La difficile condizione delle donne al tempo di Caravaggio; un punto di vista socio sanitario

di Paolo NUCCI PAGLIARO

Alcuni cenni sull’igiene e la condizione femminile tra Milano e Roma al tempo di Caravaggio

L’epoca in cui visse il Caravaggio fu tormentata da disordini ed instabilità, guerre, rivoluzioni, assolutismo ed eversione, stagnazione economica, ma caratterizzata anche da uno straordinario sviluppo commerciale. Nella storia delle malattie e della lotta intrapresa dall’uomo per combatterle si configura intorno a quegli anni la possibilità di considerare l’Italia al pari di un osservatorio privilegiato all’incrocio delle conoscenze mediche e delle epidemie. La penisola italiana, conformata come una lunga lingua di terra distesa in uno spazio liquido solcato da un intenso andirivieni di navi cariche di uomini e merci, si prestava infatti ad una ricettività patologica epidemica proveniente da ogni angolo del Mar Mediterraneo; di conseguenza fu anche a causa dell’intensificarsi degli scambi commerciali che venne favorita la diffusione di malattie endemiche provenienti dai territori più lontani determinando la cosiddetta unificazione microbica del mondo; gli uomini e gli animali con i loro parassiti ebbero la funzione di vettori morbiferi, mentre la microbiologia con il suo gioco complesso di veleni e tossine fece il restante per incrementare la patogenicità compresa tra la virulenza degli agenti infettivi e la resistenza degli organismi infetti.

La società italiana tra il XVI e il XVII secolo era quindi una “società aperta” agli utili commerci, ma purtroppo anche alle invasioni straniere e conseguentemente alle malattie da contagio apportatrici di sofferenze e di morte. Emblematiche risultano le condizioni di vita di due grandi città di quell’epoca: Milano e Roma, apparentemente diverse, ma ambedue simili per le problematiche sociali, economiche e sanitarie.

In Lombardia, che a quei tempi comprendeva un’estensione geografica più vasta rispetto all’attuale poiché includeva verso sud anche la città di Bologna, ebbero grande importanza le numerose filande che rappresentavano una grossa fetta dell’economia dell’intero territorio regionale; esse infatti consentivano di occupare proficuamente molta mano d’opera femminile che però veniva pagata all’incirca un quarto di quella maschile; contemporaneamente gli ambienti malsani dei filatoi e gli estenuanti turni di lavoro portarono ad un deciso aumento della tubercolosi, specialmente tra le donne.

La dominazione spagnola sulle colonie si basava ancora su un tipo di rapporto di sudditanza feudale, cioè protezione militare in cambio di un pesante regime fiscale che finì per causare il depauperamento dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio; furono le donne a pagare il prezzo più alto durante questo periodo così difficile, ciò nonostante che la loro umile presenza fosse indispensabile al buon andamento dell’economia domestica, su cui si basava il funzionamento della società del tempo.

Dal Cinquecento alla fine del secolo successivo l’eterno dibattito sulla supremazia tra l’uomo e la donna si riaccese nuovamente, anche causa dell’instabilità politica e del conseguente cambiamento del quadro di riferimento sociale, mentre il mondo ecclesiale si andava sgretolando in reticoli di novella spiritualità esasperata e gli stati si appoggiavano al più rampante mercantilismo economico. I testi, le immagini, gli archivi ci trasportano nel cuore della discordia: la donna veniva definita come maliziosa, imperfetta, creatura di eccessi e misteri diabolici, mortifera e scaltra; inoltre le femmine erano ritenute inferiori ai maschi e intellettualmente meno dotate di loro. Il nucleo sociale più importante era la famiglia e l’uomo ne era il capo indiscusso, cosicché quando la donna era stata fecondata e si era sgravata dei figli, ella aveva compiuto il suo principale dovere verso la società. Allo stesso tempo riprendeva vita una novella concezione del gentil sesso idealizzato grazie alla riscoperta dell’estetica classica come simbolo di bellezza immortale.

Afrodite non fu più una dea discussa e temuta, anzi divenne un modello da seguire, mentre si coltivava una sempre maggiore attenzione per la cura e il mantenimento della bellezza, ricorrendo all’aiuto di trucchi, creme e lozioni che venivano usate indistintamente da nobildonne e cortigiane. Una pelle bianca, piuttosto che abbronzata era ritenuta l’immagine dell’avvenenza, del benessere e della ricchezza. Essenze venivano profuse per coprire gli odori fisici e degli ambienti in cui si viveva, le mode cambiavano velocemente ed i vestiti erano eseguiti per sottolineare la bellezza del corpo e, nonostante l’invito ufficiale del clero all’umiltà e alla penitenza, la condizione dei ceti femminili più agiati era migliorata, grazie anche al diffondersi della lettura di libri in cui si insegnavano le norme igieniche più elementari; tuttavia i testi maggiormente diffusi erano quelli di intrattenimento: il Decameron, l’Orlando Furioso e la Gerusalemme liberata i più noti, ma tanti altri stimolavano, nelle poche fortunate, la voglia di conoscenza oltre che l’interesse e il desiderio ad aprirsi al mondo esistente fuori dalle mura domestiche. Queste letture e gli argomenti di varia natura in essi trattati favorivano l’uso corretto della buona conversazione che era considerata un’arte, così come la conoscenza della musica, praticata dalle signore dei ceti più abbienti.

Va detto che, col trascorrere del tempo, le trasformazioni sociali ponevano sempre più le premesse per una più ampia e consapevole partecipazione delle donne anche alla vita politica, artistica e culturale, (si veda ad esempio in questo numero di About Art la vicenda di Plautilla Bricci https://www.aboutartonline.com/wp-admin/post.php?post=3354&action=edit) producendo dibattiti, spesso anche dispute accanite, sulle capacità, sui ruoli sociali della donna e sul concetto della sua inferiorità (si consideri ad esempio il testo dal titolo I donneschi difetti del ravennate Giuseppe Passi, Venezia, 1599). Nonostante tutto ciò, le considerazioni giuridiche e politiche diffuse tendevano a ribadire l’esigenza di mantenere le consuetudini “secolari”, conservando alcuni diritti ma solo alle donne di rango, che li acquisivano grazie ai mariti.

Caravaggio, Cenna in Emmaus, part., Milano, Pinacoteca di Brera

La gran parte delle donne continuava a condurre comunque una vita mortificante, escluse come erano dagli alti livelli dell’istruzione oltre che da ogni ruolo realmente significativo, dunque consegnate vita natural durante al matrimonio o alla vita religiosa, vivendo per lo più recluse in casa, con le finestre sbarrate e il divieto di conversare con gli estranei. Quando uscivano per entrare in chiesa o per fare delle commissioni erano accompagnate da altre donne, di solito anziane.

La “città delle donne” era sicuramente Roma, dove tante fanciulle giungevano in cerca di fortuna, molte delle quali intenzionate a praticare la professione più antica del mondo. Giovani e giovanissime arrivavano nella capitale pontificia da Italia, Spagna, Olanda, Germania e Francia, sia dalle città, sia dalle campagne, poiché l’Urbe, essendo una metropoli popolata da centomila e più anime, costituiva un richiamo irresistibile per queste bisognose che per lo più sarebbero state poi registrate nei libri delle parrocchie come “curiales”: le sventurate fanciulle che, specie nei momenti di grande carestia, si prostituivano temporaneamente, aumentando considerevolmente il numero delle meretrici.

Un altro fattore che causava il notevole incremento della prostituzione cittadina era quello legato all’eccedenza della popolazione maschile: per legge infatti l’esercito papalino doveva essere composto da scapoli, mentre i diplomatici lasciavano spesso le proprie mogli nei paesi d’origine, al pari dei mercanti e di molte altre categorie di lavoratori, cosicché la richiesta di prostitute restava alta, a fronte di un’offerta organizzata ed estremamente varia, con una cospicua presenza di “cortigiane d’alto bordo”; queste ultime erano rinomate per la loro bellezza, per l’aspetto elegante e per l’intrigante conversazione, oltre che per la loro fama di amanti impareggiabili, bramate da nobili, cavalieri e prelati. Molte di esse, che giungevano dalla campagna spesso in condizioni di salute già precaria, praticavano il meretricio presso le loro abitazioni o a domicilio del cliente, oppure nel retrobottega dei commercianti di candele: in questo ultimo caso erano chiamate prostitute “da candela” o “da lume”, poiché usavano i moccoli per misurare la durata delle loro prestazioni.

Quando Michelangelo da Caravaggio arrivò nel rione romano di Campo Marzio vi trovò strade strette e sporche, botteghe squallide di carbonari e straccivendoli, bordelli e osterie maleodoranti che brulicavano di giovinastri lesti a colpir di spada; una accozzaglia di disperati che si guadagnavano da vivere barando al gioco e borseggiando gli sprovveduti di passaggio, né mancavano le meretrici poco più che bambine pronte a concedersi per fame, in cambio di un bicchier di vino o di qualche tozzo di pane. Siamo intorno alla metà degli anni Novanta del Cinquecento e Michelangelo resterà in questo quartiere, abitando umide stanze, salvo forse negli anni in cui fu ospite di monsignor Del Monte, fino alla drammatica domenica del maggio 1606, quando uccise Ranuccio Tomassoni e diede iniziò all’ultima fase della sua tribolata esistenza. In quelle strade, dove la vita pulsava nella sua accezione più esasperata e cruda del termine, c’era tutto il suo mondo. Impossibile non vivere immerso in quella realtà, dalla quale il pittore mutuò le conoscenze, gli amori, l’ispirazione.

Nella Roma della Controriforma le prostitute e le cortigiane, sebbene confinate dai bandi papali nei quartieri-ghetto (tra essi si ricorda quello dell’“Ortaccio” in riva al Tevere nei pressi del Mausoleo di Augusto), riuscivano ugualmente ad arrivare ovunque: nelle più infime case di tolleranza, come nei palazzi di principi e prelati, o nei segreti casini di caccia.

Fu Fillide Melandroni, ancora acerba, che il Merisi forse vide nelle strade del quartiere mentre adescava i clienti sotto lo sguardo vigile del suo protettore-amante Ranuccio Tomassoni. Probabilmente il pittore iniziò a frequentarla come cliente e verosimilmente anche quando in lui cominciò a crescere un sentimento, forse corrisposto dalla giovane, continuò a spendere le sue non sempre rilevanti finanze per poter avere i suoi favori “come uno qualunque”. Con uno struggente rassegnato e al tempo stesso perverso piacere la vedeva ogni giorno accompagnarsi con molti uomini. Ma nel ritratto che le fece, quello famoso andato distrutto a Berlino durante i bombardamenti nel 1945, non c’è traccia di quella vita triste e squallida: lei è solo Fillide, una bella ragazza dalle chiome scure e dallo sguardo profondo, con in mano un ramoscello fiorito, una giovane donna che ormai non è più una semplice puttana di strada, ma un’avvenente cortigiana richiesta da nobili e presuli e ciononostante destinata a morire a trentasette anni nel 1618.

Certo il Merisi non aveva in testa solo Fillide, ma anche “Lena” – Maddalena Antonietti -, prostituta nota in tutta l’Urbe poiché in quegli anni faceva parte della vasta schiera di “curiales”, cioè le meretrici d’alto bordo che “rasserenavano” la vita di alti prelati e nobiluomini romani. Fu spesso vista in compagnia del pittore, tanto da essere identificata dagli abitanti del quartiere come la “donna di Michelangelo”. Lei aveva amicizie altolocate, per esempio giovanissima divenne l’amante del Cardinal Montalto, più tardi fu la volta del Cardinal Peretti, nipote del Papa Sisto V. Michelangelo potrebbe  averla scelta in virtù della sua fama, soprattutto in ambito ecclesiastico, per dare il volto alla Madonna dei Pellegrini (Roma, Chiesa di S.Agostino) e alla Madonna dei Palafrenieri (Roma, Galleria Borghese) ma anche Lena, come quasi tutte le modelle del Caravaggio, morì giovane, all’età di ventotto anni nel 1610.

Caravaggio Maddalena Doria (part.)

Capelli lunghi rossi, figlia di prostituta e prostituta a sua volta fu pure Anna (Annuccia) Bianchini, amica di Fillide; erano giunte entrambe da Siena, insieme: si sa che aveva un carattere impetuoso, sempre in mezzo ai guai, come testimoniano le carte giudiziarie. Visse una vita al limite della sopravvivenza, continuamente vittima di violenze ed angherie, ben documentate dai verbali della polizia. Si dice che il suo volto sia quello presente in alcuni dipinti giovanili del pittore, dalla Maddalena Doria Pamphilj al Riposo durante la Fuga in Egitto del medesimo museo romano. Anche Anna morì precocemente nel 1604, aveva solo venticinque anni.

All’interno dei quadri di Caravaggio non è invece facilmente rintracciabile Domenica Calvi (Menicuccia) e, in generale, di lei non si sa molto, se non che viveva in una bella casa e sembra s’intrattenesse col cardinal D’Este.

Fillide, Lena, Annuccia e Menicuccia, come la gran parte delle altre donne del loro tempo non avevano consapevolezza e conoscenza di nozioni di igiene, tantomeno di prevenzione sanitaria. Loro, scomparse ancora giovani e verosimilmente immortalate nelle tele del Caravaggio come belle, fiorenti e sane, erano quasi certamente già minate dalle patologie più ricorrenti di quell’epoca travagliata e, al pari di tante altre, confidavano più nella bontà delle credenze popolari piuttosto che nei pochi rimedi proposti dalla scienza medica.

Era ad esempio opinione comune che un bagno caldo, dilatando i pori della pelle, facilitasse l’assorbimento delle malattie; si era convinti inoltre della possibilità che avventurosi spermatozoi vaganti nell’acqua tiepida di una tinozza utilizzata da più persone di sesso diverso, potessero fecondare una donna: erano le cosiddette “gravidanze da bagno”. Di conseguenza nacque un vero e proprio terrore nei confronti del liquido elemento e ci si orientò verso nuove tecniche di igiene “asciutte”, mentre nel tentativo di limitare il diffondersi dei contagi epidemici vennero chiusi i bagni pubblici ed i bordelli che, col trascorrere del tempo erano diventati più o meno la stessa cosa, assommando così ai motivi di ordine igienico quelli di ordine morale e sociale.

È ovvio che in un tale contesto le classi sociali più povere abbandonassero ogni tipo di pulizia, mentre chi poteva permetterselo cominciò a curare principalmente le parti più visibili del corpo; ciononostante era vivamente sconsigliato l’uso dell’acqua, a meno di miscelarla con aceto e vino, poiché si era convinti che rendesse la pelle troppo chiara d’inverno e troppo scura d’estate; si suggeriva perciò di frizionare il viso, le ascelle ed i capelli con un pannicello o una spugna profumata e, per quel che riguardava i capelli, di usare la cipria come fosse una sorta di shampoo secco; il profumo entrò dunque necessariamente nella toeletta delle donne poiché si riteneva che, oltre a coprire i cattivi odori, avesse anche un’azione disinfettante.

Ogni genere di malattia era sempre ben presente sul territorio, aggravata dalla diffusa consuetudine della popolazione delle città e delle campagne, di convivere con gli animali domestici (maiali, pecore, asini, galline, oche, ecc.) che con le loro feci contribuivano ad aumentare le infezioni e le infestioni; oltre a ciò provvedevano di volta in volta le acque inquinate, la totale mancanza di abitazioni sane e di un abbigliamento adeguato, ad accentuare la diffusione delle epidemie.

L’alimentazione scarsa o avariata complicava poi ulteriormente le cose: nelle città era in uso, per il popolino, cibarsi degli avanzi delle mense dei ricchi, commerciati da cuochi e personale di servizio dopo una prima grossolana cernita. Tutte queste situazioni sanitarie sfavorevoli erano, ovviamente, comuni ad entrambi i sessi, tuttavia le donne avevano ancora altro grosso problema di cui preoccuparsi seriamente: i parti, con le relative conseguenze negative che molto spesso le conducevano alla morte.

Le infezioni da parto che furono frequenti fino ai primi decenni del Novecento, erano infatti le cause più comuni dei decessi femminili: la posizione anomala del nascituro, le manipolazioni inadeguate di ostetriche improvvisate, le conseguenti emorragie inarrestabili oltre alle immancabili infezioni puerperali, avevano esiti quasi sempre letali. Inoltre l’alto numero delle partorienti di giovanissima età, conseguenti ai matrimoni celebrati per motivi dinastici, economici o per stringere alleanze politiche, costringevano le fanciulle, poco meno che bambine, ad essere maritate a uomini maturi bisognosi di eredi, condannandole così a partorire a soli 13 o 14 anni.

Ovviamente in tali condizioni generali di scarso igiene, i parassiti non potevano che pullulare. È doveroso spendere qualche parola riguardo ai pidocchi, visto che essi erano assolutamente presenti e compagni abituali della vita delle persone; inoltre erano insetti molto democratici, poiché colonizzavano indistintamente ricchi e poveri. Per tale ragione anche nei dipinti spesso venivano ritratti personaggi sorpresi nell’atto di spidocchiarsi: schiacciandoli manualmente o allontanandoli con graziosi pettinini muniti di lungo manico. Lo “spidocchiarsi” era una pratica talmente comune e quotidiana che Monsignor Della Casa nel suo Galateo invitava a non farlo soltanto a tavola durante le riunioni conviviali o dinanzi agli ospiti di riguardo.

Una simile situazione non poteva certo migliorare le condizioni di salute delle popolazioni, ovviamente non solo a Milano e Roma, cosicché la vecchia peste bubbonica, polmonare, setticemica, ricompariva periodicamente nelle città e nelle campagne. Era una funerea presenza costante che si rifaceva viva quasi ad ogni generazione, con esiti negativi che facevano precipitare la curva demografica e quella economica.

La vita media, già dimezzata dopo la trecentesca Peste Nera, durava fatica a risalire e la grande paura del contagio era una vasta ombra nel chiaroscuro esistenziale, da cui riemergeva il medioevale “senso della morte” come castigo divino; ma con la vecchia peste e la nuova pestilenza, altre malattie si accampavano stabilmente in Italia ed in Europa.

L’Italia pur essendo climaticamente ben difesa dalle Alpi si mostrò indifesa nei confronti delle malattie portate dai Lanzichenecchi imperiali che marciavano verso Roma, con il loro seguito di dissenterie e di tifi, propiziati dall’assoluta scarsità di igiene e dall’ammassamento umano dei loro accampamenti. “Morbo castrense” era chiamato il tifo petecchiale, una “peste di guerra”, dove il pidocchio dava il cambio alla pulce nel veicolare l’agente infettivo, cioè una rickettsia, un microrganismo patogeno a metà strada tra il batterio e il virus.

Le patologie legate alla quasi totale mancanza di igiene, sia del corpo, sia dell’ambiente, erano principalmente dovute al colera, al tifo, alle malattie virali, alle infestazioni da parassiti e alle svariate affezioni della pelle che, insieme a quelle veneree, furono le patologie più frequenti sotto forma di Blenorragia, Candidosi, Condilomi e Clamidie. La sifilide era diffusissima e nonostante gli anatemi del clero e i divieti governativi contro la prostituzione essa continuava a propagarsi a causa della disinvolta frequentazione delle meretrici, contagiando così anche una larga parte della popolazione femminile non dedita alla vendita del proprio corpo.

I rimedi contro il cosiddetto “mal franzoso” o “mal napolitain”, perché portato nella città partenopea dall’invasione delle truppe di Carlo VIII, erano quantomeno fantasiosi; eppure nonostante i risultati fossero per lo più sconfortanti, ogni medico era molto orgoglioso delle proprie cure. Essendo spesso pure astrologo e ciarlatano, il medico di quell’epoca raccomandava i modi di assunzione ed i tempi consigliati dei suoi rimedi che, essendo ritenuti miracolosi, dovevano rispettare sempre la giusta posizione degli astri ed essere in perfetto accordo con l’ascendente zodiacale del malato.

di Paolo NUCCI PAGLIARO   Bologna   dicembre 2017