Lucio Fontana e le tensioni ‘barocche’; alla Galleria Borghese prosegue il dialogo con l’arte contemporanea (fino al 28 luglio)

di Massimo FRANCUCCI

Lucio Fontana

Terra e Oro

Prime impressioni

Galleria Borghese, 22 maggio – 28 luglio 2019 

Il nuovo evento espositivo della Galleria Borghese di Roma si propone di celebrare il genio di Lucio Fontana, artista profondamente italiano anche se nato in Argentina, a Rosario di Santa Fè nel febbraio del 1899.

È questo il modo in cui, dopo il caso più recente di Picasso scultore, il museo intende proseguire il confronto col Novecento che ha varcato già le porte della Galleria in occasione delle esposizioni dedicate ad Alberto Giacometti e a Francis Bacon e Caravaggio. Tutto ciò non può che avere risvolti positivi dato il continuo volgersi all’indietro dell’arte del secolo breve, anche nelle sue fasi più avanguardiste, anche perché la nostra sensibilità contemporanea è sempre solleticata dalla possibilità di istituire parallelismi tra diversi sentire storici.

Il Casino voluto dal cardinale Scipione fuori porta Pinciana è un preziosissimo scrigno del barocco, e più volte è stata definita barocca l’arte di Lucio Fontana, esponente più celebre e più importante dello Spazialismo.

Chiaro punto di riferimento per l’artista nei suoi anni di formazione fu il Futurismo di sponda boccioniana,

che secondo Roberto Longhi si poneva di fronte al cubismo come il barocco rispetto al rinascimento, al cui cerchio sostituì l’ellisse, ossia un cerchio compresso, energia, movimento.

Ogni volta che l’arte raggiunge una saturazione di staticità, alla corporeità s’aggiunge, o combinandosi o imponendosi, la ricerca del moto”.

E gli spazialisti avrebbero portato questa ricerca ben oltre il movimento, all’inseguimento del superamento del confine del dinamismo plastico futurista nella prospettiva di creare uno spazio nuovo. A tale scopo Lucio Fontana si sarebbe dovuto distaccare da quanto proposto dai principali scultori italiani attivi negli anni della sua giovinezza, ossia Arturo Martini e Adolfo Wildt, che pure lo aveva accolto tra i suoi allievi, e col quale si sarebbe aperta una cesura insanabile. D’altra parte la rottura col maestro era il solo modo, ci conferma l’artista, per “trovare una nuova strada, una strada che fosse tutta mia”.

Il primo a definire barocco Fontana è stato il compianto Enrico Crispolti

in un testo Carriera “barocca” di Fontana, pubblicato nel giugno del 1959 su “Il Verri”, celebre rivista fondata da Luciano Anceschi, che aveva suggerito l’uso di quel termine a lui così caro, ed in seguito dato alle stampe in forma autonoma nel 1963: profondamente barocche sono ad esempio le ceramiche di Fontana che, nella diversità di dimensioni, istituiscono sempre un dialogo proficuo con l’ambiente circondante. Una tecnica particolarmente congeniale per l’artista, quella di plasmare la materia infondendovi la giusta vitalità anche per il fatto che, dovendo la ceramica essere realizzata in un giorno solo, richiede un’esecuzione risoluta, rapida e particolarmente ispirata.

Nella sala grande viene esposto l’Arlecchino in mosaico policromo (1948) che oggi si definirebbe site specific poiché realizzato per il soffitto dell’atrio di ingresso del cinema Arlecchino di Milano.

L’opera se ne stava appesa in alto e aveva un particolare sistema di illuminazione sul retro, tale da trasformarla in una sorta di plafone. La vitalità dell’opera è molto evidente, come la sua forza che può avere qualche precedente, forse, in alcune decorazioni moderniste di Gaudì, l’unico altrettanto solleticato dalle possibilità espressive del mosaico in scultura.

Essa dialoga in qualche modo col Marco Curzio di Pietro Bernini, mentre un po’ persa negli spazi sovradimensionati della sala affrescata da Mariano Rossi risulta la serie plastica dedicata alla Passione di Cristo con numerose Crocifissioni in cui Fontana tende al limite la forza espressiva della materia, un confine che sarà da lui stesso superato solo nella veste di “pittore”, ma per scoprirlo bisogna salire al piano superiore, quello della pinacoteca.

Qui nella sala di Lanfranco una magica alchimia lega il Concetto spaziale della collezione Valsecchi (1957) all’autoritratto di Gian Lorenzo Bernini, a dimostrare che anche come pittore Fontana resta profondamente barocco in ogni accezione del termine.

 

È incredibile come le diverse sfumature di nero giallo e oro riescano a creare un trait d’union con la stesura libera e sincera della tela seicentesca.

Tutto il contrario di quanto avviene di fronte, dove una serie di tagli è posta al cospetto di alcune importanti opere del Quattrocento ferrarese, da Ludovico Mazzolino al Garofalo.

Qui i rapporti sono infatti opposti e sempre più chiaramente lo spazio creato da Fontana con il suo rompere la superficie è tutt’altro rispetto alla volontà di controllare il mondo della visione prospettica rinascimentale. Dal tentativo di regolarizzare si passa alla più profonda volontà di potenza, di creare qualcosa di nuovo, di dare forma all’infinito liberando l’energia luminosa.

Per questo stesso motivo è strano l’aver fuggito il confronto serrato col pittore della luce, il Caravaggio:

è noto che Fontana spesso completava le sue tele con una garza nera retrostante, allo scopo di assicurarsi l’effetto buio, quello stesso contrasto tra luce e tenebra che è la chiave della rivoluzione del pittore lombardo.

Allo stesso modo si è solo accennato al comune sentimento che lega le sculture berniniane ai tagli, anch’essi impregnati di spirito barocco, in quanto rappresentanti

“la massima espressione di quella continuità e di quell’ebrezza barocca che allude all’estasi, raggiungendo un tale livello dello spirito attraverso il salto di qualità della materia stessa: appunto l’estasi della materia”.

Spero di non essere troppo ardito, ma queste parole particolarmente ispirate di Giorgio Cortenova richiamano alla mente la celebre Estasi berniniana di Santa Teresa, col suo estatico taglio del dardo angelico e la capacità di evocare, in scultura, quello che non c’è, e quel che non si vede.

Massimo FRANCUCCI    Roma   maggio 2019