La Calabria del vino. Una “novità”  di 2000 anni …

di Monica LA TORRE

Il mondo della critica enogastronomica guarda con attenzione alla rinascenza enologica calabrese. Ma parlare di novità in una regione che per oltre un millennio è stata la prima produttrice del Mediterraneo -e quindi del mondo antico – fa sorridere persino la Nemesi…

Antonio Boco, giornalista enogastronomico e firma autorevole del Gambero Rosso, affermava l’anno scorso come la Calabria fosse, agli occhi di molti addetti ai lavori, la vera sorpresa degli ultimi anni.

È come se la regione si fosse salvata” – dichiarava in una intervista alla testata online lacnews24.it-. (fonte:https://lacnews24.it/economia-e-lavoro/tesoro-enogastronomico-calabria_75027/) –

Non ha partecipato al gran ballo del “rinascimento enologico italiano” degli anni ‘90 e 2000. È rimasta fuori dalla corsa modernista. E a livello di territorio, il suo essere rimasta indietro oggi è considerato, paradossalmente, un vantaggio. Grazie all’isolamento, la Calabria ha saltato a piedi pari “il turbomodernismo”, ha salvato le tradizioni autoctone,  vede le caratteristiche locali ancora in essere, non ha intaccato l’impronta artigianale. Questa, con il nuovo modo di intendere e valutare il prodotto, è la cosa più ricercata, più importante».

Dal Reghinon al Cirò

Insomma, tutti gli occhi sulla Calabria del vino: almeno da qualche anno. E c’è da scommettere che sarà questa la nuova novità sui mercati italiani ed europei, nelle prossime stagioni. Le cantine calabresi che hanno attraversato incolumi le mode anni ’90 oggi rispedite al mittente, su tutto: l’abuso di legni e vitigni estranei al terroir, oggi brillano per originalità e unicità. Ed il fatto che si sia agli albori di un movimento, è provato da una notizia che ci arriva dal vibonese, e annuncia la nascita, ad opera di sei appassionati imprenditori, capitanati dal giovanissimo Renato Marvasi. (https://www.ilvibonese.it/economia-e-lavoro/66859-identita-passione-sogno-chiamato-doc-nasce-associazione-viticoltori-vibonesi/ ).

Chi poteva immaginare che l’arretratezza economica che ha severamente penalizzato la Regione, poteva salvaguardarne le identità arcaiche più nascoste?  E quale identità più fondante di quella legata al mondo del vino di una regione chiamata Enotria sin dall’VIII secolo avanti Cristo, dove già in età arcaica e poi soprattutto nel III a-C., nelle fonti si rincorrono nomi di vini famosi, spediti in ogni angolo del Mediterraneo conosciuto?

Il trionfo della Nemesi

Insomma, nel tornare a produrre vino in Calabria vi è l’innegabile trionfo della Nemesi, che rende giustizia ad una vocazione sottaciuta negli ultimi duecento anni, e soprattutto ad una identità che affiora dalla Sibaritide a Reggio Calabria in centinaia di rinvenimenti archeologici: ville, anfore, palmenti, strutture portuali. Tornare ad evidenziare il valore aggiunto di questa vocazione millenaria è d’obbligo: così come lo è salutare il coraggio imprenditoriale dei tanti che oggi rilanciano un’idea del prodotto calabrese fondato sull’identità e sull’originalità: dalla rivoluzione del Cirò alle esperienze aspromontane, da Reggio al neonato consorzio vibonese. Nel vino, come nel turismo balneare, la Calabria sembra essere l’ultimo grande mistero da scoprire del Mediterraneo.

Una guida d’eccezione

Silvana Iannelli

In ogni viaggio nel tempo che si rispetti, serve una guida d’eccezione: e noi l’abbiamo trovata in Silvana Iannelli, già archeologa della Soprintendenza archeologica della Calabria e direttrice del Museo e del Parco di Vibo Valentia e dei musei di Rosarno e Monasterace. È lei a farci capire sin dalle prime battute che la Calabria, e quindi la Magna Grecia, non possono prescindere dal rapporto con il vino, inteso in senso identitario, fondante, religioso, sociale e culturale, oltreché economico

VIII secolo avanti Cristo: nasce Enotria

«Se consideriamo che sin dall’VIII secolo avanti Cristo la Calabria veniva chiamata Enotria da oinos, vino, proprio per la sua straordinaria produzione vitivinicola, è evidente che ci troviamo di fronte ad un’antica tradizione che si intreccia con la nascita e la storia della stessa Magna Grecia – dichiara l’archeologa-. Certo: non è escluso che la vite fosse già presente in maniera sporadica nelle regioni della colonizzazione, Calabria compresa, prima dell’arrivo dei coloni, ma il VII secolo avanti Cristo, segna, il suo ingresso trionfale nella regione. La centralità della vite e del vino nella produzione e nella cultura greca si trasferisce con egual peso specifico nelle colonie, agevolato dalla straordinaria fertilità, dalle ideali condizioni delle regioni colonizzate, e dalla resa che daranno nei secoli a venire».

 Il vino nella civiltà

«I Greci producono vino sin dagli albori della loro civiltà – prosegue la Iannelli -. Il vino, tra l’altro significava convivialità sin dall’età arcaica. Il bere vino insieme costituiva la prova dell’appartenenza al medesimo gruppo. L’ammissione stessa al rituale del bere sanciva l’ingresso dell’individuo in una determinata comunità sociale. Da qui, l’importanza del vino anche nella Calabria magnogreca. Ripeto – ribadisce la Iannelli -: anche se non è da escludere la conoscenza degli autoctoni, la produzione sistematica in Calabria si ha solo dopo la nascita delle colonie, tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. E nel giro di due o tre secoli, acquista una centralità produttiva di tale portata, da diffondere la sua fama ovunque».

Vaso apulo con scene di simposio IV sec a C

I grandi vini… di secoli fa

<<Giá in etá arcaica – prosegue la studiosa – in Calabria erano segnalati vini pregiati, l’ “amineo” e il “byblinos“. Il primo,  tipico della fertile piana di Sibari, colonia famosa nell’antichitá per il lusso e la buona tavola. Ma già dal IV-III sec.a.C. le fonti segnalano altre varietá conosciute e commercializzate. Il “thurino” da Thuri, prodotto nella valle del Crati e del Coscile; il “lagaritano” da Lagaria, nel territorio dell’attuale Capo Spulico ; il “reghinon‘” nel territorio di Reghion, il “busentino“da Pissunte. Nomi che provano la vocazione enologica regionale, evidente nel nome Enotria, e confermata dai rinvenimenti archeologici».

Il vino: identità di una regione

Un mondo del vino centrale ed identitario, dicevamo: «Le fonti che ne attestano le modalità del consumo – specifica la Iannelli -, vanno dai testi omerici alle decorazioni dei vasi, ai documenti materiali frutto di scavi sistematici. Tra i materiali archeologici che attestano la produzione del vino in Calabria sembra il caso di citare i pinakes locresi in particolare gli esemplari che raffigurano il dio Dioniso che offre alla dea Persefone un vaso con alti manici (kantaros) pieno di vino e che regge sulle spalle un lungo tralcio di vite da cui pendono ricchi grappoli d’uva; c’è da dire anche che la rappresentazione dei grappoli è frequente su molti oggetti di sia di carattere sacro, come i pinakes che di uso comune».

Pinax da Locri con Dioniso che offre un Kantharos e un tralcio di uva a Persefone, V sc. a.C.

Un vitigno di duemila anni fa

In realtà per tutta la Calabria e per il vibonese in particolare, il maggior numero di informazioni sono relative all’età romana: si veda più avanti la villa di Cessaniti nel territorio di Vibo Valentia, dove la coltivazione del vitigno in duplice filare è documentata dal rinvenimento, durante lo scavo archeologico, di un doppio scasso per la piantumazione.  Idem per l’economia sussidiaria che accompagnava la produzione vinicola, dalla produzione di contenitori per lo stoccaggio alla logistica del trasporto: dalle anfore ai porti, passando per le navi mercantili (www.https://www.aboutartonline.com/dai-micenei-ad-ottaviano-augusto-passando-per-odisseo-piccola-storia-della-marineria-classica/.

La moneta di Hipponion 

Vibo Valentia Museo archeologico moneta in bronzo con anfora greco-italica IV sec.a.C.

«Tornando a Vibo Valentia, ad esempio,  – prosegue la Iannelli – vediamo come nel IV secolo avanti Cristo una delle monete di Hipponion presenti sul lato diritto un’anfora vinaria, a significare la centralità della produzione di vino nel sistema economico, tale da meritarsi un conio dedicato – racconta la Iannelli. E sempre in zona, è facile ipotizzare la presenza di infrastrutture connesse alla produzione, allo stoccaggio, alla commercializzazione del vino in età greca, confermate poi dai rinvenimenti romani, dalle ville al porto. La frequenza dei rinvenimenti di ville romane dotate di strutture per la lavorazione del vino, che talvolta nascevano impiantandosi ed assorbendo preesistenti fattorie greche, provano certamente l’antichità della tradizione enologica del comprensorio; anche se è necessario precisare che non sempre è possibile distinguere tra gli impianti per la produzione del vino e quelli per la produzione dell’olio».

La fattoria greca e la villa romana

La produzione vitivinicola segnava in modo importante la geografia del territorio e soprattutto il paesaggio agrario magno greco in generale e calabrese in particolare. «Nelle fattorie greche che facevano capo alla città, ma che si dislocavano nel comprensorio circostante, si viveva e si produceva sia olio che vino – specifica l’archeologa -. Lo dimostrano le aree di deposito, le anfore e le fonti scritte.

La viticoltura greca …

«Per i Greci, oltre ad Omero, la prima trattazione sistematica sulla viticoltura è l’opera di Teofrasto di Lesbo (370-285 a.C.) Ricerche sulle piante dove l’autore analizza la fisiologia della vita, i metodi di potatura e di propagazione, le esigenze climatiche, gli insetti e le malattie che le attaccano; ma ad esempio anche lo storico Polibio (200-120 a.C.) cita nella sua opera parecchie varietà di vino e Ateneo (340 circa – 260 a.C.) nel suo trattato Dipnosofisti (“Sofisti a banchetto”) sostiene che il vino di Reghion si può bere anche dopo quindici anni dalla sua produzione».

… e quella romana

«Per i Romani, solo a titolo esemplificativo bisogna citare il “De agricultura” di Catone (234-149 a. C.), Plinio il Vecchio (23-79 d.C.)  con la sua “Naturalis Historia”, e più tarda l’opera di Cassiodoro (490-583 d.C.) dov’è la localizzazione geografica delle aree vitivinicole della Calabria». 

SECONDA PARTE

La centralità del vino nella cultura greca e romana

Il culto di Dioniso

Annibale Carracci, Trionfo di Bacco e Arianna (part.)

Il culto dionisiaco, la religiosità, le pratiche, i rituali legati al vino ne confermano la centralità nella cultura greca.  Dio della vegetazione, e per questo dell’Uva e del Vino, signore della fecondità animale e umana, Dioniso gode di un corteo di figure mitologiche che lo accompagnano e ne esaltano gli abusi etilici e sessuali ritualizzati: le menadi ed i satiri. «La divinità di riferimento per il consumo del vino è senz’altro Dioniso – spiega l’archeologa – che presiede alle attività della vinificazione e di distribuzione sacrale del vino; elemento caratterizzante della sacralità della bevanda è il cratere, vaso consacrato a Dioniso con il quale il Dio miscela il vino e lo rende bevibile agli uomini.

Dioniso

Il figlio di Zeus e Semele che porta in dono agli uomini la vite può assicurare anche il godimento terrestre nel rispetto dei ritmi delle festività religiose, garantire le regole del “sistema politico” della città e nello stesso tempo può partecipare alla salvezza dopo la morte; queste in sintesi le peculiarità del dionisismo».

I vasi raccontano…

«Altra fonte d’eccezione per la conoscenza delle pratiche legate al consumo del vino sono le decorazioni vascolari sia greche che magno greche – specifica la studiosa-. Una in particolare, sul fondo interno di una coppa, rappresenta un uomo che, probabilmente dopo un simposio, vomita del vino sostenuto amorosamente da una donna che gli trattiene la fronte; una raffigurazione che prova l’approccio culturale verso la bevanda, l’accettazione di ogni sua “conseguenza” nella socialità».

Fondo di coppa attica a figure rosse con personaggio maschile che vomita vino trattenuto da una etera

Il bere del  greco e del barbaro

Insomma, l’approccio greco al vino era molto diverso rispetto a quello romano, ed antitetico rispetto al “barbaro”. «La convivialità nasce con i greci, sono loro a portarla nelle colonie italiche – specifica la Iannelli-. L’uomo greco banchettava sia in pubblico che in privato:  ma sempre annacquato, miscelato con acqua fredda o tiepida. Durante il simposio era compito del simposiarca deciderne le proporzioni. Bere vino puro era ritenuto uso barbaro, degno di popoli rozzi e incivili, tanto che già nella legislazione più antica, quella di Zaleuco di Locri, si prevedeva addirittura la pena di morte per chi avesse bevuto vino puro senza prescrizione medica. Una volta prodotto, il vino si depositava nei pithoi o nei dolia (grandi contenitori in terracotta) e per la tavola si mesceva nei crateri o nelle anfore, e quindi si consumava; comunque si trattava di un prodotto ancora grossolano, fortissimo, pieno di residui, e pressocché imbevibile se non regolato con miele o acqua anche salmastra: uso talmente importante da essere   prescritto dalle leggi».

Banchetto greco

Dalla Grecia a Trimalcione

La Cena di Trimalcione dal Satyricon di Fellini

I Romani, se da un lato affinano la tecnica di produzione, alleggerendo la bevanda, dall’altro riprendono l’arte del banchettare appesantendone le regole. L’usanza del simposio, in età romana, diventa più forte, più grossolana: basti pensare agli eccessi descritti da Petronio nel suo Satyrycon, nell’episodio della Cena di Trimalcione. Ma nei Greci, fondante era il valore politico e sociale dell’ospitalità. Tanto che bere da soli era sinonimo di inferiorità sociale.

Il bere da soli: inferiorità sociale

Il simposio non era l’unico contesto in cui si consumava vino, e nelle kapeléia – le osterie -, si beveva da soli. “Il bere singolarmente e smodatamente era ricollegato, secondo la tradizione ellenica, ad esseri di levatura inferiore rispetto all’uomo: satiri, donne, o maschi che, per caratteristiche ritenute anomale o motivo di derisione (aspetto fisico, sanità mentale, ceto sociale, provenienza…). Consumare il vino da soli era dunque considerato moralmente ed eticamente scorretto perché non assolveva il suo ruolo principe di valore sociale e di condivisione. Chi beveva da solo era un nemico della democrazia simposiaca”.

https://www.academia.edu/34973755/IL_SIMPOSIO_NEL_MONDO_ANTICO_DUE_CASI_A_CONFRONTO).

Dunque il simposio, il bere insieme era una dimostrazione di accoglienza e appartenenza. La stessa che diventa in età romana diverrà molto più esibizionista e spettacolare. Ma come era organizzato il momento più alto del vivere civile?

TERZA PARTE

Il banchetto come teatro politico e sociale 

 “E io ti dico che non esiste momento più amabile  di quando la gioia regna fra il popolo tutto,  e i convitati in palazzo stanno a sentire il cantore, seduti in fila;  vicino son tavole piene di pane e di carni, e vino al cratere attingendo, il coppiere lo porta e lo versa nei calici: questa in cuore mi sembra la cosa più bella.”

(Omero, Odissea, IX, vv. 5-11.)  

foto: Cratere a figure rosse con coppie a banchetto che giocano a kòttabos

Il banchetto e il simposio

Foto: Personaggio maschile a banchetto  su letto triclinare VI sec.a.C.

I greci non mangiavano seduti intorno intorno ad una tavola – prosegue la Iannelli -. Già in età arcaica era diffuso l’uso orientale di mangiare sdraiati sui letti triclinari ((klinai). Ognuno aveva di fronte a se piccoli tavolini (trápezai), dove si poggiavano i piatti con le vivande e le coppe per bere, Il banchetto (deìpnon) era diviso in due parti: nella prima, cioè durante il vero e proprio pasto si servivano i cibi cucinati e non si beveva vino, non si usavano né tovaglie né tovaglioli e nemmeno posate, ma i cibi giá tagliati venivano serviti su piatti di vario genere, e presi con le mani.

Il vino, il gioco, le donne

La seconda parte, il simposio (sympòsion), era dedicata al vino e agli “stuzzichini”, e spesso si protraeva sino a sera tarda (bisogna precisare però che il conteggio delle ore notturne era diverso da quello attuale perché in genere si andava a letto molto presto, per poi svegliarsi alle prime ore del mattino vista la mancanza di illuminazione artificiale). Per tutta la durata del simposio i commensali erano allietati dalla musica, dal gioco, e dalle danze delle etere». – (non essendo le donne di casa ammesse al banchetto, vi partecipavano solo le etere appunto: donne di compagnia, solo in parte assimilabili a cortigiane e prostitute, in realtà sofisticate figure che, oltre a prestazioni sessuali, offrivano compagnia e intrattenevano con i clienti relazioni prolungate, assimilabili in parte alle geishe orientali, ndr) -. « Uno dei divertimenti piú diffusi era il Kóttabos che consisteva nel lanciare un getto di vino in un recipiente posto in bilico su un sostegno; diffusi erano pure il gioco dei dadi e degli astragali.

Cratere a figure rosse con scena di banchetto gioco del kòttabos  iv sec.a.c. -2

Il maestro di cerimonie

Nel simposio era centrale altresì la figura del symposiarca vocato alla miscelazione del vino con miele o acqua salata, ma regolava le bevute ed organizzava i divertimenti. -continua l’archeologa-Soprattutto in età ellenistica il simposio divenne la sede nella quale si producevano e si conservavano i valori  della polis o perlomeno del suo gruppo dirigente; la presenza dei giovani al simposio conferiva alla riunione un valore educativo come occasione che concorreva alla formazione della classe dirigente; perciò il significato della riunione andava quindi ben al di là del vino e diventava: produzione e trasmissione della cultura, riflessione e progettazione politica, attività che avevano nel simposio sede privilegiata».

QUARTA PARTE

 L’economia del vino

Produzione e stoccaggio

Tornando all’economia che girava attorno al mondo del vino, oltre alla produzione, anche lo stoccaggio aveva il suo ruolo fondamentale. «In ogni centro magnogreco erano presenti i kerameicoi, cioè i complessi artigianali dove oltre alle stoviglie si producevano anche i contenitori e tutto quello che serviva, comprese le anfore destinate alle dispense, ai depositi, ai magazzini – racconta l’archeologa. Anche in Calabria, ad esempio nel vibonese, a Pannaconi in località Grancara, le indagini archeologiche hanno messo in luce i resti di una villa rustica con l’impianto per la produzione del vino costituito da vasche comunicanti e con un grande magazzino per contenere il prezioso liquido, con contenitori di ogni forma e capienza. 

I contenitori

Gli orci, i dolia, pithoi, contenitori capienti e con la bocca larga, potevano essere chiusi con un coperchio in terracotta, ma anche in legno o piombo, a sigillare il contenuto; e soprattutto  grande fu la produzione di anfore di diversa forma, dotate di puntale. Il fondo a punta di questi contenitori era finalizzato allo stoccaggio e consentiva di interrarle, e, per il trasporto, di impilarle facilmente inserendo il puntale nello spazio vuoto che si formava tra due anfore allineate, e assicurando maggiore capienza e maggiore stabilità al carico. Nonostante i numerosi rinvenimenti di età romana, ed i sistemi anche complessi di vasche e sifoni (turcularia) rinvenuti, è difficile distinguere i luoghi preposti alla produzione di olio e quelli destinati alla produzione di vino.

Foto: Vibo Valentia museo archeologico mostra produzione del vino in età romana, modellino in legno di un turculario

L’assenza di rinvenimenti di strumenti necessari alle specifiche lavorazioni, e la somiglianza dei processi produttivi nell’età antica, rende molto difficile la distinzione e fa pensare che nelle fattorie prima e nelle ville poi, si producesse indistintamente sia olio che vino. Idem per le anfore: numerosissime le tipologie, sia greche che romane, ma non sempre siamo in grado di distinguere se contenessero olio o vino, o se la stessa anfora fosse indistintamente utilizzata per il trasporto di entrambi».

Vibo Valentia Museo Archeologico Mostra Cucina Romana con deposito di anfore

La produzione calabrese

Certo è che la Calabria era tutta vocata alla produzione vitivinicola, senza esclusione di aree geografiche. «Per quanto riguarda poi la problematica relativa alla maggiore o minore produttività delle varie aree risulta molto difficile fare un paragone ad esempio tra zona jonica e tirrenica. I rinvenimenti archeologici seppur numerosi e comunque numericamente maggiori per l’età romana, devono comunque fare i conti con i limiti intrinseci della ricerca che per forza di cose non può essere effettuata a tappeto e in maniera esaustiva e pertanto i dati finora disponibili non consentono di paragonare le aree produttive della Calabria».

La villa di Pannaconi

«Prendiamo ad esempio Pannaconi: è solo il più importante, ma non l’unico rinvenimento di villa romana nel vibonese.  I resti scavati sono relativi ad un complesso produttivo costituito da tre ambienti connessi alla lavorazione del vino che inglobano una vasca originariamente di forma rettangolare che in seguito venne ristretta per assumere l’attuale forma ovoidale, e da quello che è stato interpretato come deposito per la presenza di tre grandi pithoi interrati. Dal punto di vista cronologico questo complesso produttivo è databile tra il II sec.a.C. ed il II sec.d.C. Il rinvenimento è molto importante proprio perché in questo caso riusciamo a risalire con certezza alla vocazione vitivinicola della villa, ma anche per un’altra peculiarità unica nell’archeologia calabrese: è stata identificata la tipologia di coltura del vitigno secondo un doppio filare di viti basse, che è documentata dal rinvenimento di due scassi di forma quasi quadrata accostati in cui erano stati piantati i vitigni a due a due secondo i dettami di Columella.

Foto: Pannaconi grafico del sistema pruduttivo con vasca e deposito di dolia

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Foto: Pannaconi grafico della villa con la coltivazione dei vitigni

Il deposito di Ricadi

«Negli ottanta del secolo scorso nella località San Maria di Ricadi, in prossimità del mare fu scavato un deposito per lo stoccaggio di anfore adibite al trasporto del vino, del tipo Dressel 1, prodotte localmente anche per il rinvenimento di parecchi scarti di fornace; insieme alle anfore erano presenti anche molti frammenti di un’altra tipologia molto rara di contenitori che tradizionalmente erano utilizzati per la produzione della pece (kadoi). Questi due prodotti, anfore e pece hanno in comune il fatto che sia in età greca che romana tutti i contenitori di derrate alimentari e quindi anche quelli per il vino venivano impermeabilizzati all’interno con uno strato di pece, perché la terracotta di cui erano costituiti è un materiale molto poroso e quindi il contenuto a lungo andare si sarebbe deteriorato se essi non fossero stati in qualche modo impermeabilizzati.

Foto: Vibo Valentia museo archeologico mostra sulla produzione del vino contenitori vari anfore e pithoi

Un’industria fiorente: la “nautica”

Foto: Ricadi S.Maria Dressel 1

Nell’antichità e soprattutto in Calabria era fiorente l’industria della pece per la presenza nel bosco calabrese di una particolare specie arborea il pino laricio da cui si estraeva dell’ottima pece che com’è noto serviva ad impermeabilizzare anche le imbarcazioni e i tetti delle case. Il rinvenimento del deposito di S. Maria di Ricadi, confermava anche le notizie delle fonti scritte che tramandavano la Calabria (il Brutium) come grande produttrice ed esportatrice di pece oltreché di vino. Per tornare alle anfore rinvenute a Ricadi aggiungerei che le Dressel 1 costituiscono la tipologia tra le più diffuse in Calabria nell’età repubblicana».

Le anfore

«Molte sono le tipologie di anfore adibite al trasporto del vino, in generale in tutta la Calabria ed in particolare nel vibonese. Per l’età greca assumono un ruolo importante le anfore cosiddette greco-italiche databili tra il IV-e il II sec.a.C. che possono essere considerate i modelli cui si ispirarono i successivi produttori di anfore dell’età romana. Per quest’ultima le tipologie più comuni oltre alle Dressel 1 di cui abbiamo parlato prima, sono, solo per fare qualche esempio: il tipo Dressel 2-4 che è caratterizzato dalla presenza delle anse bifide, ed è prodotto in Calabria a partire dal I sec.a.C. e la tipologia più tarda, detta Keay LII, contenitore di minori dimensioni rispetto ai precedenti caratterizzato dal fondo piatto e quindi privo di puntale, prodotto per un lungo arco temporale compreso tra il I ed il V sec.a.C.

 

La produzione vibonese

Per tutte queste tipologie (Dressel 1, Dressel 2-4, Keay LII) è stata accertata la produzione in ambito della regione ed in particolare nel vibonese grazie alle analisi chimiche effettuate sulla terracotta dei materiali mobili rinvenuti nel corso delle indagini archeologiche. Per finire la tematica delle anfore farei un ultimo cenno ad un altro rinvenimento molto importante di contenitori anforici piuttosto rari in Calabria, rinvenuti in località Piscino di Piscopio, sempre nel vibonese; mi riferisco ad una grande quantità di frammenti di anfore in miniatura dette spateia di produzione africana databili al VI-VII sec.d.C. che, tra l’altro testimoniano la prolungata attività del porto di Vibo Valentia che la ricerca archeologica ha ubicato tra le attuali località di Bivona e Punta Safò.

Insomma tra Cessaniti e Ricadi, ma anche nel centro propulsore di Vibo Valentia è presente una vasta produzione anforica necessaria allo stoccaggio ed alla commercializzazione del vino.

Le rotte del vino: il versante tirrenico

«Dalla Calabria, oltreché per il mercato interno, il vino partiva verso la Grecia, la Sicilia, il Nord Africa, la Spagna, l’Asia minore, come attesta il rinvenimento di tipologie anforiche prodotte in quei paesi. Quelle che oggi definiremo gli snodi logistici erano rappresentati dai porti, anche se buona parte delle attività commerciali avveniva anche per vie terrestri.  Nel vibonese, ad esempio, la città di Vibo Valentia e il Monte Poro che ne costituiva il territorio di appartenenza sia in età greca che romana risultano ben inseriti nei traffici commerciali con tutto il bacino del Mediterraneo. La grande vitalità economica di quest’area fu fortemente determinata oltreché agevolata dalla presenza del porto che aperto e recettivo ai traffici diventò il fulcro ed il tramite della floridezza economica della città sia in età greca che nelle epoche successive.

Foto: Vibo Valentia, museo archeologico:  ricostruzione di un relitto con anfore di varia tipologia

Il porto di Vibo Valentia

La ricerca subacquea negli anni ottanta del secolo scorso ha consentito l’ubicazione del porto di Hipponion e del municipium di Vibo Valentia nel tratto di costa compreso tra località di Bivona e la foce della fiumara Trainiti dove sono stati rinvenuti due antemurali di epoca romana che testimoniano la presenza di un porto strutturato.  Alcune fonti antiche in particolare Strabone cita opere di ristrutturazione del porto durante il III sec.a.C. da parte di Agatocle; da Cesare e da Appiano sappiamo che il porto di Vibo Valentia assunse un ruolo importante durante le guerre civili nell’anno 49 a.C., fu teatro dello scontro tra Cassio contro Cesare e Ottaviano, guadagnando il favore dei due condottieri. Il rinvenimento nei pressi delle strutture portuali in località Bivona, di una villa strettamente connessa alle attività commerciali, nonché le fonti più tarde testimoniano la lunga attività del porto nel tempo. Infine Gregorio Magno testimonia che dal porto di Vibo Valentia partono le navi cariche del legname destinato alla costruzione delle basiliche di San Pietro e San Paolo a Roma, su richiesta dello stesso papa che si era rivolto a vari personaggi tra cui Arechi, duca di Benevento e Venerio vescovo di Bivona. Insomma, un porto tra i più importanti della costa tirrenica, attivo per secoli».

Foto: Trainiti- antemurale del porto di Vibo Valentia
Trainiti. Antemurale del porto di Vibo Valentia

Il versante ionico

Sulla costa jonica anche le colonie greche di Locri e Sibari erano dotate di porto. Ma dobbiamo operare una distinzione riguardo alla tematica dei porti: i Greci, in genere sfruttavano gli approdi naturali, le baie protette e non costruivano strutture per agevolare l’approdo; furono i Romani a rafforzarli, proteggendone attracchi, attività e servizi con muraglioni, in un’ottica logistica modernissima».

I collegamenti terrestri

Quanto ai collegamenti terrestri, in ambito regionale avvenivano secondo due direttrici principali: la via Annia Popilia grande arteria romana di collegamento tra Capua e Reggio (via “ab Regio ad Capuam”); la conferma archeologica che la via Popilia attraversava Vibo Valentia è costituita dal miliario romano (una colonnina in pietra) rinvenuto a San Onofrio nel vibonese, con l’indicazione in cifre romane (CCLX) della distanza e del nome Annius, identificato col pretore T. Annius Rufus, prefetto che aveva provveduto a completare la costruzione della strada; l’altra via di comunicazione probabilmente si articolava lungo il Sinus Vibonensis,attuale Golfo Lametino e penetrava sulla costa jonica verso Skylletion/Scolacium (attuale Roccelletta di Borgia), attraverso la via istmica segnata dal fiume Savuto. Non si possono escludere però altre vie interne.

APPENDICE

La rinascenza del vino calabrese: l’ultima “novità”

Renato Marvasi

A simboleggiare la rinascenza enologica calabrese abbiamo dunque seguito un criterio cronologico, parlando dell’ultima nata: la neonata associazione di produttori di Vibo Valentia, il cui presidente, Renato Marvasi, mette subito le cose in chiaro: «Non ci si può confrontare con il vino in Calabria senza caricarsi sulle spalle la vocazione millenaria di questa terra. Anche il più piccolo produttore deve esserne consapevole. Siamo chiamati a ridare dignità e concretezza ad una delle produzioni più antiche del Mediterraneo, e quindi del mondo. E per questo, criteri come identità, qualità, rispetto delle tradizioni devono accompagnarci in ogni progetto, ogni azione. Le innovazioni tecnologiche hanno il compito, a nostro avviso, di accompagnare e sostenere la riscoperta del terroir senza stravolgere il vitigno.  Tradizione e modernità devono viaggiare di pari passo. Il consiglio del “vecchio contadino” vale oro. Specie se applicato al vitigno antico che siamo chiamati a riscoprire: su tutte, il Magliocco canino, o lo Zibibbo autoctono,  l’uva Greco nero o bianco (già il nome dice tutto!) il Pecorello, il Guardavalle, l’Aglianico e il famoso Gaglioppo. Ripeto: parola chiave dell’Associazione produttori di Vibo Valentia è “valorizzazione del territorio attraverso la coltivazione di “antiche piante”, e  salvaguardia dei terreni. Quando si parla di vino si parla di un territorio, ogni nostro sforzo è perciò mirato a valorizzare, preservare, e salvaguardare la viticultura come espressione del identitaria».

Foto Marvasi

Monica LA TORRE 3 maggio 2020