Lo “stravagante Caravaggio” e il “suo soggiorno fatale in Messina”, nelle “memorie” di Gaetano Grano e Philipp Hackert

di Valentina CERTO

Gaetano Grano e Philippe Hackert: le Memorie de’ pittori messinesi.

Nel 1792 furono pubblicate a Napoli le Memorie de’ pittori messinesi[1] di Jacob Philipp Hackert per la Stamperia Reale.

1. Augusto Nicodemo, Jakob Philipp Hackert  nel suo studio, 1797, Alte Nationalgalerie, Berlino

Hackert nato nel 1732 a Prenzlau era, come il padre, un pittore paesaggista. Visse per molto tempo a Roma, poi a Napoli dove fu nominato “Pittore di corte” da re Ferdinando IV di Borbone e trascorse la sua intera vita, stimato ed apprezzato come artista e intellettuale, viaggiando per l’Italia e per il mondo, tra cui Svezia, Francia, Russia. (FIG 1)

Si recò in Sicilia nel 1777, durante gli anni del famoso grand tour e nuovamente nel 1790. A memoria del suo soggiorno sull’isola si può ammirare la splendida veduta del porto di Messina nell’opera I porti del regno, commissionata dal re in persona, che l’aveva nominato anche soprintendente di corte, realizzata dal 1787 al 1793. (FIG. 2 )

 

2. Jacob Philipp Hackert, Veduta del porto di Messina dal Palazzo del Senato, 1791, Caserta, Palazzo Reale

Tutte le notizie per scrivere le Memorie de’ pittori messinesi, come riconobbe lo stesso Hackert, gli vennero fornite dal messinese monsignor Gaetano Grano che, al momento della pubblicazione del testo, cancellò il proprio nome risultando anonimo. Molto probabilmente Hackert nel suo viaggio in Sicilia dell’aprile del 1790, si accordò con il dotto messinese affinché gli fornisse notizie storico artistiche sui pittori che l’avevano affascinato nei suoi antecedenti viaggi.

Monsignor Gaetano Grano fu una delle personalità più importanti di Messina. Nato nel 1754, a soli diciotto anni era già precettore di retorica nella Reale Accademia messinese. Nonostante la laurea in medicina e la carriera ecclesiastica come gesuita, grazie alla nomina di bibliotecario della Reale Accademia Paolina, poté dedicarsi alla ricerca ed alla scrittura senza tralasciare i suoi interessi per la numismatica, la fisica, la filosofia, la paleografia, la poesia e la storia. Studioso delle fonti passate, per studiare gli artisti sicuramente lesse gran parte delle notizie nelle celebri Vite di Susinno.

Nelle Memorie de pittori messinesi non venne dedicata un’intera biografia al Caravaggio, ma fu soltanto menzionato in margine alla vita di Andrea Suppa poiché al giovane pittore fu dato il compito di ripulire, per la prima volta e dopo solo pochi decenni dalla sua esecuzione, La Resurrezione di Lazzaro.

3 Caravaggio, La Resurrezione di Lazzaro, 1609, (MuMe) Museo Regionale di Messina.

Il quadro La Resurrezione di Lazzaro (FIG. 3) è un’opera documentata e assai studiata. Da un documento del mese di dicembre 1608, ormai disperso, degli atti del notaio Plutino, trascritto nel 1906 dallo studioso messinese Virgilio Saccà, sappiamo che Giovan Battista de’ Lazzari, ricco commerciante genovese, residente a Messina, si impegnava a costruire l’intera cappella principale della Chiesa di San Pietro dei Pisani dei Crociferi, ordine fondato da San Camillo de’ Lellis, che si occupava delle cure spirituali e corporali dei malati, e di adornarla con quadro raffigurante la Madonna, San Giovanni Battista ed altri santi.

Quel quadro, come ci informa una nota, dello stesso documento, datata giugno 1609, sarà poi la Resurrezione di Lazzaro dipinta da “fr. Michelangelo Caravaggio”, definito, quindi, ancora “militis gerosolimitani”. Nella Resurrezione di Lazzaro l’ambientazione è cupa e funerea e la scena concitata. Tutto il quadro è un’esaltazione della vita e della morte, il protagonista infatti con una mano sfiora ancora il teschio e con l’altra si aggrappa alla luce salvifica. Una folla assiste al miracolo narrato nel Vangelo di Giovanni.

Le Memorie de’ pittori messinesi abbraccia ben tre secoli e suddivide gli artisti in tre gruppi: pittori anteriori a Polidoro Caldara, pittori della scuola di Polidoro Caldara e pittori successivi a questa scuola. Quindi da Antonello da Messina fino a Luciano Foti.

Il restauro di Andrea Suppa si colloca pochi decenni dopo l’esecuzione del dipinto. Fu ampiamente narrato anche da Susinno e Grosso Cacopardo nelle loro raccolte di biografie dei pittori messinesi o che operarono nella città. Andrea, nato nel 1628 a Messina, era uno dei giovani pittori più amati all’epoca ed un artista molto poliedrico dal momento che padroneggiava diverse tecniche pittoriche, ad olio, a fresco, a “guazzo”, e lavorava nella ristrutturazione di numerose chiese e santuari. Era anche musicista, poeta, scenografo ed abile copista.

Nella nota 25 su Andrea Suppa si legge:

Fu dato a ripulire al Suppa un famoso Quadro del Caravaggio rappresentante la Risurrezione di Lazaro610, e che tuttavia si conserva nella Chiesa de’ PP. Crociferi. Appena il Pittore vi pose la mano lavandolo colla semplice acqua, che lo vide tutto ad un tratto divenir nero. Questo colpo unito alle dicerìe degli emoli ed all’istanze de’ padroni, che volevano il prezzo del Quadro lo condussero alla tomba. Il Quadro fu facilmente poi restituito da un congresso di Pittori perché osservarono avervi lo stravagante Caravaggio dipinto le figure ad olio sul fondo a guazzo. Cade qui in acconcio far parola del soggiorno fatale del Caravaggio in Messina per più di un anno, e ciò fu dopo il suo ritorno da Malta. Ei fu dal Senato di Messina immediatamente impiegato a dipingere la tela della Natività nella Chiesa de’ Cappuccini, che è una delle migliori sue opere, avendone riportato il compenso di mille scudi. Lavorò ancora delle altre opere sì per Chiese, che per particolari cittadini: ma il suo naturale violento e rissoso lo portò a ferir gravemente in testa un Maestro di Scuola per lieve cagione, e perciò fu costretto a fuggirsene.

Dalla biografia di Andrea Suppa scritta da Hackert con le notizie di Grano, sappiamo che al pittore era stato affidato il compito di ripulire

“il famoso quadro del Caravaggio rappresentante la Risurrezione di Lazaro e che tuttavia si conserva nella chiesa de’ PP. cappuccini[2]”.

Qui si può notare una distrazione dell’Hackert, dal momento che il quadro si conservava nella chiesa di san Pietro detta dei Pisani dei Padri Crociferi. Si racconta che il giovane artista cercò di ripulire la tela con la semplice acqua ma, ad un tratto, tutto il quadro divenne nero. La svista e le successive accuse da parte della città provocarono addirittura la morte del Suppa, infatti

“questo colpo unito alle dicerie degli emoli ed all’istanze de’ padroni, che volevano il prezzo del quadro lo condussero alla tomba”.

Il pittore morì presumibilmente di infarto credendo di aver rovinato la luminosità della Resurrezione del Caravaggio. Secondo l’Hackert, il quadro fu comunque recuperato e riportato al suo splendore da un congresso di pittori che notarono che Caravaggio, per fortuna, aveva dipinto le figure ad olio “sul fondo a guazzo”.

Questo aneddoto era già stato riportato precedentemente anche da Susinno nelle Vite de’ pittori messinesi, sempre nella biografia di Andrea Suppa dove racconta che il giovane pittore era un fervente ammiratore del Caravaggio, copiava diligentemente i suoi quadri e spesso amava visitare “la chiesa de’ Padri Crociferi per l’amore che faceva alla Resurrezione di Lazzaro”.[3] Anche secondo il biografo, un giorno i padri chiesero al pittore di restaurare la meravigliosa tela. Onorato, Suppa accettò l’incarico, ma appena iniziò a lavorare

“quella pittura mandò fuori tanta nerezza che Andrea restò soprafatto dallo spavento ed i padri, credendola dall’intutto rovinata, ne ricercarono il valore”.

Poco dopo il dipinto, una volta asciugato, divenne bianco a causa delle comparsa del “sale tartaroso”, e fu la causa della morte dell’infelice pittore che “recise nel più bel verde degli anni un sì bel fiore della pittura il 1671, li 11 del mese di maggio”. 

La storia fu ripresa successivamente anche da Giuseppe Grosso Cacopardo nella sua edizione delle Memorie de’ pittori messinesi del 1821. Lo scrittore, sempre nella biografia del Suppa, tramanda “dell’inopinato accidente che fu la causa della perdita di questo pittore”. L’improvvisato restauratore credendo perduto il quadro ed anche causa delle “dicerie degli emoli, ed alle istanze dei padroni, che ne domandarono il prezzo[4]” si spense. Tempo dopo la tela che, in realtà, “non aveva cosa alcuna patito”, ritornò all’antico splendore e l’autore testimonia che all’epoca in cui scriveva era ancora visibile nella chiesa dei Padri Crociferi.

Se la questione fosse accertata, si può intuire che già nel 1670, ai tempi di Andrea Suppa, il quadro presentava dei problemi di conservazione[5], era annerito o semplicemente poco leggibile. Forse ubicato in chiesa a diretto contatto con il muro, poteva averne assorbito l’umidità e per questo aver avuto bisogno di un’operazione di restauro, oppure lo stile del Caravaggio non era stato pienamente compreso e si sentiva l’esigenza di un restauro per renderlo più luminoso, quindi leggibile. I Crociferi chiamarono il giovane Andrea perché conosceva benissimo la tela ed era un artista talentuoso e versatile. Sicuramente per il restauro usò acqua mista ad una sostanza acida o basica, per bagnare il dipinto, che per reazione inducono la formazione di una pellicola biancastra di biossido di silicio. Usando soltanto l’acqua non avrebbe ottenuto alcun risultato perché la vernice e l’olio avrebbero opposto una barriera alla sua penetrazione fino allo strato preparatorio.

Non sono giunte a noi notizie di altri restauri da parte di Suppa, per stabilire bene la tecnica utilizzata, l’unica informazione arriva dal Susinno quando scrive che il pittore Antonio Gaetano per restaurare e riportare la bellezza originale di un affresco proprio di Andrea Suppa, lo lavò “con acqua di mare, verniciandola poi con chiara d’ova”.

Dopo il danno, si riunì una dieta di pittori che, grazie ad incessanti lavori e studi, riuscì, miracolosamente, a rimediare al deterioramento e dare nuovamente luminosità al dipinto.

Dopo la breve parentesi relativa al restauro di Suppa, il racconto delle Memorie de’ pittori messinesi di Hackert- Grano ci informa che Caravaggio[6] approdò a Messina dopo Malta e vi rimase per più di un anno.

In quei mesi “fu immediatamente impiegato” a dipingere la tela della Natività per i Frati Cappuccini, “che è una delle migliori sue opere” commissionata dal senato messinese[7] e pagata mille scudi. (FIG. 4)

Caravaggio, L’adorazione dei Pastori, 1609, (MuMe) Museo Regionale di Messina.

Il compenso di mille scudi per l’Adorazione, unica opera elogiata in quanto vicina al gusto classicista preferito dagli autori, fu forse ripreso da quello che Susinno ci tramandò per la tela del Lazzari ma è innegabile come, nonostante il “Magno pretio” di cui parla Samperi, il pagamento di tale somma appare incredibile.

In seguito, il testo informa che Caravaggio lavorò per moltissime altre chiese ed anche per privati cittadini, purtroppo senza menzionare le opere in questione. Anche Grano riferì allo scrittore-poeta residente a Napoli notizie molto negative riguardo la personalità del Caravaggio: rissoso, pianta grane, violento, tanto che negli ultimi giorni del suo soggiorno ferì gravemente in testa un maestro di grammatica, Carlo Pepe, per una banale scusa e per questo fu costretto a lasciare la Sicilia. Non ci sono informazione circa il luogo raggiunto dal pittore per fuggire alla giustizia. Terminano così le digressioni sul Caravaggio a margine della biografia di Andrea Suppa.

VALENTINA CERTO, Messina 1 Agosto 2021

NOTE

 [1] J. P. Hackert-G. Grano, Memorie de’ pittori messinesi, Napoli 1792.
[2] J. P. Hackert-G. Grano, Memorie de’ pittor messinesi, ed. a cura di G. Molonia, Messina 2000, p. 105.
[3] F. Susinno, Vite de’ pittori messinesi, cit. p. 218.
[4] G. Grosso Cacopardo, Memorie de’ pittori messinesi e degli esteri che in Messina fiorirono dal secolo XII sino al secolo XIX, Messina 1821, p. 155.
[5] R. Lapucci, Documentazione tecnica sulle opere del Caravaggio, in Come dipingeva Caravaggio: le opere messinesi. Quaderni dell’attività didattica del Museo Regionale di Messina, Messina 1994, p. 36.
[6] Ivi, p. 46.
[7] Questa notizia è appresa dalle Vite del Susinno.

BIBLIOGRAFIA

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