L’arte nata con la contestazione; alla GNAM l’omaggio agli sconfitti.

di Giorgia TERRINONI

Ce n’est qu’un début, continuons le combat! 

Quanto è lontana dalla potenza cristallina di queste parole la mostra che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma dedica al ‘68.

Mario Ceroli Ultima Cena

Significativamente intitolata È solo un inizio. 1968 la mostra – pensata da Cristiana Collu e curata da Ester Coen – dichiara di voler illustrare le origini di un grande fermento artistico iniziato cinquant’anni fa, ma finisce per somigliare a una lapide. Una FINE più che un inizio. Una pietra tombale anonima, trascurata, incolta. Ci si stringe il cuore semplicemente passandole accanto. Presi da un impeto, cerchiamo di liberarla dalle erbacce che l’hanno invasa e ricoperta, di eliminare – ferendoci finanche le mani – almeno un po’ dell’impietosa oscurità che il tempo le ha imposto.

Mi dispiace enormemente che la mostra della GNAM m’ispiri solo un gesto compassionevole. Non so come porre rimedio a ciò. Forse, posso provare a estirpare qualche erbaccia; a restituire un barlume d’identità a quella lapide dimenticata!

Il comunicato stampa della mostra fa riferimento alle parole di Gilles Deleuze, il quale ha affermato: “LO ABBIAMO SEMPRE SAPUTO CHE SAREBBE FINITA MALE”. Bellissima lezione quella di Deleuze: la consapevolezza della sconfitta non intacca l’esigenza della lotta.

Ce n’est qu’un début, continuons le combat! è forse il più celebre tra gli slogan urlati per le strade parigine durante il maggio francese. Non ho capito se la scelta di citare nel titolo dell’esposizione solo la prima parte dello slogan sia un mero vezzo autoriale oppure un’involontaria dichiarazione di resa.

La mostra è piccina, ma ben allestita e ospita anche opere notevoli di artisti molto importanti. Gode inoltre di quel respiro internazionale che spesso manca nelle esposizioni nostrane: c’è, infatti, una discreta carrellata di artisti internazionali (Donald Judd, Joseph Kosuth, Valie Export, per fare solo qualche nome).

Sono interessanti anche i taciti dialoghi che il curatore ha voluto stabilire tra le opere, alcuni meno letterali di altri. Così accade che i magnifici freaks ritratti instancabilmente da Diane Arbus negli Stati Uniti compongano, insieme alle foto scattate da Carla Cerati all’interno dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, l’apologia di un’umanità al collasso.

La Festa cinese di Mario Schifano fa il paio con il Ritratto di Mao con bandiera rossa di Franco Angeli. Tra la loro prossimità scorre, come un evocativo quanto letterale fil rouge, il poliuretano espanso di Gilberto Zorio.

Mario Schifano Festa cinese

Il corpo, finalmente liberato, diviene oggetto d’indagine artistica in pratiche multiformi. Si va dalle pose catartiche interpretate da Luigi Ontani in una rilettura del tradizionale bestiario a quelle più audaci e struggenti di Vito Acconci e Yayoi Kusama. 

Franco Angeli Mao con bandiera rossa

Ma molto di quel che di buono c’è nella mostra rende più acuta la percezione di quel che manca. Il ‘68 artistico, così come è narrato nelle sale della Galleria Nazionale, è fondamentalmente all’insegna della processualità e della contaminazione più audace. Arte povera, process art, minimalismo, arte concettuale, land art, body art e qualche altro fenomeno isolato. È il caso, per esempio, proprio di Mario Schifano e Franco Angeli, due artisti che incarnano la frangia più esasperatamente ideologica della pop romana. E già questo ci dà una prima traccia su ciò che manca.

Nella mostra il ‘68 è calato dall’alto, appare come l’esito dogmatico di una ricerca iniziata più di dieci anni prima che, tuttavia, rimane avvolta nella nebbia. Le opere di Schifano e Angeli ci ricordano non tanto il rosso ideologico, ma la strada tutta consapevole che l’arte ha percorso trasformandosi da sovversione in contestazione.

L’esposizione sembrerebbe suggerire un taglio storico, ma si trasforma in una parata commemorativa. Stiamo assistendo alle esequie di un movimento.

Hans Haacke Grass grows_

Restano inevase tutte le domande che potrebbero suggerire quei collegamenti che hanno fatto del ‘68 un grande movimento di tutta la cultura. Qui l’arte d’avanguardia rimane, come troppo spesso accade, emarginata dalla storia, dalla politica e dalla cultura tutta.

Nel 1968 la galleria La Tartaruga di Roma ospitava una serie d’interventi d’artista raggruppati sotto il nome del Teatro delle Mostre. Nanni Balestrini partecipava con I muri della Sorbona: non fece che trasferire gli slogan scritti sui muri della Sorbona alle pareti della galleria di Plinio De Martiis, dettandoli dal telefono mentre tornava a Roma da Parigi. Questa operazione aveva a che fare con molte cose, non solo con l’arte!

Fabio Sargentini e Gino De Dominicis

Il ‘68 artistico della GNAM appare privo di cause storiche, un puro vezzo intellettuale. Altrettanto grave mi pare il fatto che appaia anche privo di conseguenze. Forse è questa la ragione per cui gli autori della mostra si sono limitati a utilizzare solo la prima parte dello slogan!

Mi chiedo: l’arte che segue il ’68 è un’arte degli sconfitti? È possibile che lo sia. Ma in un senso tutto diverso dal disincanto amaro e dal clima funereo che leggo tra le righe della mostra. Mi viene da pensare alle modalità con le quali un artista come Felix Gonzalez-Torres, uno sconfitto per eccellenza, ha condotto le sue battaglie per dare corpo più che voce alle identità sessuali negate. Erano gli anni Ottanta. Mi piacerebbe accompagnarvi in modo anche poco sistematico attraverso le pratiche di artisti i cui nomi sono impronunciabili, perché esssi provengono da esotici paesi sconfitti. Paesi nei quali, fino a qualche decennio fa, non si pensava nemmeno che potesse esistere arte.

Forse è vero, l’arte dopo il ‘68 è un’arte degli sconfitti,  ma non è certo alla portata degli sconfitti!

Giorgia TERRINONI      Roma Novembre 2017