L’Idomeneo di Mozart a Palermo: il sobrio classicismo di Pier Luigi Pizzi

di Elena TAMBURINI

L’Idomeneo di Mozart a Palermo: il sobrio classicismo di Pier Luigi Pizzi

Ma che magnifico colpo d’occhio offre questo teatro Massimo.

Chissà se è una scelta del regista Pizzi quella di iniziare lo spettacolo colorando i palchetti di un bellissimo, sfumato e delicatissimo rosso scuro oppure se è l’uso di ogni sera; ma l’effetto è davvero suggestivo, anche perché tutto nello spettacolo di cui qui scrivo sarà poi giocato nei toni del bianco e del nero.

Sono qui per l’Idomeneo, la prima opera di Mozart: grosse Oper, o opera seria, o dramma eroico, come fu variamente chiamato, anche a seconda di sfumature di significato che oggi tendiamo a dimenticare, ma che, alla fine del Settecento, quando le rigide convenzioni metastasiane cominciarono a mostrare segni di inadeguatezza e di declino, erano occasione di accesi dibattiti.

Proprio gli anni intorno al 1781, l’anno di rappresentazione dell’Idomeneo mozartiano, ne videro l’inizio a Parigi, centro indiscusso della cultura europea. Si discuteva sulla separazione dei generi tra opera seria e opera buffa, sulla pluralità delle azioni e degli intrighi in scena, sull’assenza di una vera e naturale interpretazione del testo da parte dei cantanti e su molto altro ancora. La querelle des bouffons, come fu chiamata, (i bouffons erano ovviamente gli italiani o meglio gli italianisti, cioè i sostenitori dell’opera italiana) fu ovviamente più accesa sul versante dell’opera seria e vide da un lato l’opera italiana tradizionale, dall’altro tentativi di riforma, come quello all’insegna della naturalezza del napoletano Piccinni (a cui andavano molte simpatie dei philosophes), o quello più aulico, quello vicino alla tragédie lyrique francese, proposto da Gluck.

Come è noto, saranno i bouffons a riportare nel tempo la vittoria; ma sarà probabilmente Mozart colui che riuscirà a superare con più decisione e fertilità di risultati le antiche convenzioni, rinnovando dall’interno l’opera buffa e trasformandola in qualcosa di totalmente nuovo, fuori dalla logica dei generi.

Se con l’Idomeneo siamo ancora all’inizio di questo processo, alcuni elementi di queste importanti trasformazioni possono già essere individuati.

E partiamo dal soggetto. Il mito di Idomeneo, antico re di Creta, è, tra quelli greci, uno dei più densi e  meno conosciuti. L’eroe amava con passione la bellissima Elena e molto soffrì quando la seppe destinata ad altri. Dopo la fuga dei celebri amanti, come da accordi presi tra i molti aspiranti alla sua mano, partecipò alla guerra di Troia, distinguendosi per valore e imprese. Tornato in patria, trovando il trono usurpato dall’amante della moglie, si diresse verso il Salento dove fondò una città. Un’altra tradizione riferisce invece che, giunto in vista di Creta, fu sorpreso da una terribile tempesta, per fuggire la quale egli fece voto a Nettuno di sacrificargli il primo uomo che avesse incontrato sull’isola: e questo fu suo figlio Idamante.

Non c’è forse bisogno di dire che questo fu il nodo che ispirò il melodramma mozartiano,

Theatre de Cuvillies

anche se non sappiamo se fu il celebre musicista a essere inizialmente interessato dalla vicenda o se, com’è più probabile, fu una scelta della corte di Mannheim, così come è certamente nella tradizione della festa di corte l’applicare a questa tormentosa vicenda l’usuale (e spesso, come in questo caso, forzatissimo) lieto fine. La corte è quella di Carlo Teodoro di Wittelsbach che, divenuto principe elettore e Duca di Baviera, aveva spostato la propria residenza e anche la propria famosa e  apprezzatissima (anche da Mozart) orchestra, cantanti compresi, a Monaco, dov’era il famoso teatro eretto da François de Cuvilliés (1753), famoso per le spledide decorazioni dell’udienza e anche per il più che adeguato corredo scenotecnico (dovuto allo scenografo Giovanni Paolo Gaspari); e un altro motivo di fama gli sarebbe venuto in seguito proprio per aver ospitato la prima dell’opera mozartiana. Vero principe illuminato, il Duca credeva nella funzione primaria della cultura: non solo diede grande impulso alle arti e sostenne molto concretamente Voltaire, ma seppe intuire le eccezionali potenzialità del giovanissimo musicista, affidandogli il prestigioso incarico.

Dalle lettere di Mozart al padre traspare non solo l’orgoglio e la gioia, ma anche la piena fiducia di essere in grado di portare a termine con successo questo primo suo lavoro importante. Le stesse lettere ci informano anche sui suoi procedimenti compositivi, operati in collegamento (ma non in sintonia) con l’estensore del testo Giovan Battisca Varesco, cappellano di corte dell’arcivescovo di Salisburgo, che andava contemporaneamente e faticosamente (viste le non poche e innovative pretese del musicista) traendolo, in italiano, dalla tragédie lyrique Idoménée che Antoine Danchet aveva scritto una sessantina d’anni prima per le musiche di André Campra. Dunque il modello del soggetto era francese, vicino a quello proposto da Gluck e Calzabigi; e anzi l’opera si può dire fra quelle mozartiane la più vicina a Gluck, alla sua temperie di patetismo tragico e alla sua tensione di essenzialità.

Ma l’Idomeneo mozartiano è in realtà un genere misto,

tra l’opera metastasiana, la tragédie lyrique e l’esempio nuovo di Gluck. Una varietà stilistica che impedì al giovane musicista di comporre il tutto in un insieme organico, ma fu anche per lui una straordinaria palestra, un esercizio di cultura in cui egli riuscì anche ad esprimere, talvolta, le sue personali tensioni verso il realismo drammatico e verso un davvero inedito approfondimento psicologico. Tra Elettra, furibonda e appassionata principessa, e Ilia, dolcissima e fiera seppure schiava, entrambe innamorate del principe Idamante, le differenze caratteriali sono rese chiarissime proprio dalla partitura musicale. Va notato che per queste sue particolari propensioni il compositore, che aveva vivo interesse per il teatro in tutta la gamma delle sue espressioni, non esclusa quella delle compagnie itineranti e popolari, si dimostrava attento anche alle esigenze dei suoi interpreti e alle loro prestazioni. Fiero delle loro approvazioni, come nel caso delle due ottime interpreti femminili (le due cantanti Wenling hanno “elogiato molto le loro arie”; Dorothea in particolare ne è “arcicontentissima”) e non mancando invece di bollarli dei suoi pesanti giudizi negativi come nel caso del castrato (“non è in grado” “non ha un metodo che valga un kreutzer”) e del tenore (“una statua”, lui e il castrato sono “gli attori più penosi che siano mai apparsi su un palcoscenico”). Ma se dal tenore Anton Raaf gli veniva un’accesa difesa della cantabilità tradizionale e in particolare di quelle colorature che Mozart definiva “tagliatelle spezzettate”,  dallo stesso Raaf giunge anche una riflessione quanto mai significativa sul versante musicale:

“Ero sempre stato abituato, sinora, a modificare i ruoli a mio vantaggio, nei recitativi come nelle arie. Ma qui [nella seconda aria di Idomeneo] tutto è rimasto tale e quale, non saprei quale nota non mi sia appropriata”.

Dunque Mozart componeva avendo ben presenti le consuetudini e le potenzialità canore dei suoi interpreti;

ma, da vero uomo di teatro, apprezzava innanzitutto un’interpretazione vera e variata dell’opera (non era, all’epoca, una banalità)  e questo significava evidentemente andare incontro anche al gusto di un pubblico che non era ormai solo quello di corte. Non a caso le difficoltà del cappellano Varesco si dimostrarono in particolare al momento delle prove, dirette in questo caso, non già dall’estensore del testo, com’era l’uso, ma dal coreografo Le Grand e dallo scenografo Lorenzo Quaglio; e possiamo pensare che anche il musicista vi ebbe una sua parte importante. In ogni caso il successo fu grande; ed ebbe per noi felici conseguenze, dal momento che, al suo ritorno a Salisburgo, il rigido arcivescovo Colloredo, al cui servizio si trovavano vincolati i due Mozart, lo aiutò a licenziarsi, affibbiandogli, come è stato detto, la più famosa pedata nel sedere della storia della musica occidentale.

Pier Luigi Pizzi

Per quanto riguarda invece le riprese contemporanee, non è lontano il ricordo di una messinscena polemica, in cui per la regia di  Hans Neuenfels prevista per il novembre 2006 a Berlino venivano mostrate le teste mozzate di Maometto, Gesù, Budda e Nettuno. Anche per contrasto quindi la ripresa di Pier Luigi Pizzi può apparire oggi particolarmente gradita. Perché, di contro a tante attualizzazioni, spesso di pessimo gusto e lontanissime dalle ispirazioni originarie,  Pizzi preferisce trovare nella lettera del mito, rivisitato e rinvigorito dalla musica mozartiana,  le ragioni etiche ed estetiche più profonde della sua ispirazione. Ma di fronte a questo Idomeneo e a una tradizione sentita come scelta, di fronte al problema dell’eredità e insieme della vitalità mozartiana e anche al complesso quadro che l’origine di quest’opera, pur in queste poche righe, rivela, sorgono più che mai spontanei e ineludibili gli interrogativi:

è possibile creare oggi un ambiente per una tragedia? Come conciliarlo con quello di un melodramma? E ancora: che significa il classico oggi?

Pier Luigi Pizzi risponde con l’autorevolezza che gli viene dall’essere un decano del nostro teatro, un vero filtro attraverso il quale è possibile leggere un’ampia storia che va dalla Compagnia dei Giovani fino a Luca Ronconi e anche oltre; erede a pieno titolo della nostra tradizione scenografica e costumistica e in particolare di quella barocca; capace come è noto, della più grande raffinatezza e preziosità stilistica come di nudità estreme (la presente prova lo dimostra); da tempo peraltro non più solo scenografo e costumista, ma pienamente responsabile dello spettacolo; di uno spettacolo che, pur prestandosi alle critiche di svolgersi secondo formule già da tempo ripetute, rivela un gusto e un’eleganza indiscutibili e continua a riscuotere grande successo presso il pubblico dei melomani.

Agli interrogativi sopra espressi Pizzi risponde dunque con le sue regie e con questa in particolare: il suo concetto di classico è diretto a esaltare le ragioni prevalenti dell’opera e dunque, in questo come in altri casi coevi, quelle influenzate dalla riforma gluckiana, all’insegna del nitore e dell’essenzialità.

La scena è quasi fissa: una scatola bianca pensata come l’interno di un tempio con frontone triangolare e colonne.

Un tempio diviso verticalmente a metà, con due scale convergenti ai lati che, oltre a citare  antiche icone della scenografia, oggi consentono una interpretazione dei cantanti articolata su più piani (qui è a volte quasi acrobatica). La prospettiva è invece breve, quasi schiacciata; sul fondo un mare spumeggiante e ondoso, immobilizzato nell’istante, o, quando occorra, celato da una nuda parete. Forme spaziali e costumi sono stilizzati come nelle pitture vascolari e giocati sul contrasto tra il bianco e il nero: la sola Elettra è in viola e questa differenza definisce l’estraneità e la solitudine del personaggio, destinato a soccombere nella contesa per le nozze finali. Cambia però nel progredire degli atti, anche se di poco, il punto di vista, frontale nel primo atto, lievemente obliquo nei successivi; ma non è di poco conto questo introdurre il relativo di più sguardi in un insieme segnato da profonda coerenza e in un tempo che appare sospeso; cambiano anche, spesso, le delicatissime luci di Massimo Gasparon. Ma che la scena del II atto sembri accogliere un ambiente più limitato, più adatto a colloqui personali e che quella del III paia riprendere quasi trionfalmente l’ampiezza iniziale ricorda l’antico schema tripartito della tragedia e rientra dunque nella logica dei testi di riferimento. L’imbarcazione spezzata al centro dei marosi ricorda invece prima l’approdo di Ilia come schiava; poi quello di Elettra, fuggiasca da Argo; e infine quello più difficile, quello di Idomeneo, il cui ritorno è reso possibile dal voto fatale a Nettuno. Il quale compare fisicamente nel I atto, probabilmente  non giovando al senso di una classicità così evocata: meglio sarebbe stato probabilmente lasciarlo immaginare, così come si è rinunciato a rappresentare il terrribile mostro vendicatore nel II atto e lo stesso Nettuno nel III. Efficace appare invece l’idea di convertire l’imbarcazione citata in un altare destinato ad ospitare il sacrificio di Idamante e poi in un’ara dorata per le felici nozze finali; per le quali anche i neri costumi di Ilia e del popolo schiavo si trasformano festosamente in quelli bianchi di tutto il popolo cretese riunito nella pace.

Ed è una festa anche per il pubblico della serata che ricompensa lo spettacolo con i più caldi applausi.

Lo spettacolo è ormai un classico: una produzione del teatro delle Muse di Ancona (in occasione della sua riapertura nel 2002), già ripresa nel teatro San Carlo di Napoli e oggi nel teatro Massimo di Palermo. Direttore musicale l’israeliano Daniel Cohen, orchestra e coro del teatro Massimo di Palermo.

Del cast ricordo in particolare  Eleonora Buratto (Elettra), Giuliana Gianfaldoni (Ilia; ma immagino che anche l’interprete del turno A, Carmela Remigio, meriti una menzione) e Aya Wakizono (Idamante, en travesti).

Elena Tamburini   Palermo 2019