L’arte, la natura e l’abitare. Quale relazione? Riflessioni dalla mostra “Natura domestica” (ne parlano gallerista e artista)

di Anna Maria PANZERA

Intervista a Giada Calcagno e Veronica Montanino

La mostra NATURA DOMESTICA, di Veronica Montanino, ha inaugurato, il 10 gennaio 2022, STUDIO G, spazio culturale nel cuore di Testaccio, aperto da Giada Calcagno (architetto) e da Giuseppe Stagnitta (curatore artistico). L’evento e il luogo sono stati l’ideale per riflettere su quella relazione tra l’arte, la natura e l’abitare, che è da sempre al centro della storia urbanistica di Roma. Relazione virtuosa, almeno fino agli anni della sua elezione a capitale della nazione, si presenta oggi negata, e pertanto urgente oggetto di riflessione e di azione. Ma il problema non è solo romano: riguarda tutti, invece, e pone in evidenza la necessità di un nuovo modo di stare al mondo, che l’umanità nel suo complesso dovrebbe condividere.

In occasione della conclusione dell’iniziativa, proviamo a tirarne le prime somme, intervistando la proprietaria di STUDIO G, e curatrice dell’esposizione, Giada Calcagno; a seguire, l’artista Veronica Montanino, che ha ideato e allestito un’installazione che si pone tra natura viva e memorie domestiche, tra suggestioni Arts & Crafts e invasioni vegetali.

Intervista a Giada Calcagno

Con quali caratteristiche peculiari Studio G, la galleria appena aperta a Testaccio da te e da Giuseppe Stagnitta, s’inserisce nel panorama degli spazi culturali romani?

R: In realtà Studio G non è una galleria, ma un vero e proprio studio, dove ci occupiamo di architettura e lavoriamo a progetti di arte pubblica; per questo motivo non facciamo mostre tradizionali al suo interno, ma chiediamo agli artisti, con cui lavoriamo “fuori”, negli spazi pubblici, di realizzare degli interventi site-specific, che hanno come tema di riflessione quello dell’abitabilità dello spazio (che può essere interno o esterno), e della necessità di trasformarlo con il proprio vissuto creativo. Il nostro lavoro, pertanto, non vuole prescindere da quel legame tra “arte” e “architettura”, per realizzare il quale coinvolgiamo professionalità che condividano la medesima ricerca. Le intuizioni degli artisti diventeranno poi interventi all’esterno.

Ci puoi dire di più, dal tuo punto di vista, della relazione tra arte e architettura, oggigiorno?

R: Preferirei parlare di relazione con l’artista e partire da quel mondo magico che è l’abitare. Proprio qualche tempo fa, chiacchieravo a proposito con Veronica. Le stavo raccontando di come mi era capitato, qualche giorno prima, di entrare in un appartamento; per caso, accompagnavo qualcuno. Sono uscita da quelle stanze con una sensazione quasi di disagio. In quella casa, in quegli ambienti, non c’era nulla, assolutamente nulla, che raccontasse i suoi abitanti. E’ strano no? La casa è per definizione lo spazio dove ci rifugiamo, dove festeggiamo, dove amiamo, dove riposiamo e ci prendiamo cura di noi e delle persone cui vogliamo bene. Io non credo che quelle persone non avessero nulla da raccontare, ma che forse non lo sapessero fare; che avessero solo bisogno di qualcuno, che li aiutasse a esprimere quel mondo magico.

Ecco, proprio perché lo spazio deve essere “magico”, non separiamo arte e architettura: due attitudini espressive che possiedono un comune modo di sentire. È dell’artista l’esigenza di raccontarlo con i suoi strumenti e dell’architetto la possibilità di costruirlo. In un articolo pubblicato su “Domus”, Jean Nouvel scrive:

«E’ urgente decidere che, per consentire di vivere in modo felice, ogni scelta cruciale sull’evoluzione delle nostre città […] venga fatta da architetti poeti [….] che abbiano fatto propria la convinzione che l’architettura è un’arte e ha bisogno di invitare altri artisti».

Credo sia esattamente ciò che questo piccolo esperimento vuole fare. Sarebbe rivoluzionario se si potesse lavorare insieme, finalmente, a questo gigantesco, essenziale progetto che sono le nostre case, i nostri quartieri, le nostre città.

Nel mondo della curatela artistica, Giuseppe Stagnitta è conosciuto quale specialista in “arte pubblica”. Nel passato, tale espressione aveva un significato preciso, legato all’arte monumentale, alla celebrazione del potere; con la modernità anche il dissenso o un atteggiamento critico degli artisti nei confronti dello spazio condiviso  è riuscito a trovare zone d’azione. Nel XXI secolo, negli attuali tessuti urbani, come dev’essere intesa questa espressione e come influisce nel programma che vi proponete?

R: Giuseppe Stagnitta si occupa di arte pubblica da oltre dieci anni. Inizia con la street art e i graffiti, che soprattutto nel primo momento della loro comparsa, rivestivano superfici dislocate o anomale, rispetto alle aree urbane più frequentate. Nel momento in cui il suo intervento si è avvicinato ai centri abitati, sia privati, sia pubblici, ha capito che per lavorare doveva necessariamente interagire con chi abita i territori. Non avvicina le comunità per protesta, narcisismo o carriera, ma per riqualificare spazi pubblici, altrimenti degradati dalla cattiva azione dell’uomo sul territorio.

Arte pubblica, allora è quella che va in strada per aiutare le persone a trasformare il proprio territorio.  Anche per questo motivo, da qualche anno, ha iniziato a lavorare in ambito educativo, con un progetto dal titolo “Trasforma il tuo quartiere”, che ha come scopo la valorizzazione, attraverso interventi urbani, delle piccole imperfezioni che la strada offre, rivendicando le vie e le piazze, per una democratizzazione dell’arte e della cultura. Anche in questo caso, lo spazio all’interno dello studio sarà una sorta di laboratorio, dove si sperimenteranno le attività da portare all’esterno.

Quali saranno i prossimi appuntamenti a Spazio G?

R: A fine settembre l’artista che realizzerà un lavoro site-specific all’interno dello studio sarà Roberto Alfano, artista educatore, che realizzerà un lavoro con i ragazzi che vivono a Testaccio, utilizzando l’interno dello studio come un luogo ideale, che potrebbe essere indifferentemente sia privato che pubblico. L’obiettivo è coinvolgere attivamente i ragazzi in quel processo di riappropriazione del proprio spazio interno creativo, cercando di sviluppare in loro una consapevolezza nuova del vissuto nel quartiere. In questo caso le attività si realizzeranno prima all’esterno, nel territorio che ragazzi e ragazze vivono quotidianamente, per poi portare le loro testimonianze tra le pareti dello studio. A fine novembre, invece, Francesca Pasquali realizzerà un’installazione dal titolo Labirinto, in cui piante e materiali plastici convivono e si influenzano.

Intervista a Veronica Montanino

Veronica, qualche domanda per te, adesso. Innanzi tutto, ci puoi descrivere il tuo intervento per Studio G? Non dimenticare i dettagli, che sono tanti e non sembrano casuali!

1 foto di Elton Gllava

R: Per Studio G ho realizzato un’installazione di mobili tipicamente domestici, concentrati al centro dello spazio in unico corpo scultoreo. La prima cosa che si vede entrando è una cassettiera che presenta l’innesto di un lavabo rivestito con una stoffa dipinta. Attraverso il rubinetto, l’acqua scorre a ciclo continuo, come fosse una fontana, in cui nuotano tre pesciolini rossi e cui, in un secondo momento, ho aggiunto delle piante acquatiche. Nella parte alta, al posto dei cassetti, c’è una vetrina illuminata al cui interno si trova un lampadario de-funzionalizzato, che per effetto di una superfetazione argillosa suggerisce una mutazione organica, da cui sono investiti anche tutti gli altri mobili e oggetti che compongono l’opera. La “casa” che ne risulta è una sorta di corpo vivente, dove ogni elemento muta, come sotto un incanto. Scrittoio, poltrona, frigorifero e suppellettili vari, sono egualmente partecipi di un unico processo di metamorfosi, in cui tutto si amalgama attraverso variazioni di colori compresi tra i verdi vegetali e i verdi/celesti marini, che avendo investito ogni cosa, depositano tracce di sgocciolature anche sul pavimento.

2 Foto di Simon d’Exéa
3 Foto di Simon d’Exéa

La libreria è una struttura classificatoria di animaletti e reperti (reali e non), provenienti dal mondo marino e da quello vegetale, resi ambigui e difficilmente classificabili; la presenza ridondante di funghi – misteriosi motori della trasformazione della materia in natura – è un indizio del carattere “mobile” dell’habitat che ho voluto creare.

4. Foto di Simon d’Exéa

Per te, artista, quanto è importante il rapporto con lo spazio?

R: E’ fondamentale. Lo spazio è il massimo corpo che si può dare a un’idea, a una fantasia: è la più potente forma dell’immaginazione. Ed è ciò che mi consente di accogliere e dare spazio anche agli altri, trasportandoli dentro ad un sogno ad occhi aperti che è il mio, ma che nell’esperienza del corpo diventa presente e diverso per ciascuno che lo vive. Penso inoltre che lo spazio includa strutturalmente anche l’altra coordinata vitale che è il tempo: il tempo di percorrenza e permanenza in un dato spazio.

I tuoi interventi nella città di Roma, solo per citare i più importanti, vanno da quello presso l’ex-Acquario Romano, per passare agli interventi site-specific nel MAAM-Museo dell’Altro e dell’Altrove, e giungere infine alla grande esposizione nel Casino Nobile di Villa Torlonia. Ci puoi raccontare come procedere idealmente dall’uno all’altro?

5 Foto di Simon d’Exéa

R: Gli interventi che hai citato sono tutti relativi a luoghi fortemente connotati, non solo esteticamente. L’ex-Acquario Romano è la Casa dell’Architettura, sede dell’Ordine degli Architetti, e il lavoro consiste in un intervento murale in cui una figura femminile è immersa in un giardino germinativo e vitale. Anche se non ci ho pensato in questi termini all’epoca, oggi sento di dire che potrebbe rappresentare una sorta di auspicio di riparare, anche qui da noi, il drammatico divorzio che si è consumato tra arte e architettura, che ha prodotto, nel corso della modernità, costruzioni tutte incentrate su funzione e ragione, con risultati alienati e alienanti, che ancora ci pesano addosso come macigni.

Il MAAM è un contesto politico, attivo sulla questione del diritto all’abitare, all’interno del quale ogni intervento ha rappresentato un’adesione alla critica dello strapotere della speculazione edilizia, che peraltro ha un impatto sulla vita di ciascuno di noi e genera disuguaglianza sociale a tutti i livelli. Dal punto di vista dell’arte e degli artisti, che come me hanno partecipato, è stato importantissimo rendersi presenti e intervenire su questioni riguardanti la città. D’altra parte, anche Villa Torlonia è un pezzo di questo ragionamento sulla città, rappresentandone quel centro speculare alla periferia, dove l’immenso patrimonio che abbiamo rischia di trasformare le città in musei, che tendono ad espellere più abitanti possibili per accogliere più turisti possibili. Con il mio intervento al Casino Nobile ho provato ad “abitare” temporaneamente questo spazio prezioso, vivificandolo con il portare la natura del parco circostante all’interno e – di nuovo – attraverso una contaminazione germinante, in un serrato dialogo con l’ambiente confinante e con la storia, con la convinzione che nulla di sacro e intoccabile esista, anche in una città sacra per definizione come Roma.

Cosa è cambiato dalla mostra di Villa Torlonia fino all’installazione a Studio G?

R: C’è molta continuità tra l’una e l’altra mostra. L’installazione allo Studio G è indubbiamente figlia di quel lavoro, anche se a Villa Torlonia dovevo inserirmi in uno spazio ampissimo e brulicante di segni, e qui invece creare uno spazio da zero, all’interno di un “cubo bianco” molto circoscritto. Nonostante questo, parte dei temi su cui ho continuato a riflettere sono gli stessi, e non a caso sono analoghi anche parte dei materiali e dei colori utilizzati. Parlo sempre del rapporto tra natura/artificio, dentro/fuori, interno/esterno, e della metamorfosi.

Anche Emanuele Coccia, un filosofo cui spesso fai riferimento, ha trattato temi come la metamorfosi, la natura e l’abitare, tutti riuniti nel suo recente volume Filosofia della Casa: ci puoi spiegare se e come s’incontrano il suo pensiero e la tua arte?

R: C’è una risonanza profonda d’idee tra quello che io esprimo visivamente nel mio lavoro e alcuni concetti espressi da Emanuele Coccia nei suoi libri; per questo mi sono trovata più di qualche volta a citarlo. Nel libro cui fai riferimento, l’autore dà alla casa la dignità di oggetto filosofico e questa è già una grossa novità, visto che la filosofia non si è mai occupata di casa, ma solo di città, come sottolinea nell’introduzione. Il suo filosofare partendo dalla casa, è un pensiero che nasce dal vissuto, dal corpo, dall’esperienza, cioè un pensiero che non vuole formarsi per scissione, e questo mi sembra fondamentale. Mi è piaciuto poi in particolare il concetto di casa come laboratorio, luogo in cui elaboriamo e processiamo il mondo e la natura, trasformandola.

Noi non possiamo abitare senza trasformare tutto intorno a noi: la metamorfosi è il nucleo dell’identità umana, evidentemente, anche se Coccia – che alla metamorfosi dedica un altro libro – non credo sarebbe d’accordo su questo, perché lui fa un discorso molto più onnicomprensivo. Per tornare alla casa, Emanuele la definisce un “viaggio sul posto”, un luogo della relazione, in cui il nostro Io incontra il mondo e lo trasforma in un fatto psichico. Ne derivano due cose: la prima è che possiamo parlare della casa non come fatto meramente materiale (metri cubi e valore di mercato), ma anche come una forma del pensiero e un oggetto immateriale, affettivo. La seconda è che, se questo luogo interiore può essere concepito pieno di senso e di possibilità anche creative e trasformative, l’Io che ne è a monte non è quella “schifezza” di freudiana memoria. Possiamo finalmente liberarci della vecchissima idea (riciclata da tanti nella storia del pensiero occidentale) della dimensione psichica come perturbante? Speriamo. Last but not least, Emanuele Coccia è un filosofo del nostro tempo e lavora al superamento della logica binaria, giustamente. Intendiamoci, io non sono per l’appiattimento delle differenze, tuttavia credo sia problematico continuare ad esaltare il concetto di “alterità”, che alimenta il sistema delle dicotomie antagoniste e oppositive. Mi spiego meglio e torno alla mostra: non è vero che la natura è totalmente fuori dall’architettura, e che quest’ultima è uno spazio “assoluto”. Dentro e fuori, così come naturale e artificiale, sono dimensioni che hanno ciascuna una propria identità, ma che si compenetrano anche a vicenda nella realtà. E non è così da oggi, era così anche prima, solo che oggi sta emergendo prepotentemente l’esigenza di cambiare il nostro modo di vedere e definire il mondo. Per cui il principio di non contraddizione (un po’ datato, visto che risale ad Aristotele!) non funziona più. Nella mia opera è la natura che prende il sopravvento? No. E’ una coesistenza senza morti e feriti, che non prevede cioè la cancellazione di nessuna delle due parti.

La tua attività comprende da qualche anno anche il magistero in Arti Decorative, attualmente presso l’Accademia di Firenze. Ci puoi svelare qualcosa di quanto insegni ai tuoi studenti?

R: Tutto il mio corso è incentrato sullo spazio, e il rapporto con l’architettura è fondamentale. Stimolo gli studenti a confrontarsi con l’ambiente: vivificare lo spazio e renderlo immaginifico è la vocazione della materia che insegno, almeno per come la intendo io. Questo è possibile a partire da un forte legame con i luoghi, che vanno studiati, approfonditi, ma soprattutto sentiti. Pensare di trasformare lo spazio non è semplice, dunque io suggerisco sempre di partire dallo sconfinamento, dalla violazione del limite della cornice che impedisce la diffusione di un’immagine. L’obiettivo è arrivare a una fantasia in grado di investire l’ambiente, a un’arte ambientale come superamento dell’oggetto chiuso da contemplare, per approdare a un’idea di arte all’interno della quale muoversi e abitare.

Anna Maria PANZERA  Roma 29 Maggio 2022