L’ “Art Brut”, Dubuffet e i 97 anni di Lorenza Trucchi; l’omaggio di Mario Ursino

di Mario URSINO*

          Lorenza Trucchi e Jean Dubuffet

Non è possibile, almeno per me, parlare di Jean Dubuffet (1901-1985) [fig. 1],

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senza pensare anche a Lorenza Trucchi [fig. 2], e non perché, come tutti i critici d’arte sanno, questa gran signora dell’arte è stata la prima a far conoscere al grande pubblico in Italia il più singolare artista francese del secondo Novecento (va ricordato il volume Jean Dubuffet, Roma 1965)

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ma per l’onore di averla conosciuta, tra il 1989-1990, proprio quando Ella curò nella Galleria Nazionale d’arte Moderna la grande retrospettiva Dubuffet [fig. 3], promotore e teorico dell’Art Brut, famosa definizione da lui stesso coniata per definire l’arte degli alienati, sia nell’accezione psichica, come nella condizione sociale. Oggi si ripresenta una nuova antologica di Jean Dubuffet. L’arte in gioco, [fig. 4] alla Fondazione Palazzo Magnani a Reggio Emilia, per la cura di Martina Mazzotta e Frédérich Jaeger (fino al 3 marzo 2019).

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Fu in quella ormai lontana occasione più sopra citata, che ebbi l’incarico di intervistarla per un articolo che fu poi pubblicato sulla rivista “Art e Dossier” (n.41, dicembre 1989), allora diretta da Maurizio Calvesi. Devo dire che precedentemente, prima ancora di conoscerla, ero stato attento lettore dei suoi frequenti articoli di critica d’arte che comparivano su “Il Giornale” negli anni Ottanta; articoli di esemplare chiarezza, come una vera e propria lezione di storia dell’arte; del resto Lorenza era stata docente in diverse accademie in Italia, e soprattutto a Roma, come si ricordano molti dei suoi allievi. Sua convinzione è sempre stata quella di riuscire di spiegare l’arte a chiunque, senza mai cedere al linguaggio astruso, e spesso spocchioso, di certa critica d’arte nostrana; infatti Lorenza,

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significativamente, intitolò una sua raccolta di saggi Arte per tutti [fig. 5], dal suo famoso, toccante, puntuale testo su Johannes Vermeer, Enigmi e luci di aprile:il racconto di un capolavoro, fino al contemporaneo inglese David Hockney;  58 articoli, se ben ricordo, dedicati tutti ad artisti stranieri, da lei stessa selezionati, in un arco temporale tra il 1965 e il 1989, per le eleganti “Edizioni della Cometa”, Roma, 1992, in mille copie, numerate a mano (un volume insomma anche per pochi collezionisti del genere). Ma i suoi scritti sono davvero per tutti coloro in grado di apprezzarne la chiarezza e la passione con la quale l’illustre studiosa li aveva composti. Tuttavia Lorenza non si è mai considerata una cattedratica, come ha scritto nella Prefazione al volume di cui sopra:

Ho scelto un mazzo di articoli che vertono su artisti stranieri e che hanno una certa andatura di ritratto. Sono convinta, infatti, che dietro un grande artista ci sia sempre un uomo di specie e di destino singolari, non meno interessante da conoscere per arrivare alla sua opera. Ed è anche questo un elemento della mia posizione antiaccademica…”.

Del resto è nota la sua frequente definizione di sé. “Sono soltanto una giornalista”. E difatti, con la modestia di una cronista, ma sempre con la sua naturale eleganza di lady, non trascura di visitare mostre, da lei ritenute interessanti, sia in gallerie private che pubbliche, e ovviamente agli appuntamenti nella nostra Galleria Nazionale. E, a dimostrare la sua affezione per il nostro museo d’arte moderna, Lorenza ha voluto recentemente fare dono, nel maggio del 2016, di un importante dipinto di Dubuffet (di cui il nostro museo non possedeva nessuna opera), La vie pastorale II, 1964, olio su tela, cm.89×116 [fig. 6].

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Dunque, è in queste frequenti occasioni che ho avuto il privilegio di scambiare con lei opinioni e colloqui sempre cordialissimi, mai banali o di circostanza. E l’intervista del 1989, cui facevo riferimento in principio, fu per me il miglior modo per comprendere in pieno la complessa personalità di Dubuffet. Perciò, quando le chiesi perché considerava Dubuffet un artista “filosofo (riformatore) che ha elaborato un pensiero sistematico”, Lorenza Trucchi mi rispose:

Dubuffet ogni volta che faceva una ricerca, o meglio, che concludeva un periodo, ne redigeva un commento. Si può dire che l’attività creativa e operativa è sempre conclusa da questi scritti, da queste note di lavoro che divengono così la traccia più sicura, valida e illuminante per chiunque voglia affrontare un’opera che, oltre che ampia e articolatissima, è indubbiamente complessa. Va detto che Dubuffet è scrittore notevole e lucidissimo. Si sente sempre la sua solida cultura, anche quella classica: parlava, per esempio il greco antico. E del resto solo chi è profondamente colto può assumere con tanta spregiudicata sottigliezza una posizione così radicalmente anticulturale”.

L’epiteto “anti-culturale” è la derivazione critica e di interpretazione di un suo famoso

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testo apparso nel 1968, Asphyxiante culture [fig. 7] nel quale l’artista riflette sulla ricerca da lui iniziata nel 1946 e sul significato equivoco della parola “culture”:“Le mot culture est employé dans deux sens différentes”, ovvero che include tanto la conoscenza del passato (quella però asserita dalla cultura ufficiale),  sia l’attività creatrice, e pertanto – egli aggiunge – “l’activité  créatrice de la pensée ne sont qu’une seul et meme chose”. Contro questa pregiudiziale idea dell’attività artistica, egli ha costruito la sua singolare teoria e filosofia dell’arte.

E fu ancora Lorenza Trucchi a chiarire il senso rivoluzionario della sua arte (precisando che esso non è ideologico, nel senso tradizionale del termine), bensì, Ella aggiunse:

Durante il suo tenace, intrepido, intensissimo lavoro di revisione degli idola e di riabilitazione dei valori misconosciuti, accantonati, umiliati, Dubuffet cerca di andare sempre alla radice dell’Essere e in questo senso, l’unico maestro dell’arte contemporanea al quale può essere paragonato è Klee”.

E quando, come ultima domanda, le chiesi di illustrare i criteri della sua mostra, la risposta fu la più cartesiana possibile, trattandosi di un artista-intellettuale francese, quale è stato Jean Dubuffet: innanzitutto Lorenza volle presentare alla mostra opere dell’artista anteriori al 1942, mai esposte prima, che rappresentano gli inizi della sua pittura, e fu questa una novità assoluta. A parte queste opere inedite, l’esposizione venne suddivisa in tre grandi cicli: il primo dal 1942 al 1964, dove “Il suo segno caratterizzante è una certa lotta interna tra la materia e la forma, svolta con ogni tipo di strategia operativa”. Il secondo ciclo, fu globalmente indicato con il termine Hourlupe (termine inventato dadaisticamente, senza senso, eppure dal suono naturalistico, quale potrebbe essere l’esclamazione di un folle; così come le opere dell’Art Brut dei malati mentali, collezionate da Dubuffet a partire dal 1945, e poi donate al Museo di Losanna, e che ora sono in parte esposte nell’appendice della mostra a Reggio Emilia; ndA), e che, malgrado una maggiore unità linguistica  aveva detto Lorenzava anch’esso frazionato in vari titoli, è antinaturalistico e mentale (come si vede ad esempio nel grande dipinto, Site domestique (au fusil espadon) avec tete d’Incas et petit fauteuil droit, 1966,  vinile su tela,  cm.125×200, Parigi, coll. Jeanne Bucher Jaeger). Il terzo ciclo ˗ ‒ concluse ‒  che inizia verso la metà degli anni Settanta, è piuttosto variato, anche se l’elemento sovrastante è il colore.

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Il medesimo criterio, sopra indicato, è stato adottato anche dai curatori per la mostra  Dubuffet.

L’arte in gioco, articolata cronologicamente, come recita il sottotitolo, Materia e Spirito, 1943-1985, secondo il pensiero dello stesso artista:

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La pittura ha un doppio vantaggio sul linguaggio delle parole. In primo luogo evoca gli oggetti con maggior forza, si avvicina di più ad essi. D’altra parte apre meglio le porte all’interna danza dello spirito del pittore. Queste due proprietà fanno della pittura un meraviglioso strumento per provocare il pensiero – o, se preferite, la veggenza” (Jean Dubuffet, Posizioni anticulturali, 1951).

Si vedano, al riguardo, le rarissime serie di litografie del 1945, dall’emblematica definizione, Matière et mémoire  [figg. 8-9], e il volume, Les Mures, con illustrazioni tutte ispirate dai graffiti sulla pietra, spesso anche osceni, segni e figure lasciati degli sbandati in giro per la città [fig. 10].

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Del resto, Dubuffet ebbe ad affermare in proposito nel 1946:

I colori che trovo in un sasso, in un vecchio muro, sono più ricchi di umori di quelli di nastri e fiori”.

Alcuni suoi lavori (v. Arabe au fusil, 1948 [fig. 11], Montreal, Landau Fine Art,

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o Paysage grotesque violâtre, 1949 [fig. 12], Parigi, Musée des Arts Décoratifs)

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 sembrano anticipare i dipinti di Basquiat, quarant’anni prima; ma sarebbe sbagliato confondere le opere di Dubuffet con il graffitismo contemporaneo, come quello di Banksy [figg. 13-14]

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e altri graffitisti divenuti ormai quasi artisti professionisti della pittura su strada in tutto il mondo, come, ad esempio in Italia, il team romano dei Samba” (Arte Urbana a San Basilio, fig. 15).

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L’opera di Dubuffet, diversamente e in largo anticipo su questo fenomeno contemporaneo, al pari degli Esercizi di stile del 1947, dello scrittore Raymond  Queneau (1903-1976), va intesa come analisi del linguaggio che sconfina nel territorio più ostico dell’antropologia culturale; ovvero l’artista ha dominato, organizzato, disciplinato la difficile, prosaica materia degli istinti e dell’irrazionale, richiamandosi a forze dell’Essere non ancora contaminate dalla storia, contro la cultura sclerotica dell’ufficialità. Un’analisi, in chiave artistica, della ribellione dell’incolto, del gesto dissacrante dell’emarginato e del demente nel reticolo della moderna metropoli, dell’istintività del disegno infantile sui muri della città, negli orinatoi, in tutti i luoghi pubblici: sono questi i temi che hanno costituito per Dubuffet ciò che per i cubisti è stata la conoscenza della scultura primitiva africana. Ma se per costoro tale interesse era dovuto al raggiungimento di una essenzialità formale, per Dubuffet quei riferimenti attinti dalle tracce impresse sulle pareti della squallida realtà urbana (in questo senso l’arte di Dubuffet si innesta storicamente nell’Informale, pur distaccandosene in maniera personalissima) assumono un significato ben più profondo: al di là della forma-materia, l’artista francese indaga le energie ancora inesplorate, anzi, più propriamente, le inesplose capacità espressive nel campo dell’arte.

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Della serie Hourlupe, di cui si è fatto cenno, nata da un disegno grafico mentre l’artista parlava al telefono agli inizi degli anni Sessanta, si sviluppano disegni, dipinti (v. i suoi Autoritratti, 1966 e 1967, figg. 16-17), e poi singolari grandi pitture e  sculture-moduli, detti anche “praticabili”, in tre-quattro colori, bianco, rosso e blu e nero, realizzati per il teatro (Cocou Bazar), quindi di grandi dimensioni, in legno, resina, vernice vinilica (v. ad es. Chatelet d’arbuste, 1971, praticabile di Cocou Bazar cm. 245x170x35 [fig. 18], Parigi, Fondation Dubuffet; e Cocou Bazar, 1971-1972, opera d’arte totale, in cui convergono pittura, scultura, teatro e musica, Parigi, Musée des Arts Décoratifs, fig. 19).

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La terza parte della mostra è dedicata ad opere di intenso cromatismo, eseguite tra il 1976 e il 1984, un anno prima della sua scomparsa. Dipinti, come Lieu de campangne aux  deux promeneurs, 1975 [fig. 20], Parigi, Fondation Dubuffet, e Site avec 2 personnages, E 49, 1982 [fig. 21], Parigi coll. E. Jaeger, dagli accesi colori, segni vibranti e figurette infantili, vanno ad introdurre coerentemente quel gruppo di opere di autori dell’Art Brut, collezionate e studiate da Dubuffet, e poi, come detto, donate al Museo di Losanna.

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E come ci ricordano ancora le parole di Lorenza Trucchi:

“Art brut non vuol dire arte rozza o bruta, ma arte fuori dai canali della cultura ufficiale, fatta da individui che sono degli isolati, spesso ai margini della società. I disegni, i dipinti, le sculture che Dubuffet ha trovato, raccolto, dando luogo a una straordinaria collezione, oggi a Losanna, testimoniano come spesso quest’arte nasca e si manifesta come una rivalsa. Proprio Dubuffet diceva che gli esponenti dell’Art Brut creando le proprie opere partecipano alle feste che la vita ha loro negato”.

Certo i nomi di costoro rimangono allo stato attuale pressoché sconosciuti al grande pubblico, che ora si possono vedere nella sezione in appendice della mostra a Reggio Emilia: dai primi, quali Aloȉse Corvaz (1894-1964), Adolf Wolfli (1864-1930), Scottie Wilson (1888-1972), Louis Soutter (1871-1942), Magde Gill (1882-1961), Carlo Zinelli (1916-1974), Franz Gablet (1910-1974) ai più recenti, come Johann Fisher (1919-2008), Johann Garber (1947), artisti tutti affetti da problemi psichici, ma che trovavano, e trovano anche oggi, nell’esercizio creativo senza regole, un loro personalissimo modo di rappresentare lavori di forze espressive, e non prive talvolta di una certa grazia decorativa, e che ora vengono accolti con interesse in musei e collezioni private; come si comprende con chiarezza nella mostra in oggetto, appunto, grazie alla scoperta di Dubuffet, che, non a caso, si è sviluppata nella Parigi di Henry Miller (si pensi a Tropico del Cancro e al suo triviale fraseggio, ai nostri giorni divenuto purtroppo di incivile normalità), di Blaise Cendras, di Létaud, di Artaud, di Mandiargues, di Robbe-Grillet e della Sarraut: tutti autori che con l’uso della letteratura di valori “décriés” (poetica delle cose umili e disprezzate) hanno caratterizzato il clima culturale del secondo Novecento.

Mario URSINO*    Roma Gennaio 2018

*Dedico questo mio testo a Lorenza Trucchi, Signora dell’Arte e Maestra della critica, sperando di leggere un giorno una sua autobiografia di quella temperie culturale di cui è stata mirabile protagonista e testimone.