L’arte al tempo del coronavirus: santi, miracoli, epidemie e guarigioni nella pittura del ‘600.

di Sergio ROSSI

«Ci sono i pittori della notte, come Rembrandt o George de la Tour; ma ci sono pochissimi pittori dell’alba: perché l’alba è l’ora della morte, l’ora della luce glauca. C’è Géricault, ma soprattutto c’è Caravaggio».

Nel film (ormai divenuto un cult) Il declino dell’impero americano, del franco-canadese Denys Arcand, uno dei protagonisti, un professore di storia dell’arte, pronuncia queste parole nel corso di una lezione, mentre alle sue spalle scorrono e quasi si confondono con lui le immagini di due capolavori caravaggeschi, il Martirio di San Matteo della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi e il Narciso della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini.

E certo singolare, ma geniale, appare questa identificazione del Caravaggio, pittore anch’egli in qualche modo “notturno” e autore di memorabili dipinti scuri, con l’alba e non con la notte. Geniale perché, in effetti, il Merisi è quello che meglio ha saputo cogliere il mistero “della luce glauca”, quella luce salvifica e aurorale che colpisce tanti protagonisti dei suoi dipinti nei momenti cruciali della loro esistenza: Matteo nel momento del suo estremo sacrificio, la morte terrena, che prelude però alla ri-nascita eterna; Saulo, nella tela di Santa Maria del Popolo, nel momento della conversione, dunque della ri-nascita come cristiano; la Maddalena penitente della Galleria Doria Pamhilj, colta in un sonno vigile di sfinimento inteso come contrassegno d’amore verso il suo sposo mistico Gesù Cristo.

Ma è anche spesso, quella caravaggesca, una luce come sospesa, di grazia, certo, e al contempo di conquista continua, occasione da cogliere ma che può sempre essere rimessa in discussione, non traguardo definitivo e ineludibile. Basti per tutte, a confermarlo, sempre nel Martirio di San Matteo la figura autobiografica del Caravaggio stesso, confuso tra la folla degli astanti che fuggono insensibili alla chiamata divina: egli invece si volta, colpito proprio dalla luce un attimo prima di perdersi, peccatore pentito in cerca di redenzione, anima cristiana in continuo conflitto con il male. Pittore dunque il nostro, della notte e dell’alba, della luce e delle tenebre, del peccato e della salvazione, in altre parole della dualità seicentesca. Dualità che la chiarità dell’aurora ben esprime, ora della morte ma anche della nascita, di quell’albedo in cui gli estremi, alchimisticamente, si toccano. E non è del resto alle luci sinistre dell’alba che i monatti compivano i loro tristi riti di morte o gli untori (secondo l’immaginario popolare) andavano seminando proditoriamente l’immane flagello della peste?

Non è quindi un caso che un chiarore ambiguo rischiari il più famoso dipinto seicentesco sull’epidemia e cioè La Peste di Azoth di Nicolas Poussin ora al Louvre.

Tutto in questo capolavoro è improntato al classicismo e alla solennità, quasi algida, della rappresentazione scenica. Raffaello rimane il referente principale dell’opera, mentre Annibale Carracci e in particolare la sua monumentale Elemosina di San Rocco, ora alla Pinacoteca Nazionale di Modena costituisce il suo referente stilistico più vicino nel tempo: eppure per descrivere i particolari insieme macabri e dolcissimi del neonato in primo piano, scolpito dalla luce, e della donna morta, dalle tonalità già livide, al cui seno ancora si aggrappa il fanciullino che vuole il latte, per descrivere tutto questo Poussin deve rivolgersi a Caravaggio e produrre uno straordinario inserto naturalistico (oggi diremmo addirittura iperrealistico), nell’ambito di un’opera dai toni aulici e “rettorici”.

Si parlava prima di “dualità seicentesca” e se i temi della nascita e della morte erano così intrecciati nella cultura del XVII secolo ciò era dovuto anche ad un dato storico oggettivo e cioè al fatto che proprio il parto era ancora, in quell’epoca, un momento estremamente rischioso per la vita delle donne, così come era ancora altissima l’incidenza della mortalità neonatale. Dunque questa duplicità primaria dell’inizio e della fine, del venire al mondo e del lasciarlo era presente alle coscienze e, per dirla in termini moderni, all’inconscio collettivo di un’intera epoca in un modo ancora più pressante e coinvolgente di quanto oggi non si possa pensare. Ma d’altra parte è anche vero che razionalismo ed indagine naturalistica, verifica sperimentale e apertura verso il nuovo cominciano a farsi strada nella cultura seicentesca, così come è vero che si assumono momenti di maggiore fiducia nelle capacità dell’uomo di regolare le forze negative delle malattie e delle calamità naturali.

Eppure, di fronte a fenomeni apocalittici come il flagello delle pestilenze l’irrazionalità e la fede nei miracoli come ultima ancora di salvezza prendono ancora il sopravvento: e i pittori riflettono questa dualità rappresentando sia scene drammatiche e realistiche di appestati coperti di piaghe e bubboni, spesso immersi in paesaggi notturni che lasciano trapelare una visione cupa e misteriosa delle inafferrabili particelle che si corrompono nell’atmosfera miasmatica, sia i Santi guaritori che con la loro intercessione miracolosa fanno per incanto cessare le epidemie: ci riferiamo in particolare a San Sebastiano, San Rocco e San Carlo Borromeo e per quanto riguarda Roma l’arcangelo Michele. Nei riguardi del primo va sottolineato come le sue ferite raffigurate nei dipinti siano una metafora della peste, mentre le piaghe di San Rocco sono reali; San Sebastiano ha dunque, soprattutto, la funzione di scongiurare l’epidemia prima che avvenga, San Rocco ha invece il compito di guarire chi ne è già stato colpito.

Ben presto a questi due grandi taumaturghi si aggiunge, specie dopo la sua inclusione nel Catalogo Ufficiale dei Santi il 1° novembre 1610, quindi solo ventisei anni dopo la morte, San Carlo Borromeo, che da arcivescovo di Milano, come è noto, si era prodigato contro la terribile pestilenza del 1566/67: ed è significativo che il suo culto non conosca confini, dal Piemonte e dalla Lombardia fino al Veneto, dall’Emilia al Lazio fino in Campania. Carlo è, per tutta la prima metà del Seicento il santo più invocato dai malati e dai sani che vedono in lui, assunto alla gloria degli altari in pochi anni, un modello di fede, un austero difensore dell’ortodossia, un pietoso consolatore degli afflitti, pronto a mettere a repentaglio la propria vita per curare quella degli altri, siano essi ricchi o poveri, nobili o diseredati.

Come è noto, in Europa dal XIV al XVII secolo le epidemie di peste erano un fenomeno endemico e ricorrente ma che ebbero nel 1630/31 e 1656/57 dei picchi di particolare virulenza; a Roma però, allora come (si spera) oggi con il Corona virus la situazione si mantenne sotto controllo e specie nel secondo periodo si può notare come rispetto ad esempio a Napoli dove si ebbero 150000 mila morti in città e ben 900.000 nell’intero stato napoletano, o Genova che vide perire tra i 50000 e i 60000 abitanti, cioè circa il 60% della popolazione, nell’Urbe i morti furono non più di 9500 e cioè l’8% dei residenti nella città.

E la cosa ancora più impressionante è che allora (come oggi in attesa dei miracolosi vaccini) l’unica reale misura di contrasto alla pandemia era il cosiddetto distanziamento sociale, praticato forse addirittura meglio nel ‘600 con la creazione di “lazzaretti” distinti per i sospetti, per gli appestati, per quelli in quarantena e per i convalescenti; anche gli ospedali avevano già a quel tempo dei “reparti” speciali per l’osservazione dei malati sospetti, mentre i morti venivano seppelliti in località appartate. E non somigliavano del resto alle moderne “mascherine FFP2 o P3” alle inquietanti maschere a becco d’uccello che i medici del Seicento indossavano quando visitavano i malati?

Quanto agli “untori” in tutte le grandi epidemie a partire dalla sifilide fino al Coronavirus si è sempre cercato di darne la colpa, almeno inizialmente, ai “diversi”. Nel caso della lue era il damerino vizioso irrimediabilmente marcato dal segno dello Scorpione, ma anche la prostituta, il diseredato, lo straniero, come attesta la definizione che varia da Paese a Paese: mal franzese, mal de Naples, französenkrankheit; per l’AIDS ancora la prostituta, ma ancor di più l’omossessuale e drogato, meglio se negro, e in definitiva tutti coloro che praticano atti sessuali “contro natura”; per la peste, l’emarginato, l’eretico, l’ebreo e soprattutto le “streghe”, con veri e propri massacri perpetrati in tutta Europa ai danni di povere donne indifese; per il Corona virus tutti ricorderanno che la colpa è stata attribuita (anche da persone sedicenti colte o addirittura occupanti ruoli istituzionali) ai cinesi che mangiano topi e pipistrelli crudi, con episodi, per fortuna marginali e presto cessati, di “caccia al giallo”. Ma è anche accaduta una cosa deprecabile e cioè che da parte di certa stampa maldestra (ma anche qui col concorso di testate pubbliche nazionali) per un malinteso senso di sintesi si è cominciato a definire “untori” proprio i medici e gli infermieri che più rischiano la loro salute in questa emergenza, magari con la chiosa (toppa peggiore del buco) “loro malgrado”.

Prima però di entrare nello specifico delle opere d’arte del Seicento di cui mi occuperò tra breve, voglio aprire una breve parentesi per parlare del pittore che secondo me, insieme al Caravaggio, meglio incarna il mistero della luce glauca, cioè Jacopo Pontormo, il quale del resto dovette anche lui sfuggire ad una pestilenza che aveva colpito Firenze nel 1522-23 e ripararsi presso la Certosa del Galluzzo dove produsse dei meravigliosi affreschi oggi quasi illeggibili. Come scrive Giorgio Vasari

«Ebbe il Puntormo bellissimi tratti e fu tanto pauroso della morte, che non voleva, non che altro, udirne ragionare, e fuggiva l’avere a incontrare i morti. Non andò mai a feste, né in altri luoghi dove si ragunassero genti, per non essere stretto nella calca e fu ogni oltre tendenza solitario».

D’altro canto, per chi aveva perduto, in drammatica sequenza, la madre all’età di sei anni, il padre a quella di undici, il nonno e la nonna cui era stato affidato da orfano rispettivamente a tredici e quindici e infine la sorella, unica superstite della famiglia a diciotto, non ci si poteva certo aspettare un sereno atteggiamento nei confronti della vita. Forse messer Giorgio esagera un po’ quando afferma che l’abitazione che ad un certo punto il Pontormo s’era fatto costruire aveva

«più tosto la cera di casamento da uomo fantastico e soletario che di ben considerata abitura: conciò sia che alla stanza dove stava a dormire e tal volta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò nessuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa».

Ma che egli dica sostanzialmente il vero ce lo conferma lo stesso diario del pittore, il famoso Libro mio, dove Jacopo annotava con maniacale meticolosità quello che mangiava, quello che defecava e quello che disegnava o dipingeva e per di più tutto di seguito e mettendoli assolutamente sullo stesso piano. Ecco ad esempio quanto annota nel luglio del 1555:

«giovedì mattina cacai dua stronzoli non liquidi e drento n’usciva che se fusino lucignoli di bambagia, cioè grasso bianco; e asai bene cenai in San Lorenzo un poco di lesso assai buono e fini’ la figura»;

mentre nel marzo dell’anno seguente scrive

«domenica fu pichiato da Bronzino e poi el dì da Daniello: non so quello che si volessino – e la domenica seguente – Bronzino mi voleva a desinare, e turbandosi mi disse: – e pare che voi vegnate a casa uno vostro nimico – e mi lasciò ire»,

tutte frasi che confermano di fatto le affermazioni vasariane circa l’ipocondria del nostro pittore.

Del nostro pittore tratterò qui, per ovvi motivi di spazio, una sola opera, del resto la sua più famosa, e cioè la cosiddetta Deposizione della chiesa fiorentina di Santa Felicita, che poi, in senso stretto, non è propriamente una De­posizione, non è un Trasporto, non è una Pietà, non è una Lamentazione, ma è piuttosto una commistione di questi te­mi in un unicum iconografico di sconvolgente originalità, eseguito tra il 1525 ed il 1528 ed è racchiusa all’interno di una cappella dove viene descritta l’intera parabola divina ed umana di Nostro Signore, dal momento del suo concepimento a quello del suo supremo sacrificio per la Redenzione di tutta l’umanità peccatrice.

In realtà, il titolo più adatto per il nostro dipinto è quello di Trasporto verso il sepolcro, e non Deposizione, come sostiene ancora buona parte della storiografia. Spostandoci al campo formale, quell’apparentemente casuale groviglio di corpi ha un preciso rigore compositivo in cui domina lo schema della piramide o addirittura del rombo, con al vertice alto la figura della Vergine incinta, ai lati quelle di Giovanni Evangelista e Giuseppe d’Arimatea ed in basso il giovane inginocchiato, forse Nicodemo, come lascerebbe intendere il panno verde srotolato ai suoi piedi e destinato anch’esso ad avvolgere il corpo di Cristo: doppia piramide, dunque, doppia valenza di morte e resurre­zione.

Perno ideale dell’intera scena è Maria, “Mater dolorosa”, giovane quanto se non più del figlio, come nella michelangiolesca Pietà di S. Pietro: Maria che prevede il futuro martirio più che vi­verlo ed è come se si sdoppiasse: in alto, ai vertici della Pala, nella figura della giovane incinta, malinconica più che dolente (dai sublimi toni dell’azzurro, del rosa e del pervinca) e che guarda proprio verso il Cristo, diafano e con le punte dei piedi livide come si addice appunto ad un morto; appena più in basso e sulla destra, nell’altra Maria, poco più anziana ma molto più sofferente eppure luminosissima nelle sue vaporose vesti dal celeste al blu e sorretta, in alto, dal giovane Giovanni, reso con le tonalità molto più acide del verde e dell’arancio. Proprio l’Evangelista si sdoppia a sua volta nel giovane riccioluto che sostiene il corpo di Cristo e ne diventa in qualche misura l’erede spirituale e il testimone.

Veniamo così all’aspetto più rivoluzionario e misterioso della nostra tavola, quello autobiografico. E non mi riferisco infatti solo alla figura di Giuseppe d’Arimatea, già individuata dal Berti come sicuro autoritratto pontormesco; a quell’uomo come senza età, con i capelli e la barba di un biondo tendente al bianco e che se ne sta in un angolo, quasi sofferente a rimira­re la scena; ma mi riferisco anche alla figura di Gesù Cristo, in cui è da vedersi un altro autoritratto del Pontormo, che fra l’altro, al momento di dipingere questa Pala era trentatreenne,  proprio come Nostro Signore quando fu crocefisso. Che anche questa figura sia un autoritratto lo conferma la somiglianza di questo volto con quello del S. Jacopo della pala Pucci, in S. Michele Visdomini, sempre a Firenze e precedente di circa otto anni.

D’altra parte questo tema dell’autoritratto ad imitationem Christi, come ben sappiamo, non è esclusivo del Pontormo e tra i vari prototipi il più celebre è senz’altro l’autoritratto del Dürer ora al Prado, del 1498, che forse il Carucci può avere conosciuto attraverso qualche incisione. Ma soprattutto è da rammentare come l’amico e compagno di stranezze del Nostro, cioè il Rosso Fiorentino, si autorappresenti in un Cristo dalla barba e dai capelli rosso fiammeggianti come i propri in almeno quattro occasioni e in un arco di tempo che va dal 1521 al 1540: la Deposizione della Pinacoteca Civica di Volterra; il Cristo morto ora a Boston; la Deposizione in S. Lorenzo a San Sepolcro; e la Pietà ora al Louvre. Nella Pala Capponi Pontormo si raffigura dunque come Giuseppe d’Arimatea; come Cristo; ma anche come S. Giovanni.

Se infatti guardiamo il volto del giovane Evangelista che sostiene le braccia del Redentore vediamo che anche questo adolescente ha i lineamenti simili a quelli degli altri due personaggi: anzi il suo viso e quello dei Cristo sono assolutamente coincidenti, come risulta dall’immagine formata proprio dalla sovrapposizione dei due volti che, grazie alla ricostruzione grafica di Jason Cardone posso ora mostrare senza possibilità di fraintendimento. E se ruotassimo il volto di Giuseppe d’Arimatea e lo accostassimo a quello di Cristo e di Giovanni avremmo un’altra prova inconfutabile di trovarci davanti ad un triplice autoritratto. Jacopo si identifica pertanto nelle tre diverse età dell’uomo. Come era da giovinetto, nelle ve­sti di Giovanni, come era al momento del dipinto, nei panni del Cristo; come sarebbe stato in futuro in quelli di Giuseppe d’Arimatea, spettatore dei probabili, venturi, patimenti del mondo. Ma sia­mo anche di fronte ad una sottile resa psicologica dei diversi stati dell’animo: lo stupore inno­cente, la sofferenza consapevole, la meditazione malinconica. Tornando, prima di concludere con questo lungo inciso, alla luce glauca di cui si diceva in precedenza ed all’atmosfera di magica sospensione che pervade la tavola, essa è quella che precede un evento miracoloso in cui la luce è una luce soprannaturale che tutto colora quasi ci fosse un’eclisse. Il giovane Evangelista, la dolente Maria, il supposto Nicodemo che guardano abbacinati ed attoniti al di fuori del dipinto, verso il sepolcro, intuiscono che qualcosa di miracoloso deve avvenire, ma non sanno ancora né cosa né quando.

Passiamo ora finalmente all’analisi delle opere d’arte seicentesche dedicate al tema della peste, ricordando come il santo protettore dalla peste a Roma fosse San Michele Arcangelo cui Guido Reni ha dedicato uno dei suoi massimi capolavori, L’Arcangelo Michele che sconfigge il demonio eseguito per la chiesa, appena costruita, di Santa Maria della Concezione tra il 1631 e il 1634 e tutt’ora conservato in loco. Nel 1630 Guido aveva dipinto nella sua città natale un gigantesco paliotto votivo su seta da portare in processione dal Palazzo Pubblico alla chiesa di San Domenico in ringraziamento per la fine della pestilenza: la Madonna e Santi ora conservato presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna. Si tratta in effetti di una grande macchina scenica che oggi ci appare come una sorta di enfatico manifesto della poetica controriformistica tesa a stimolare i sentimenti di devozione dei fedeli e che aveva avuto proprio a Bologna nel cardinale Gabriele Paleotti uno dei massimi interpreti.

In alto la Vergine, con in braccio il Bambino recante una rosa, è assisa su di un trono di nubi e da essa si dirama una luce di un giallo assai intenso che contrata con il rosso e l’azzurro del suo manto e della sua veste, mentre un coro di angeli anch’essi recanti un profluvio di rose la circondano esultanti. Al centro del paliotto si apre un semicerchio con i santi Ignazio, Procolo, Petronio, Francesco d’Assisi, Francesco Saverio e Floriano, tutti pervasi da una gestualità magniloquente e francamente eccessiva, mentre in basso, appena visibile vi è un bellissimo e plumbeo inserto notturno della città di Bologna dalle cui mura escono i monatti, senz’altro la cosa migliore del quadro.

Al confronto con questo trionfo della “rettorica” più pomposa il San Michele della Concezione rifulge nella semplicità della sua assoluta purezza come uno dei vertici della pittura reniana e di tutto il primo Seicento italiano. La scena è mutuata, come è noto, dell’analogo capolavoro di Raffaello ora al Louvre del 1518; ma vi è da dire che l’angelo quasi danzante, nei suoi splendidi toni di rosa e di azzurro e come pervaso da un afflato divino, il volto di sublime bellezza, le grandi ali dispiegate a fendere l’aria, reggono in pieno il confronto con il celebrato prototipo. Così come di rara potenza è il michelangiolesco nudo del demonio sconfitto e calpestato, con alle spalle un inserto quasi boschiano di fiamme emergenti tra livide rocce; e così lo stesso pittore così commentava il suo dipinto in una lettera a monsignor Massini citata dal Bellori:

«Vorrei avere avuto pennello angelico, o forme del Paradiso, per formare l’Arcangelo, o vederlo in Cielo, ma non ho potuto salir tant’alto, ed invano l’ho cercato in terra. Sicché ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita e dovetti dipingerlo secondo la mia fantasia. Il demone invece l’ho incontrato parecchie volte, l’ho guardato attentamente e ho fissato i suoi tratti proprio come li ho visti».

Un’altra bellissima immagine dell’Arcangelo Michele questa volta accanto a San Rocco la abbiamo nel poco conosciuto San Rocco e san Michele Arcangelo ora nella scuola della collegiata di San Bartolomeo a Borgomanero di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone (Morazzone 1573-Piacenza (?) 1626) e databile intorno al 1615/16. Il santo, che occupa la parte principale della scena allarga le braccia a forma di croce rivolgendo lo sguardo al cielo mentre Michele rinfodera la spada, segno che la peste, cui rimandano anche i toni cerulei del paesaggio retrostante, è ormai cessata anche se essa viene ricordata nell’emozionante inserto in basso a destra con le realistiche immagini di un lazzaretto pieno di ammalati.

Lo stesso San Rocco (Napoli, Gallerie di Capodimonte) e San Sebastiano (Praga, Galleria del Castello) diventano in Carlo Saraceni due pellegrini colti in un momento di sfranto abbandono e privi di ogni funzione apotropaica in una sorta di “et in arcadia ego” in chiave drammatica. Ed è proprio Saraceni il principale referente stilistico di Orazio Borgianni (Roma 1574-1616) in un capolavoro anch’esso poco noto: San Carlo Borromeo tra gli appestati, già in Sant’Adriano in Campo Vaccino ed ora presso la casa generalizia dell’ordine Mercedario a Roma. Commissionata da Francisco Ruiz de Castro, ambasciatore del Regno di Spagna a Roma e databile tra il 1614 ed 1616. Si tratta di una sorta di geniale pastiche, se leviamo a questo termine ogni connotazione negativa, con una Milano dove ovviamente operava San Carlo che in realtà è una Roma umbratile e dai toni tra il bruno e il rosato con ben in evidenza Castel Sant’Angelo, nel fondo, e la chiesa di sant’Adriano ed alcune generiche rovine antiche più in primo piano.

San Carlo, con la sua inconfondibile immagine allampanata e dal grande naso adunco, reca in braccio un neonato appena sottratto da un cumulo di appestati e affidato ad un giovane pastore caratterizzato dalle due capre al fianco e che allude al Signore, Pastore per eccellenza; le capre erano del resto usate nei lazzaretti per l’allattamento agli orfani, come si evince dal trattatello De Pestilentia che Federico Borromeo scrisse nel 1630 e capre che allattano gli orfani si vedono anche nel San Carlo Borromeo che intercede per gli appestati di Marcantonio Franceschini in San Carlo a Modena e nel San Carlo Borromeo che battezza un bimbo appestato di Ludovico Carracci nell’abbazia di Nonantola e di un analogo dipinto del Cavedone nella Parrocchiale di Appiano Gentile (M. Gallo in Scienza e miracoli). Assai sapiente è comunque l’equilibrio che il Borgianni riesce a mantenere tra i toni drammatici delle scene di pestilenza e quelli fideistici e rassicuranti dell’intervento consolatorio del santo, con un trapasso cromatico graduale fino al rosso squillante della veste di Carlo, che incendia mirabilmente la parte centrale della scena.

Il prototipo di tutte le immagini borromaiche è come è noto La visita di Carlo Borromeo agli appestati del Cerano nel Duomo di Milano, dove l’artista «muta il registro della sua pittura per la necessità del racconto straordinario e dolente del lazzaretto, con gli episodi della donna morente e il vagare delirante degli appestati» (S. Mason, ibidem), prototipo che ha poi conosciuto grande fortuna anche in abito veneto che appare però “orientato su valori più fantastici, che sembrano rimuovere o alterare dal profondo ogni immagine di dolore” (ibidem).

E questo lo vediamo ad esempio in Verona supplice ai piedi della Trinità per la liberazione dalla peste del 1630 di Antonio Giarola detto il Cavalier Coppa (Verona 1595 ca. -1665 ca.) ubicata a Verona presso la chiesa di San Fermo Maggiore). Si tratta di una maestosa macchina scenica più orientata verso la pittura emiliana che quella veneta, non priva di un suo raggelato e magnetico fascino nelle figure purissime e per nulla macabre dei morti in primo piano e nel bel inserto paesaggistico di Verona sullo sfondo: esempio autentico di come la cronaca possa elevarsi a tragedia classica. O lo vediamo ancora in un altro dipinto veronese opera di un artista tutt’ora abbastanza misterioso, ossia Pietro Bernardi (notizie dal 1616 al 1623): San Carlo Borromeo prega per gli appestati di (Verona, S. Carlo, presbiterio). In questo caso i referenti sono piuttosto romani, e più precisamente proprio Orazio Borgianni, anche se “tradotto in moneta veneta”, come avrebbe detto il Longhi.

Rispetto al Giarola, Bernardi assiepa di più le figure e accresce i toni drammatici e patetici del racconto, ma mantenendo sempre un registro aulico e magniloquente che coniuga anch’esso cronaca e tragedia sia pure in maniera differente rispetto al quadro descritto prima.

Cambiando registro geografico voglio ancora citare altri due piccoli capolavori di Tanzio da Varallo (1575 ca.- 1632 ca.: il terso e nobilissimo San Carlo Borromeo comunica gli appestati (Domodossola, parrocchiale dei santi Gervasio e Protasio), quasi iperrealistico in certi bellissimi inserti naturalistici e il San Rocco intercede per gli abitanti di Cremasco (Varallo, Pinacoteca Civica), firmato 1631 ed in cui non possiamo che ammirare le splendide e nervosissime mani  del santo pellegrino o ancora il cane con un tozzo di pane in bocca che guarda fiducioso verso il proprio padrone.

E’ tutto veneto invece il più tardo modelletto di Antonio Zanchi (Este 1631- Venezia 1722) de La peste del 1630 a Venezia (Vienna, Kunsthistorisches Museum) datato 1666 e che riunisce in un’unica composizione quelle che nella realizzazione finale sono due grandi teleri ubicati nella Scuola di San Rocco a Venezia.

Si tratta di un vertiginoso e plumbeo roteare di corpi sospesi tra cielo e mare, quasi una danza macabra dove il corpo degli appestati viene contemplato nella sua desolazione, anche se poi sublimato nella foga virtuosistica della pennellata.

Niente abbellimenti o scorciatoie retoriche abbiamo invece nella Piazza del mercato di Napoli invasa dai cadaveri di Micco Spadaro, alias Domenico Gargiulo (Napoli 1612- 1675) ora al Museo di San Martino, da cui sembra esalare il fetore della decomposizione dei corpi ammassati alla rinfusa mentre il cielo si colora di un sinistro bagliore.

La morte qui domina sovrana e livellatrice e sembra riportarci indietro di almeno due secoli, al famosissimo Trionfo della morte oggi in Palazzo Abatellis a Palermo, databile intorno al 1445 ed attribuito ad un ignoto maestro del Gotico Internazionale, forse tale Vincenzio Romano o Alfonso Crescenzio.

Come ha osservato Stefania Macioce in un importante contributo su About Art (Cfr. https://www.aboutartonline.com/liconografia-dellapocalisse-il-tristo-mietitore-di-bocklin-e-le-immagini-del-contagio-nel-corso-dei-secoli/ )

«Nel lussureggiante giardino incantato, bordato da una siepe, irrompe la Morte su uno spettrale cavallo scheletrito. Essa inizia a lanciare frecce letali che uccidono gli esponenti di tutte le fasce sociali. La prorompente vitalità dell’equus pallidus occupa il centro della scena e sembra quasi esibire le sue costole e la macabra anatomia della testa scarnificata mostrando, con una nota di sarcasmo, denti e lingua. La Morte, sebbene abbia sul fianco la falce suo attributo, ha appena scoccato una freccia, che è andata a colpire il collo di un giovane nell’angolo destro in basso».

Si tratta di una possente allegoria della peste che aveva devastato la Sicilia nel 1442 e che duecento anni dopo aveva ripreso a cavalcare feroce e misteriosa come nel bergmaniano Settimo sigillo.

Sergio ROSSI   Roma 7 febbraio 2021

Bibliografia

Sergio Rossi (a cura di), Scienza e miracoli nell’arte dei Seicento. Alle origini della medicina moderna, catalogo della mostra (Roma, Palazzo di Venezia, 30 marzo-30 giugno 1998), Milano Electa 1998;

Sergio Rossi (a cura di), From Magic to Medicine. Science anf belief in 16th to 18th century art, catalogo della mostra, Helsinki, Sinebrychoff Art Museum.11-3/30-5 2004;

Sergio Rossi, Jacopo Pontormo e il suo doppio, in Los mundos del arte: Estudios en homenaje a Joan Sureda, Acaf-Art, Barcelona 2019, pp. 111-128.