, ma prima ancora appunto da Maria di Magdala come modello di conversione e slancio mistico. Accanto alle due magnifiche opere di Bartolomé Esteban Murillo e di Orazio Gentileschi, raffiguranti la Maddalena – ambedue di collezione privata e mai esposte prima d’oggi in Italia –, di straordinario interesse è il dipinto proposto in mostra (fig 1) alla contemplazione e allo studio di molti come «Maddalena addolorata» o anche «Maddalena in pianto» di Michelangelo Merisi detto Caravaggio[v]. Tanto l’identificazione del soggetto – a prima vista non si riscontrano inequivocabili elementi per riconoscere la discepola del Signore nella drammatica e suggestiva figura ripiegata su una povera sedia –, quanto l’identificazione dell’autore domandano analisi accurate.

Il dipinto emerse da collezione privata francese in un’asta a Vichy nel maggio 2002, indicato come di scuola caravaggesca, per poi essere acquistato nello stesso anno a Roma[vi] e restaurato da Livio Iacuitti, di Roma, con un intervento di semplice pulitura concluso l’11 novembre 2002. A partire dal 2004 esso è stato diverse volte oggetto di studio e di esposizione, vantando ormai a suo riguardo una significativa bibliografia critica.

Certamente, la firma assai importante proposta da molti per questo dipinto ne fa uno dei casi che richiedono il maggior intreccio possibile di approfondimenti, cogliendo il suggerimento sintetico di Fabio Scaletti secondo il quale «si potrebbe dire che un “Caravaggio” seduce se ha l’appoggio dello stile, convince se ha anche quello delle fonti, ed è sicuro se si aggiunge quello della scienza»[vii].

È ora necessario partire anzitutto dalla questione del soggetto, addentrandoci nella quale sarà possibile evidenziare alcune notizie che forse potrebbero gettare qualche luce sulla questione dell’autore, aiutandoci a ricostruire il contesto nel quale il pittore ha concepito e realizzato l’opera.

L’identificazione del soggetto in questo caso avviene per via indiretta, essendo, già allo sguardo, innegabile la connessione tra il dipinto di nostro interesse e l’incantevole pala d’altare in cui Caravaggio rappresentò la Morte della Vergine Maria, oggi ammirabile al Musée du Louvre a Parigi:

la perfetta sovrapponibilità, infatti, tra la figura del nostro dipinto e quella che occupa l’angolo in basso a destra nella pala di notevoli proporzioni del Louvre permette di trasferire al primo dipinto l’identificazione della donna piangente nella grande pala, riconosciuta appunto come Maria Maddalena in tutti i testi che parlano di quel dipinto. È quella figura femminile correttamente individuata? Il fatto rappresentato nella pala, conosciuto come transito o dormizione di Maria, non può appoggiarsi a minuziose descrizioni da cercare in testi canonici – che non lo raccontano affatto – o nelle più antiche fonti patristiche a noi pervenute – a partire dalla prima, una lettera ai cristiani d’Arabia scritta dal santo vescovo Epifanio di Salamina ed inserita nel suo Panarion (78,10-11), composto verso l’anno 377, che però non fornisce descrizione alcuna del trapasso di Maria –, ma solo in qualche testo della letteratura apocrifa, che narra con dovizia di particolari il trapasso della Vergine[viii], come pure nella notissima Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. In queste fonti, peraltro, concordando sul ritrovarsi degli apostoli al capezzale della Vergine, si ricorda anche una presenza femminile, collegandola alla necessità di qualche donna che potesse lavare e preparare il corpo della Madonna per la sepoltura, pur senza esplicitare in particolare che si trattasse di Maria Maddalena. Una presenza femminile accanto al letto di morte di Maria sembra plausibile e verrebbe naturale identificarla in primo luogo con qualche figura della parentela di Cristo, ma non è irragionevole immaginare – almeno per ragioni simboliche – che, accanto agli apostoli, nel momento della conclusione della vita fisica della Vergine fosse presente anche Maria Maddalena[ix], donna chiamata da Rabano Mauro e da Tommaso d’Aquino apostolorum apostola[x]. In tal senso, oltretutto, va presa in considerazione anche la testimonianza di san Gregorio di Tours, che nel VI secolo narra per primo della sepoltura di Maria Maddalena, dandoci notizia, con dettagli che fanno pensare ad una testimonianza oculare, che essa è collocata non lontano dalla caverna dei sette dormienti ad Efeso[xi], la stessa località dove antichissime tradizioni situano anche gli ultimi anni di vita terrena della Madonna. Insomma, non pare priva di fondamento l’intuizione dei vari commenti alla grande pala di Caravaggio, secondo cui sarebbe proprio Maddalena l’unica figura femminile dipinta dal Merisi insieme agli apostoli presso il corpo esanime della Vergine, accanto alla bacinella in rame con l’acqua.

Un confronto iconografico avvalora l’identificazione, se si avvicinano alla donna raggomitolata in pianto del dipinto esposto in mostra e a quella della pala ammirabile a Parigi le figure femminili dipinte da Caravaggio nella Deposizione di Cristo, realizzata tra il 1602 e il 1604 per la Cappella Vittrice nella chiesa di Santa Maria in Vallicella – la cosiddetta Chiesa Nuova – a Roma, per i padri dell’Oratorio fondati da san Filippo Neri, da poco morto e conosciuto dal pittore. Le due donne presenti accanto alla Vergine Maria, una straziata, le braccia levate al cielo, l’altra raccolta, un fazzoletto a rasciugarsi le lacrime, rappresentano rispettivamente Maria di Cleofa e Maria Maddalena[xii].

Simone Peterzano. Deposizione. Santa Maria della Scala in San Fedele

Si potrebbe discutere su quale delle due donne nella Deposizione sia la Maddalena, ma pare identificabile con la donna che regge il fazzoletto, sia per il fatto che il fazzoletto stesso richiama esplicitamente l’attributo iconografico delle lacrime, che non può non rinviare alla discepola venuta da Magdala[xiii], ma anche per la somiglianza tra questa figura e la Maddalena dipinta nella Deposizione di Simone Peterzano, primo maestro di Caravaggio, alla quale per diversi aspetti il Merisi si è ispirato: l’attributo delle trecce sul capo, in particolare, accomuna nei due dipinti quella donna.

Le trecce sul capo possono oltretutto essere interpretate, nell’iconografia femminile, come un’allusione alla condizione nuziale della donna che le porta, come fosse alla vigilia del sospirato matrimonio. Per cogliere questo significato in un dettaglio dell’acconciatura, che non è soltanto di moda, bisogna fare memoria degli usi romani antichi, alla base dei riti e dei segni propri del matrimonio in Occidente: tutte le nubentes dovevano dividere i capelli in sei trecce[xiv] con l’hasta caelibaris, la punta di una lancia con cui era stato trafitto un nemico di Roma o un gladiatore, e le trecce dovevano essere raccolte sul capo, per fissarvi poi il velo che completava l’abito nuziale. Dal tempo della Roma repubblicana, quindi, le trecce sul capo erano la classica acconciatura della sposa, benché con il passare dei secoli i rigidi canoni antichi non venissero osservati nei dettagli. Ma le trecce sul capo di Maria Maddalena possono avere un senso nuziale? In senso stretto parrebbe di no, poiché quella donna non ebbe marito, ma la trasformazione della sua vita ad opera di Cristo – che la amò di un amore puro e immenso e per il quale ella visse ardendo di una dedizione mistica al suo Salvatore – è tale da fare di tale discepola il prototipo spirituale della sponsa Christi.

Ora, bisogna riconoscere che la donna curvata in pianto nel dipinto esposto in mostra e nella pala del Louvre è la medesima donna col fazzoletto nella Deposizione, sia per quanto riguarda l’acconciatura e il colore dei capelli, sia per quanto riguarda l’abito, con la camiciola bianca e il vestito a spalline strette di tonalità bruno-rossastra.

Morte della Vergine Louvre part.
Maddalena Addolorata coll. privata part.

Anzi, ad osservare attentamente, la medesima mano sinistra della donna, tanto nella Deposizione quanto nella Morte della Vergine nel nostro dipinto, è quella che viene portata al viso, tanto da dover credere che il lembo bianco discendente da quella mano nell’opera che stiamo analizzando sia proprio il fazzoletto già rappresentato nella Deposizione, e non la semplice terminazione sbrecciata della manica, che semmai finisce stingendosi rimboccata sull’avambraccio, nascosta dietro il fazzoletto stesso.

Con tutto ciò, non è ancora sciolta inequivocabilmente l’identificazione del soggetto del dipinto visibile in mostra: è ragionevole considerare chiaro che la donna nell’angolo in basso a destra nella grande pala della Morte della Vergine sia Maria Maddalena, ma l’identica figura nel piccolo dipinto di collezione privata intende rappresentare la Maddalena se questo dipinto è stato effettivamente realizzato in connessione con quella pala, o perché l’ha preparata o perché l’ha seguita. Non si potrebbe infatti teoricamente escludere che il dipinto riapparso nel 2002 sia nato per cogliere col pennello sulla tela la suggestiva idea di una modella collocata in postura drammatica ed intima, senza che il pittore avesse già l’intenzione nitida di farne una Maddalena, riservandosi di riutilizzare la riuscita figura in una o in più opere future, anche con diverse identità iconografiche. Diventa pertanto indispensabile, a questo punto, tentare di ricostruire quale legame ci sia tra il dipinto di dimensioni contenute (cm 112×92) ammirabile in mostra e la pala oggi al Louvre.

Qualunque studioso si imbattesse in un quadro emerso dall’ombra e presentato come di scuola caravaggesca opporrebbe per principio una prudenziale resistenza alla proposta di attribuirlo disinvoltamente a Caravaggio stesso, pur essendo noto che il Merisi dipinse molte più opere di quelle che effettivamente siano a noi pervenute o almeno siano ad oggi note e riconosciute come autografe. È fin dalla prima ora, infatti, Caravaggio vivente, che di alcuni suoi quadri si realizzano copie, alcune anche di straordinaria qualità pittorica: basti pensare al fatto che il marchese Vincenzo Giustiniani già nel 1606, di ritorno da un viaggio in Europa, sostando a casa di Orazio del Negro a Genova vide con molto stupore una copia dell’Incredulità di San Tommaso il cui originale il marchese aveva in casa propria a Roma[xv]. Circolavano quindi – e circolano tutt’oggi – numerosi dipinti che sembrano copie di quadri di Caravaggio realizzate da anonimi autori, tranne rari casi di autore noto; si deve scrivere che “sembrano copie”, poiché di un determinato originale esistono le copie e le repliche, indicando con le prime le imitazioni dovute a mani diverse da quella dell’autore originario, con le seconde la versione ulteriore, identica o lievemente variata, dovuta alla mano dello stesso autore. Non è ancora possibile dirimere con certezza alcune questioni che gli studiosi da decenni si pongono – Caravaggio replicò personalmente qualche sua opera? Ebbe collaboratori o allievi, che talvolta copiavano talaltra completavano le opere del maestro? Alcuni procedimenti tecnici tipici del modo di dipingere del Merisi erano una sua prerogativa assoluta o erano relativamente diffusi negli stessi ambienti e nello stesso momento storico in cui lui lavorò? –, perciò nella ridda delle attribuzioni è scientificamente corretto districarsi, in generale, con la dovuta prudenza tanto nell’affermare quanto nel negare l’autografia caravaggesca, a meno che constino sufficienti elementi convergenti per sostenere senza ragionevole dubbio una delle due tesi. Se parliamo di elementi convergenti, come si accennava all’inizio, è perché specialmente nel caso del riconoscimento di un dipinto di Caravaggio bisogna considerare la calligrafia, per così dire, cioè lo stile e l’agire pittorico visibile a occhio nudo, ma anche la ricerca documentale sull’opera e le preziose indagini diagnostiche che oggi rendono possibile la raccolta di molti dati attraverso radiografie, riflettografie e analisi chimiche dei pigmenti del dipinto stesso.

Nel caso della pala esposta al Louvre, le analisi di laboratorio sono state effettuate e pubblicate nel 2006[xvi], senza evidenziare – per quanto riguarda la figura della Maddalena – i cosiddetti pentimenti o qualche incisione, tipici segnali dell’agire pittorico di Caravaggio, ben noti agli studiosi, come se nel caso di quella circoscritta figura fossimo davanti a un personaggio dipinto con particolare sicurezza dalla mano del Merisi.

Il dipinto in mostra, a sua volta, è stato sottoposto a indagini diagnostiche una prima volta presso il Centro per la Diagnostica Artistica a Formello[xvii] e una seconda volta, con analisi ancor più approfondite, presso le Metodologie d’Indagine per la Diagnostica Artistica[xviii]. Rinviando alle relazioni dettagliate per un ampio resoconto di tali indagini, riassumiamo in questa sede i dati principali per sottolinearne il grande interesse.

Il supporto del dipinto, anzitutto, è costituito da due pezze cucite insieme verticalmente, di tele dalla consistenza diversa (la parte sinistra dall’armatura di 8×9 fili per cm2, la parte destra da 13×13 fili: ambedue sono trame tipiche delle tele disponibili per i pittori nel Seicento romano). È noto che Caravaggio facesse ricorso a tele di recupero e di ogni genere per i suoi dipinti, non di rado congiungendo insieme pezze diverse di recupero, mentre nell’ipotesi di una copia il ricorso ad un supporto così risultante appare quantomeno insolito. In realtà, la parte superiore della tela comprende un’aggiunta tardiva, probabilmente ottocentesca, per una fascia di 7 cm di altezza che forse è stata ritenuta opportuna in un momento storico in cui il quadro parve avere poco respiro nella parte alta, un po’ come accadde al Martirio di Sant’Orsola di Caravaggio.

L’analisi chimica, stratigrafica e fluorescente dei pigmenti e delle sostanze utilizzate per la preparazione della tela è del tutto compatibile con le abitudini di Caravaggio nel tempo più tardo del suo soggiorno romano o nel primo periodo del suo soggiorno napoletano, ad esempio per quanto riguarda l’assenza del cinabro nei pigmenti utilizzati per l’incarnato o la presenza nello strato più superficiale della preparazione, rossastro, di manganese, che era un essicante aggiunto ai pigmenti per esigenze di rapidità. Ad esempio, nella Flagellazione di Cristo dipinta dal Merisi a Napoli, per la Cappella De Franchis nella chiesa di San Domenico Maggiore, l’artista ricorse alle stesse sostanze rintracciate dalle analisi nel dipinto privato in mostra.

A luce radente è possibile individuare due incisioni, una a tracciare la linea di confine tra il vestito e la schiena, l’altra a delineare il volume del capo della figura. Queste incisioni, che pare Caravaggio realizzasse con la punta del manico del pennello o con uno specifico bulino – e che forse sono da ricondurre a una tecnica compositiva che prevedeva l’utilizzo ingegnoso, come Clovis Whitfield sostiene[xix], di una sorta di camera oscura con lenti e specchi concavi –, sono uno dei tratti caratteristici del suo agire pittorico: benché da sole non dimostrino l’autografia del dipinto, va anche detto che tali incisioni non sono molto comprensibili in una eventuale copia.

La riflettografia ha rivelato diversi cambiamenti che in corso d’opera il pittore del quadro in mostra volle apportare alla composizione – appunto, i cosiddetti pentimenti –, i più rilevanti dei quali riguardano la posizione della testa della donna e l’inclinazione del braccio sinistro, originariamente posto ad un angolo diverso, mentre la mano destra mostrava interamente le dita portate al volto e ora parzialmente coperte da una ciocca di capelli che scende a nasconderle. È rilevante anche il fatto che sotto l’abito e il corpo della donna la radiografia lasci vedere il sedile della sedia nella parte in basso a destra, realizzato prima di dipingere la figura che lo copre quasi del tutto. Non sembra ragionevole che in una copia l’imitatore dell’originale abbia motivo di realizzare pentimenti o bisogno di abbozzare le parti di sedia che poi verranno nascoste dal panneggio della figura.

Dal punto di vista del confronto delle indagini di laboratorio, quindi, i dati ad oggi disponibili evidenziano che il piccolo dipinto privato ammirabile in mostra presenta tutti gli elementi tipici dell’agire pittorico di Caravaggio, compresi quelli che non sono ragionevolmente compatibili con l’esecuzione di una copia da originale. La perfetta sovrapponibilità della figura di questo dipinto con quella nell’angolo in basso a destra nella grande pala oggi a Louvre fa pensare all’utilizzo di cartoni o di quadrettatura per replicare esattamente un soggetto, ma per tutti gli elementi evidenziati dalle analisi nel piccolo dipinto, in assenza di prove in senso contrario, si deve concludere che è la figura di Maddalena nella grande pala a derivare da quella del piccolo quadro, e non viceversa. Oltretutto, quand’anche l’ipotesi inversa – il piccolo dipinto come derivazione dalla grande pala – fosse stata compatibile con i dati emersi dalle indagini, sarebbe stato da osservare anche che non si conoscono casi di repliche o di copie di dettagli dei dipinti di Caravaggio, ma sempre e soltanto di opere interamente riprodotte.

Non potendo ignorare che il singolo soggetto di questa donna raggomitolata nel pianto abbia una sua autonoma potenza espressiva, rimane da domandarsi se il dipinto in mostra sia stato realizzato come preliminare della composizione di larga scala della Morte della Vergine o semplicemente come felice intuizione fissata al volo in attesa del giorno giusto e della commissione giusta in cui inserire l’affranta figura femminile.

È nota la complessa e per certi versi tormentata vicenda della pala della Morte della Vergine, commissionata dal ricco giurista Laerzio Cherubini da Norcia, ben inserito in Roma, amico del cardinale Francesco Maria Del Monte e del marchese Vincenzo Giustiniani. Nel contratto[xx] sottoscritto da Cherubini con Merisi il 14 giugno 1601 si prevedeva la realizzazione dell’importante pala per una cappella laterale della chiesa di Santa Maria della Scala in Trastevere, stabilendo il soggetto del dipinto, una caparra per il pittore di 50 scudi alla sottoscrizione, il tempo di un anno per la realizzazione dell’opera dopo aver ricevuto le misure dal committente e la proposta da parte del pittore di un assaggio preliminare che avrebbe dovuto essere accettato dal committente. Questa richiesta prevista nel contratto non era del tutto insolita: è noto che fu rivolta analoga richiesta nel contratto stipulato nel 1600 riguardante i dipinti che Caravaggio avrebbe dovuto realizzare per la appella Cerasi, nel quale il pittore lombardo si vincolava a fornire anticipatamente modelli e disegni, mentre nello stesso anno abbiamo notizia che egli consegnò un modello a Mario de’ Nuttis per un quadro che ignoriamo[xxi].

La chiesa era in costruzione dal 1592 per iniziativa del cardinale Tolomeo Gallio, affidata all’Ordine dei frati Carmelitani scalzi nel 1597 e probabilmente non conclusa del tutto fino al 1605, almeno per quanto riguarda la struttura della cappella di interesse di Cherubini, come si desume dal fatto che lui stesso nel suo testamento del 14 agosto 1602 cita il nome del progettista Girolamo Rainaldi[xxii], cui viene affidata la realizzazione dell’altare della cappella, e che solamente il 22 maggio 1606 – sei giorni prima della fuga di Caravaggio da Roma, dopo l’assassinio di Ranuccio Tomassoni – venne accordata dal pontefice Paolo V la facoltà di celebrarvi la Santa Messa in suffragio dei defunti. La destinazione alla preghiera per i defunti, in particolare per la famiglia di Cherubini, fu il motivo della scelta del soggetto che la pala chiesta a Caravaggio avrebbe dovuto rappresentare; il prolungarsi dei lavori per il completamento della cappella fu la ragione del notevole ritardo rispetto ai termini contrattuali per la realizzazione dell’opera, che venne consegnata ben oltre l’anno successivo alla sottoscrizione del contratto, forse entro fine aprile del 1605, essendosi celebrato in quella chiesa il primo Capitolo Generale dei Carmelitani Scalzi il 1° maggio 1605. L’opera, seppur incantevole, fu rimossa subito dopo la sua collocazione sull’altare cui era destinata, come attestò per primo Giulio Mancini, archiatra del papa Urbano VIII, in una lettera al fratello Deifobo del 14 ottobre 1606, in cui parlava della «tavola d’altare dov’è la morte della Madonna attorno con gli apostoli, quale andava nella Madonna della Scala di Trastevere, che per essere stata spropositata di lascivia e di decoro, il Frate Scalzo l’ha fatta levare»[xxiii]: è possibile che proprio nell’occasione di quel primo Capitolo Generale sia stata data tale disposizione. L’opera poi fu acquistata qualche mese dopo da Vincenzo Gonzaga, su consiglio di Peter Paul Rubens, e brevemente esposta tra il 14 e il 21 aprile 1607 al palazzo di Giovanni Magni, ambasciatore di Mantova presso la Sede Apostolica, con il divieto assoluto di copiarla. Da Mantova poi l’opera passò a Carlo I d’Inghilterra, poi al banchiere parigino Everhard Jabach, quindi a Luigi XVI e infine al nucleo originario del museo del Louvre, dove ancora oggi si può vedere.

Ma quale causa precisamente indusse il rifiuto del dipinto?

La composizione concepita da Caravaggio non poteva non risultare molto problematica, in effetti, nonostante il pittore avesse inteso onorare l’Ordine religioso cui era destinata la pala con il dettaglio – spesso frainteso quale elemento irriverente – dei piedi scalzi della Vergine. Il problema non era semplicemente quello dell’audacia iconografica con cui il Merisi procedeva, in questo come in altri casi, a invenzioni assolutamente nuove e spesso sconcertanti rispetto a secoli di iconografie abituali. Nemmeno l’essenzialità dell’ambientazione dovette costituire un problema, essendo del tutto in sintonia con la spiritualità pauperista proposta in quegli anni da eminenti figure, quali san Filippo Neri e gli oratoriani certamente frequentati da Caravaggio proprio in quegli anni. Il motivo del sentimento di imbarazzo e del rifiuto che l’opera suscitò è legato al modo di rappresentare il corpo della Vergine, causa di grande scandalo, come lascia intendere lo stesso Giulio Mancini scrivendo che la pala fu «fatta levar di detta chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratta una cortigiana… qualche meretrice sozza degli Ortacci da lui amata, e così scrupolosa e senza devozione…»[xxiv]. Analogo commento ci perviene da Giovanni Baglione, che in merito precisa: «...ma perché aveva fatto con poco decoro la Madonna gonfia, e con gambe scoperte, fu levata via»[xxv]. Il cadavere al centro della scena urtava fin troppo la sensibilità generale per poter essere sopportato, benché accompagnato da un sottile filo d’oro d’aureola attorno al capo e sovrastato dal drappo rosso fiammante raccolto in alto come un sipario teatrale, segno di una certa solennità della scena che riprende quei teatri sacri, specialmente quelli firmati dal gesuita Stefano Tucci, che nella Roma del 1600 erano gli unici spettacoli pubblici consentiti e che molto probabilmente hanno influito sull’immaginario del pittore[xxvi]. In questo caso, il Merisi aveva osato troppo. Non solo l’assoluto realismo della morte nel suo squallore, presentando il corpo di Maria abbandonato scompostamente come dopo una lotta estenuante, ma in particolare la modella scelta per raffigurare la Vergine era un problema nel problema. La meretrice sozza degli Ortacci – la zona di Roma dove abitava la maggior parte delle prostitute che si contavano in città – era fin troppo riconoscibile: Anna Bianchini[xxvii], una delle donne di strada che Caravaggio conobbe e ritrasse in altri dipinti – si suppone sia lei la donna ritratta nel Riposo nella fuga in Egitto e nella Maddalena penitente, oggi nella collezione Doria Pamphilj a Roma, e la figura di Maria in Marta e Maria, oggi all’Institute of Arts di Detroit –, con i suoi capelli rossi e le fattezze che permettono di riconoscerla anche in questo caso. Anna, incinta, forse nella sua casa in un cantone di via del Babuino a Roma, morì a circa 25 anni con la creatura che aveva in grembo; fu sepolta nella parrocchia romana di Sant’Andrea delle Fratte[xxviii], nel cui registro dei morti essa è ricordata come cortigiana. Era il 1604, presumibilmente il momento in cui Laerzio Cherubini aveva dato a Caravaggio le misure esatte per realizzare la pala da collocare sull’altare della sua cappella, finalmente pronto. Caravaggio sapeva, a quel punto, come rappresentare la scena della morte della Vergine, mostrando al vero quel corpo struggente di giovane donna sfortunata, col ventre gonfio per la creatura che vi si stava sviluppando. Forse l’audacia della figura avrebbe potuto essere perdonata interpretando teologicamente e devotamente la giovinezza e la gravidanza come simboli, in Maria, dello spirituale splendore e della maternità estesa alla Chiesa intera.

Non andò come Caravaggio sperava. Forse, però, questo epilogo lui lo immaginava o almeno lo temeva fin dall’inizio. Quell’assaggio preliminare, allora, che secondo il contratto avrebbe dovuto presentare a Laerzio Cherubini per approvazione, poteva forse essere proprio la figura della Vergine, scoprendo le carte e rischiando fin dall’inizio una bocciatura dell’idea? O poteva forse essere un bozzetto dell’intera pala – ammesso che Caravaggio ne facesse, cosa ad oggi ritenuta improbabile –, con al centro quella scena? Non era forse più prudente proporre come anteprima una tela di contenute dimensioni in cui delineare la figura della Maddalena addolorata, intensa e drammatica, indicando che sarebbe stata una delle presenze al capezzale della Madonna capace di commuovere e di rendere partecipi i fedeli? Il Merisi avrebbe potuto così impressionare il committente senza svelargli ulteriori intenzioni e particolari che l’avrebbero probabilmente sconcertato. Niente di più indovinato, se Caravaggio nella sua mente geniale aveva già “visto” il concetto complessivo della composizione da dipingere per Cherubini, nutrendo in cuore il caparbio e segreto proposito di rendere in questo modo onore alla povera amica Annuccia, triste e bellissima, sventurata e simpatica, che lui aveva ritratto altre volte e che aveva accompagnato alla tomba.

Ecco perché il dipinto di collezione privata Maddalena addolorata, da cui proviene l’identica figura nella grande pala della Morte della Vergine, è opera di Caravaggio e pare ragionevole ritenerla direttamente connessa a quella pala, essendo stata realizzata velocemente, su tela di recupero e con l’essicante per l’asciugatura rapida, come esercizio preliminare per ottenere la conferma dell’appalto ricevuto da Laerzio Cherubini, in vista del dipinto maggiore che l’artista già covava nel suo intimo. Forse questa Maddalena addolorata potrebbe essere identificata con l’opera citata nell’inventario dei beni del collezionista romano Giovanni Battista Tomassini redatto da Bernardino Cesari, figlio del Cavalier d’Arpino, il 2 ottobre 1674, in cui si cita «una Maddalena senza cornice di Caravaggio».

Osservando attentamente questa Maddalena, viene da ripensare all’opera di Timante di Citno, pittore greco del V secolo a.C., nel cui celebrato capolavoro, il Sacrificio di Ifigenia, gli antichi ammiravano la gradazione crescente del dolore sul volto dei personaggi, fino a giungere al culmine nella figura di Agamennone che, per pudore e per non saper trovare l’espressione adeguata al dolore più acerbo, il pittore dipinse nascondendone il volto. Così, attorno alla Vergine, le figure degli apostoli si accalcano meste in undici diverse manifestazioni di lutto e spaesamento, fino a giungere al culmine nella figura che Caravaggio realizzò per prima, quella che seppe piangere con tale cuore da non osar dipingere nemmeno una sua lacrima.

Quel pianto non ha nulla di avvilente, però. È il pianto di una donna che ha già veduto e conosciuto in terra abbastanza da essere pervasa da una struggente nostalgia del cielo, da una tenerezza commossa, dalla convinzione che senza una tale Madre accanto niente può più essere come prima. Dovremmo piangere di non saper amare e credere così tanto.

don  Alessio GERETTI  Novembre 2017

Esposizioni e Studi Specifici

  1. Petrucci, Una Maddalena addolorata del Caravaggio, in “Paragone”, LV, n. 57 (655), 2004, pp. 3-15
  2. De Sarno Prignano, L. Muti, Capolavori in proscenio. Dipinti del Cinque, Sei e Settecento, Faenza 2006, p. 72-73
  3. Caravaggio. Originale und Kopien im Spiegel der Forschung, a cura di Jurgen Harten e Jean-Hubert Martin, catalogo della mostra, Düsseldorf, 2007, scheda di S. Guarino, pp. 248-249
  4. Petrucci, D. Mahon, Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Maddalena addolorata, in Caravaggio e il Seicento, catalogo della mostra (Atene), Milano 2006, pp. 56-5
  5. Il settimo splendore: la modernità della malinconia, a cura di M. Marinelli, catalogo della mostra (Verona), Milano, 2007, scheda di G. Cortenova, pp. 146-147
  6. Strinati, Quesiti Caravaggeschi, in Caravaggio a Roma, a cura di E. Lo Sardo, M. Di Sivo, O. Verdi, catalogo della mostra, Roma 2011, pp. 24-31
  7. Nella luce di Caravaggio “dipingere di maniera, e con l’esempio avanti del naturale”, a cura di P. Carofano, catalogo della mostra, San Giovanni Valdarno, 2011, scheda di P. Carofano, pp.22-24 e di C. Falcucci, pp. 24-25
  8. Tesori nascosti. Tino di Camaino, Caravaggio, Gemito, a cura di V. Sgarbi, catalogo della mostra (Napoli), Santarcangelo di Romagna (RN), 2016, con riferimenti all’opera di V. Sgarbi, pp. 24-28, scheda di P. Carofano, p.106, post scriptum di M. Gregori, p. 106

 

Bibliografia
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Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di L. Maraldi, Casale, Piemme, 1994.
Aschew P., Caravaggio Death of the Virgin, Princeton, 1990.
Baglione G., Le vite de’ pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di papa Urbano VIII nel 1642, Roma, 1642.
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Masetti Zannini G. L., Un dipinto del Caravaggio, in “Commentari”, XXII, 2-3, 1971.
Robb P., L’enigma Caravaggio, Milano, Mondadori, 2001.
Salza Prina Ricotti E., Amori e amanti a Roma tra Repubblica e Impero, 1992, L’Erma di Bretschneider, Roma 1992.
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Scaletti F., La ridda delle attribuzioni, in Caravaggio vero, a cura di C. Strinati, Reggio Emilia, 2014.
Scoglio G., Stefano Tuccio S.J. ispirò Caravaggio e Shakespeare, Firenze, 2107.
Whitfield C., L’occhio di Caravaggio, Paul Holberton, Londra 2011.

NOTE

[i] Vangelo secondo Luca 8,2-3
[ii] Vangelo secondo Giovanni 20,1.11
[iii] Vangelo secondo Giovanni 20,14
[iv] Vangelo secondo Marco 16,9
[v] Su questo dipinto si è scritto quanto segue in occasione di studi o di mostre: F. Petrucci, Una Maddalena addolorata del Caravaggio, in “Paragone”, LV, n. 57 (655), 2004, pp. 3-15; D. De Sarno Prignano, L. Muti, Capolavori in proscenio. Dipinti del Cinque, Sei e Settecento, Faenza 2006, p. 72-73; Caravaggio. Originale und Kopien im Spiegel der Forschung, a cura di Jurgen Harten e Jean-Hubert Martin, catalogo della mostra, Düsseldorf, 2007, scheda di S. Guarino, pp. 248-249; F. Petrucci, D. Mahon, Michelangelo Merisi detto Caravaggio. Maddalena addolorata, in Caravaggio e il Seicento, catalogo della mostra (Atene), Milano 2006, pp. 56-59; Il settimo splendore: la modernità della malinconia, a cura di M. Marinelli, catalogo della mostra (Verona), Milano, 2007, scheda di G. Cortenova, pp. 146-147; C. Strinati, Quesiti Caravaggeschi, in Caravaggio a Roma, a cura di E. Lo Sardo, M. Di Sivo, O. Verdi, catalogo della mostra, Roma 2011, pp. 24-31; Nella luce di Caravaggio “dipingere di maniera, e con l’esempio avanti del naturale”, a cura di P. Carofano, catalogo della mostra, San Giovanni Valdarno, 2011, scheda di P. Carofano, pp.22-24 e di C. Falcucci, pp. 24-25; Tesori nascosti. Tino di Camaino, Caravaggio, Gemito, a cura di V. Sgarbi, catalogo della mostra (Napoli), Santarcangelo di Romagna (RN), 2016, con riferimenti all’opera di V. Sgarbi, pp. 24-28, scheda di P. Carofano, p.106, post scriptum di M. Gregori, p. 106. Il proprietario dell’opera conserva anche lettere private con il giudizio sull’attribuzione del dipinto a Caravaggio da parte di Denis Mahon 2004, Claudio Strinati 2010, Mina Gregori 2016.
[vi] Caravaggio. Originale und Kopien…cit., p. 248
[vii] Fabio Scaletti, La ridda delle attribuzioni, in Caravaggio vero, a cura di C. Strinati, Reggio Emilia, 2014, pp. 339-389.
[viii] Per il Protovangelo di Giacomo, principale fonte per il racconto del transito di Maria, e gli altri apocrifi sulla Vita della Vergine Maria, cfr., Apocrifi del Nuovo Testamento a cura di E. Erbetta, Marietti, 1981 e Apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di L. Maraldi, Casale, Piemme, 1994.
[ix] La sua presenza nella scena inizia a comparire nell’iconografia occidentale a partire dal XV secolo: cfr. Luca Bellocchi, L’evoluzione del tema iconografico della Dormitio Virginis in ambito italiano, in Annales, Series historia et sociologia, 22.2012.1, p. 73.
[x] Rabano Mauro, De vita beatae Mariae Magdalenae, XXVII; S. Tommaso d’Aquino, In Ioannem Evangelistam Expositio, XX, L. III, 6.
[xi] De gloria martyrum XXIX: «In ea urbe Maria Magdalena quiescit, nullum super se tegumen habens. In ea et septem dormientes habentur, de quibus aliqua, Domino iubente, in posterum narraturi sumus».
[xii] Vangelo secondo Matteo 27, 59-61: «Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò. Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l’altra Maria»; Vangelo secondo Marco 15, 47: «Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto»; Vangelo secondo Giovanni 19,25: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala».
[xiii] Vangelo secondo Giovanni 20, 11.15: «Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro… Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”». Poiché la tradizione ecclesiale in Occidente, raccolta in particolare nella Legenda Aurea, in seguito a un errore di interpretazione di san Gregorio Magno, identifica Maria di Magdala con la sorella di Marta e di Lazzaro e anche con la peccatrice che lavò i piedi di Gesù con le sue lacrime, si rafforza ancora di più il legame Maddalena-lacrime nell’iconografia cristiana e negli scritti di tanti autori ecclesiastici occidentali.
[xiv] Su questi riti si veda: Eugenia Salza Prina Ricotti, Amori e amanti a Roma tra Repubblica e Impero, 1992, L’Erma di Bretschneider, Roma 1992, p. 15.
[xv] Un approfondito studio su questo fenomeno delle copie e delle repliche è quello di Barbara Savina, Caravaggio tra originali e copie. Collezionismo e mercato dell’arte a Roma nel primo Seicento, Foligno, 2013.
[xvi] I risultati delle analisi sono pubblicati nell’articolo di Stéphane Loire – èlisabeth Ravaud, La mort de la Vierge du Caravage au laboratoire, in Techné, n. 23, 2006, pp. 40-44.
[xvii] I risultati delle analisi sono pubblicati da Francesco Petrucci, 2004, pp. 10,14-15
[xviii] I risultati di queste ulteriori analisi, comprendenti macrofotografia, fotografia a luce radente, radiografie, riflettografia, analisi XRF, sono pubblicati da Claudio Falcucci, 2011.
[xix] Clovis Whitfield, L’occhio di Caravaggio, Paul Holberton, Londra 2011 (distribuito in Italia da Officina Libraria, Milano).
[xx] Il documento di commissione è pubblicato da Maurizio Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, Roma, Newton Compton, 2005, pp. 493-94 al n. 69. Laerzio o Laerte Cherubini era avvocato civilista e penalista, nato a Norcia intorno al 1550, era stato anche giudice criminale e Conservatore. Nel 1586 pubblicò una importante raccolta di bolle pontificie. Aveva 5 figli, 4 maschi e una femmina. La sua professione di avvocato gli aveva permesso di avere una considerevole ricchezza.
[xxi] G.L. Masetti Zannini, Un dipinto del Caravaggio, in “Commentari”, XXII, 2-3, 1971, pp. 184-186.
[xxii] In proposito è ben ricostruita la vicenda di quella cappella da Maria Letizia Accorsi nel volume da lei curato con altri autori intitolato Architetture di Carlo Rainaldi nel quarto centenario della nascita, Gangemi Editore, 2012, in particolare alle pp. 73-75.
[xxiii] Lo stesso Giulio Mancini tentò di acquistare la pala per la sua cappella funebre di famiglia a Siena, come attesta anche una sua ulteriore lettera del 6 gennaio 1607, ma l’acquisto non andò a buon fine.
[xxiv] Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, 1619-21, ed. Salerno, 1956-57.
[xxv] Giovanni Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di papa Urbano VIII nel 1642, Roma, 1642, pp. 136-139.
[xxvi] In proposito è interessante lo studio di Guglielmo Scoglio, Stefano Tuccio S.J. ispirò Caravaggio e Shakespeare, Firenze, 2107.
[xxvii] Non poteva essere invece Caterina Vannini, altra celebre cortigiana senese, clamorosamente convertita e ritirata a vita penitente e mistica, morta in odore di santità: già nel 1584 ella si trovava non più a Roma ma a Siena in stato di penitenza, morendovi il 30 luglio 1606. Caravaggio ne sentì parlare – poiché la sua storia fece sicuramente scalpore all’epoca – ma non è ragionevole supporre che l’abbia potuta conoscere, né entro maggio 1606 il Merisi avrebbe potuto “celebrarne” la morte evocandola nella pala, dato che a quella data la Vannini era ancora viva.
[xxviii] L’ipotesi secondo cui Caravaggio volle raffigurare una prostituta morta annegata nel Tevere non trova riscontro documentale attendibile. Fosse vero che Anna Bianchini morì annegata nel Tevere – presumibilmente uccisa, non suicida –, potrebbe esserci un ulteriore elemento da considerare nella scelta di Caravaggio: Laerzio Cherubini aveva infatti relazioni con l’Arciconfraternita di Santa Maria dell’orazione e morte, nata una trentina d’anni prima per curarsi di dare sepoltura alle persone morte lasciate insepolte o trovate annegate nel Tevere. Rappresentare uno di questi casi nella pala sulla Morte della Vergine sarebbe stato un ulteriore tentativo da parte del pittore di introdurre nell’opera riferimenti al contesto ecclesiastico e ai temi più cari al committente, come il mostrare scalza la Madonna nel quadro destinato ai Carmelitani scalzi: tutti dettagli, però, che se anche furono pensati con questa intenzione, vennero poi clamorosamente fraintesi e vissuti con insofferenza.