In mostra a Roma il genio di Alberto Martini, un “dandy” che usò come nessun altro inchiostro e matita.

P d L

La prima domanda che nasce dopo aver visitato l’esposizione inaugurata da pochi giorni nel nuovo spazio adiacente alla storica Galleria W. Apolloni di via Margutta 53B, dedicata alla figura tanto geniale quanto misconosciuta di Alberto Martini e aver recepito le accurate spiegazioni che la curatrice, Monica Cardarelli, infaticabile cacciatrice di figure di artisti immeritatamente ridimensionati o pressoché ignoti ai più, concede – con evidente soddisfazione- ai visitatori che si avvicinano alle opere, è se non sia il caso di ribaltare i luoghi comuni negli studi in questo settore e se non abbia ragione lei che da tempo ha iniziato a praticare e ad approfondire l’interesse verso la storia degli artisti meno appariscenti, meno ‘commerciali’, meno musealizzati, apparsi sulla scena artistica nel lasso di tempo compreso fra la fine dell’800 fino agli anni Cinquanta del XX secolo.

Pensiamo ad esempio ad alcune delle ultime esposizioni della Galleria il Laocoonte da lei diretta, come quella dedicata al Genere femminile dell’arte del ‘900 italiano  in cui riemergevano artiste di chiaro valore ma da tempo in ombra, per non dire del saggio su Margherita Vanarelli, un’artista romana pressoché ignota (Fig 1).

Occorre dire però che anche nella Galleria Carlo Virgilio di via della Lupa 10, dove sotto il titolo Alberto Martini. “La penna e il bisturi dell’arte”, (Fig 2) altre opere di questo personaggio (in particolare i disegni per Edgar Allan Poe) a suo tempo famoso fanno bella mostra di sé, l’accoglienza e l’affabilità della ‘guida’ non è stata da meno, oltre ovviamente alla qualità delle opere esposte.

E tuttavia nel caso di Monica Cardarelli certamente deve aver giocato se non la sindrome di Stendhal quanto meno  la fascinazione della studiosa nei confronti del ‘personaggio  Martini’ (Oderzo, 1876 – Milano, 1954), iniziata da tempo, se è vero che era stato oggetto primario dei suoi interessi ancora negli anni dell’Università a Firenze fino alla specializzazione, interessi poi sfociati in una pubblicazione Alberto Martini. Il Poema delle ombre, per i tipi di De Luca Editori d’Arte, nel 2017, per finire col raccoglierne, insieme a suo marito, il gallerista Marco Fabio Apolloni, le opere che ora sono poste all’attenzione degli appassionati nel nuovo spazio in via Margutta 53b concepito come un vero “Gabinetto dei Disegni destinato d’ora in poi alle esposizioni di arte grafica antica e moderna … Un luogo adatto alla tranquilla meditazione, al muto colloquio con i fogli”, come spiega lo stesso Apolloni nella Introduzione al Catalogo dall’evocativo titolo Alberto Martini. Maschere e Ombre, prodotto dalla editrice D’ARTE (Maggio 2021).

Va detto che Martini è un soggetto che nelle iniziative della coppia Cardarelli Apolloni è comparso altre volte, da ultimo nella esposizione La “Commedia dell’Arte”  Le maschere e il Carnevale nell’arte italiana del XX secolo curata da entrambi i galleristi per Londra art week presentato come un “visionario artista” precursore del surrealismo”. Ma ora l’esposizione a lui dedicata e certamente progettata affinché il suo genio –è proprio il caso di dire così-  emerga in tutta evidenza ci restituisce l’immagine di un artista che conobbe una fama strameritata poi però se non dissoltasi comunque progressivamente svanita nel corso degli anni successivi alla sua scomparsa.

E’ ancora Marco Fabio Apolloni a delineare nel catalogo i tratti peculiari del personaggio, con un’efficacia esplicativa tale da renderne immediatamente percepibile la figura, anche a chi ne sentisse parlare per la prima volta:

“ … provinciale e cosmopolita a un tempo, dandy maniacalmente elegante nel vestire, fiero dell’aureola di seduttore”

per rimarcarne poi la perfetta figura di bel tenebroso “imperturbabilmente fissato nella sua eterna giovinezza”.

E sembrerebbe facile a prima vista – se volessimo subito contestualizzare- entrare immediatamente in termini di paragone con gli “eroi” dell’estetismo decadente del tempo, protagonisti nel bene e nel male dei tre notissimi romanzi usciti più o meno in contemporanea: il Jean des  Esseintes di A Rebours  di Joris-Karl Huysmans, il primo romanzo di questa sorta di epopea decadente, che poteva essere l’ultimo considerando quello che scrisse la critica dopo la sua uscita e cioè che all’autore non restava altra via che spararsi una revolverata o farsi prete (un giudizio che quasi colse nel segno, se è vero che lo scrittore parigino scelse di lì a qualche anno di diventare oblato benedettino laico). Ad esso seguirono, com’è noto,  il Dorian Gray di Oscar Wilde, e l’Andrea Sperelli del Piacere di D’Annunzio.

Con il “Vate” Martini fu “in rapporto costante”, come è sottolineato nel catalogo della mostra in via della Lupa, e a lui dedicò un disegno nel 1938, fatto “sull’onda emotiva della sua morte”; D’Annunzio peraltro per Martini aveva coniato l’appellativo di “Alberto Martini de’ Misteri”, “destinato a legarsi indissolubilmente all’immagine dell’artista”. (Fig 3)
Ma partiamo dagli esordi, quando cioè Martini inizia ad illustrare il Morgante Maggiore di Luigi Pulci (Fig 4).

fig 5 Ex Libris Alberto Martini 1895 (Galleria Apolloni)

Da questo momento, siamo nel 1895, la letteratura – ma non solo, come vedremo- sarà in pratica la base su cui costruire ed esprimere il suo linguaggio. L’artista, come scrive nella scheda Alessandro Botta che firma il catalogo della esposizione in via della Lupa (traduzione inglese di Sophie Henderson), “è già in grado di dominare ampiamente il mezzo grafico”. Lo dimostrano gli Ex Libris che aprono invece il catalogo della esposizione di via Margutta; la Cardarelli nella scheda dal titolo Ex Libris Alberto Martini (Fig 5) rimarca a sua volta “la natura fantasiosa dell’artista” che si unisce con “l’esercizio quotidiano sui grandi maestri del passato, soprattutto di area nordica, Dürer in particolare”. E’ una pratica che porterà Martini a realizzazioni di estrema raffinatezza e forza espressiva nello stesso tempo: ne è un esempio il foglio a china e tempera su cartoncino con cui l’anno successivo esegue Tronchi d’albero (Fig 6)  insieme alla stesura dei nove disegni a penna che fanno parte del ciclo intitolato il Poema del lavoro, ispirato alla vita dei campi, in cui “l’artista ritrae l’aspra dimensione della fatica e del sacrificio che la terra impone ai contadini”.

Tronchi d’ albero, 1896, china e tempera su cartone, 235 x 295 mm (Galleria Apolloni)

Ne sono evidente testimonianza le chine su carta (in Galleria Carlo Virgilio) del 1897 che illustrano appunto  Il Poema del Lavoro  e raffigurano Il Canto degli emigranti,

Il canto degli emigranti, 1895

l’Apostolo

L’Apostolo, 1897

e soprattutto Le Spine Sante,(Figg 7,8,9)

Le spine sante, 1897

il cui sfondo sembra richiamare i Tronchi d’albero dell’anno precedente (in Galleria Apolloni) dove s’intrecciano “alberi dalle forme irregolari” quasi “creature magiche ibernate da un gelido inverno” (Cardarelli, catalogo, p. 12).

 Ma se non si può negare un interesse dell’artista per i temi sociali legati soprattutto alla vita dei campi, sarebbe probabilmente fuori strada chi credesse di vedere in quei rami rinsecchiti e contorti che si ergono dal terreno, in quei personaggi curvi e disfatti, un richiamo ancorché estremo ai temi e ai valori del naturalismo e del verismo, elaborati da Luigi Capuana secondo la concezione dell’opera d’arte come organismo vivente, e resi quasi plasticamente visibili nelle ardenti atmosfere rievocate magistralmente da Verga nelle Novelle Rusticane o nel Mastro don Gesualdo di dieci anni prima; come pure sarebbe perfino illogico cogliere un qualche segnale di vicinanza, non diciamo adesione, rispetto alle esordienti idealità del socialismo, in quel sole nascente alle spalle de “L’uomo con le forbici” (in Galleria Apolloni) (Fig 10).

L’uomo con le forbici, disegno finito, 905, china su carta, 185 x 257 mm

Niente di tutto questo: non è, quello, il “sole dell’avvenire”,  nell’arte di Alberto Martini non c’è traccia di lotte sociali, di agitazioni operaie e contadine, di manifestazioni di piazza; eppure non dovettero passare sotto silenzio neppure per lui le cannonate del maggio 1898 a Porta Ticinese, nella sua Milano, con cui Bava Beccaris stroncò al prezzo di centinaia di morti gli scioperi per il pane, se pensiamo che perfino D’Annunzio scelse di abbandonare i banchi dell’estrema destra per quelli della sinistra con un gesto teatralmente sottolineato da una frase divenuta celebre “Vado verso la vita!”. Ma se certamente non ha alcun senso sostenere che l’arte di D’Annunzio sia stata un’arte ‘popolare’, ancor più si deve ritenere che un attributo che sicuramente non si addice all’arte di Alberto Martini è che fosse destinata alle masse.

Non è su questa strada, insomma, che va seguito il percorso di vita e l’impegno artistico di Alberto Martini; le sue chine, i suoi disegni non operano sul piano del ‘messaggio’ , ma su quello, se possiamo dire così, della mera funzione estetica: c’è sempre in lui una sorta di carica vitalistica che è tipica del pittore nato, del genio, dove la assidua ricerca della perfezione, dell’equilibrio compositivo e dell’impatto visivo rispondono all’unico ma determinante criterio della interconnessione creativa fino ad una sorta di circolarità tematica che addirittura pare prescindere dal tempo. Siamo dentro, se si vuole, alla logica di quell’ “arte aristocratica” di cui il suo mentore Vittorio Pica fu “strenuo difensore”, mentre Papini ne esalterà le doti artistiche “alludendo più di una volta al carattere erotico – fantastico delle sue opere” (Cardarelli, p. 68)

Alberto Martini, Autoritratto, 1905, china su carta, firma in basso a destra ‘AM-Alberto Martini’

Un artista, dunque, come coglie bene Marco Fabio Apolloni, “imperturbabilmente fissato nella sua eterna giovinezza”, così come appare in quell’autentico capolavoro che è l’Autoritratto, (Fig 11) realizzato all’età di 29 anni “vertiginosa opera di penna “ dove “una minuscola donna nuda dalle ali di lepidottero” (che ci sembra non tanto distante concettualmente dal carapace che Jean des Esseintes, per l’appunto, ha tempestato di diamanti) che appare sopra “una tavola disegnata per la Berenice di Edgard Alla Poe”, ci suggerisce qualcosa di ulteriore perfino rispetto all’idea – tipica di questa peculiare fase del decadentismo e del dannunzianesimo-  della concezione della vita come opera d’arte. Certo è che se dovessimo immaginare i protagonisti dei romanzi considerati la “bibbia del decadentismo”, citati poco sopra, improvvisamente farsi esseri viventi non c’è dubbio che li vedremmo delineati con i tratti fisionomici con cui è descritto Martini, il che lascerebbe credere ad una vicinanza quanto meno esteriore se non d’intenti tra di loro, né d’altra parte risulta che l’artista abbia mai preso le distanze dal clima estetizzante del tempo, come pure altri fecero (“Ringrazio il buon Dio di avermi fatto Guido Gozzano,/ un po’ scimunito ma greggio; / potea farmi gabrieldannunziano,/  e sarebbe stato ben peggio”).

Ma si tratta certamente di un paradosso, crediamo, dal momento che la nostra stessa esperienza di vita – e del tempo- segna invece un percorso lineare che non si fissa “imperturbabilmente” a niente: si nasce, si vive e si muore e non si scampa da questo cerchio in perpetuo movimento. Per quell’epoca però questa non è che mera apparenza perchè la critica al positivismo sta contestando la concezione razionalista della scienza come fonte certa di conoscenze, e le prorompenti tesi nicciane, in particolare, tendono già ad esaltare la forza creativa della volontà individuale.

Né occorre scomodare in questa sede la teoria dell’intuizionismo elaborata da Henry Bergson che proprio nel 1896 con Materia e Memoria  iniziava a delineare il concetto di tempo interiore che è tipico della coscienza del singolo e in quanto tale sfugge all’idea del tempo inteso in senso cronologico e uguale per tutti. Si sa che Alberto Martini elaborò la sua produzione artistica sulla base di testi letterari, da Dante, a Pulci, da Shakespeare a Tassoni, da Poe a Baudelaire e a Mallarmé, ma non si dovrebbe trascurare a nostro parere come fonte non secondaria di ispirazione anche la congerie di riflessioni filosofiche seguite alla crisi del positivismo, dove emergono Nietzsche, Freud, il surrealismo e lo stesso Bergson. Il quale, detto per inciso, dal 1900 a 1921 insegnò al Collège de France dove le sue lezioni raccolsero grande successo.

E’ noto che Alberto Martini proprio in quel torno di tempo, precisamente nel 1904, si trovava forse non casualmente nella capitale transalpina -dove poi si sarebbe trasferito dal ’28 al ’36 “sconfortato dalle continue delusioni ricevute in Italia” ( Botta, p. 74)-  e comunque c’è da credere che possa aver quanto meno percepito quel vento di rinnovamento che soffiava ora dirompente; come pure non sarà un caso che l’anno successivo, dopo aver partecipato con successo ad una esposizione a Londra, iniziava a realizzare le tavole dedicate all’Amleto di Shakespeare e il ciclo di disegni a china ispirato ai Racconti dell’orrore di Edgard Alla Poe, dove appare straordinariamente evidente la sua capacità di interpretare

“la bizzarrissima miscela di orribile e grottesco che costituiscono la singolare malìa degli scritti del poeta di Baltimora”.

–come scrisse allora Vittorio Pica, il critico d’arte che, come tutti sottolineano, ne intuì, e ne esaltò, per primo il genio

Lo dimostrano alla perfezione le due immagini – tra le tante esposte in mostra- che pubblichiamo tratte da Hop Frog: da un lato “la terrificante scena dell’olocausto del re e dei suoi ministri che vediamo penzolare da una catena come un lampadario incandescente” Fig 12 Galleria Apolloni (Cardarelli, p. 32); dall’altro “i corpi ormai carbonizzati che penzolano dalle catene che li hanno intrappolati” Fig 13  Galleria Carlo Virgilio (Botta, p. 62).
Insomma una interpretazione affatto inquietante ancorché qualitativamente preziosa, frutto di un’arte che non parla a tutti e al primo sguardo, che abbisogna di un’educazione visiva particolarmente raffinata e di un attento studio anche del contesto storico culturale in cui viene realizzata.

fig 14 Amanti mascherati che si baciano (Il Poema delle Ombre, 1905 1910)

Lo dimostra anche il ciclo di ventinove fogli a china acquarellata che compongono il Poema delle Ombre, iniziato nel 1904 a ridosso della conclusione del ciclo dedicato alla Secchia Rapita e protrattosi fino al 1910, dove la protagonista è Venezia e dove le maschere misteriose richiamano “il notturno carnevale de Il barile di Amantillado, di Edgar Allan Poe, ma anche la notturna Venezia di Casanova e più tardi della marchesa Casati” (Cardarelli, p. 76) Fig 14

Lasciamo però ai lettori -che invitiamo caldamente a visitare le due notevoli e davvero sorprendenti esposizioni- la possibilità  di ripercorrere le esaltanti tappe della carriera e della esistenza di Alberto Martini –entrambe brillanti, almeno nei primi tre decenni del XX secolo, quando poi la sua ispirazione si ridimensionò- efficacemente ed esaurientemente tracciate dai cataloghi e dalle schede, dove sono ben delineate peraltro anche le figure di quanti ne parteciparono le vicende.

Da Vittorio Pica, la cui amicizia e malleveria fu per lui fondamentale come si è detto, a Margherita Sarfatti, e – oltre ai letterati dell’epoca – soprattutto alla “eccentrica e ricchissima Luisa Amman Casati Stampa di Soncino, detta la “divina Marchesa” spesso modella per Martini “celebre per i suoi travestimenti e per le

sontuose feste in maschera”. (Figg. 15 e 16)

Interessa, per tornare al tema che ci riguarda, sottolineare qui come il coacervo di esperienze e di riflessioni maturate in Italia e all’estero, ci porti a credere come nell’opera di Alberto Martini la condizione artistica si qualifichi in termini assolutamente qualitativi tali da proporsi oltre la acclarata virtuosistica capacità di usare la penna e l’inchiostro di china, traducendosi nella aspirazione ad un rinnovamento che anticipa in effetti molti dei movimenti che seguiranno, anche se è curioso constatare come nel lasso di tempo che copre i decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, quello appunto delle Avanguardie storiche, Martini, cioè colui che ne era stato in larga parte l’anticipatore, sia poi progressivamente finito ridimensionato, se non proprio dimenticato, nonostante fosse giudicato come il più geniale disegnatore del tempo, il più raffinato e sofisticato: “il nuovo Füssli” lo avrebbero salutato a Londra.

E non è da escludere un ulteriore elemento che possa in qualche misura aver contribuito alla sua formazione ed affermazione, che però avanziamo con la cautela del caso, dal momento che non ci pare sia stato rilevato da quanti – certamente più competenti di chi scrive- hanno fin qui analizzato l’opera di questo artista. Al quale probabilmente, a nostro parere, non dovette essere estranea la conoscenza nonché l’influenza  dell’arte di William Blake, vissuto un secolo prima (Londra, 1757 – 1827) ma capace di far convivere in una perfetta osmosi l’arte figurativa e l’arte poetica e soprattutto come lui visionario e anticonformista. Basti vedere i lavori che intraprese per l’illustrazione della Commedia di Dante arrivando a comporre 102 acquarelli (72 dall´Inferno, 20 dal Purgatorio, 10 dal Paradiso), prima che la morte ne impedisse il prosieguo: basterebbe metterne a confronto alcuni per stabilire un ulteriore motivo di collegamento tra lui e Martini.

The world of imagination is the world of eternity” è una delle citazioni più significative per il poeta-pittore londinese. Si tratta in effetti di una delle note che  egli stesso redasse per  il Catalogo di una mostra progettata nel 1809 e poi cancellata a commento del suo dipinto, poi perduto, Vision of the last Judgement  e che ci pare assai prossima alla descrizione di un artista come Martini “imperturbabilmente fissato alla sua eterna giovinezza”. Una giovinezza che inevitabilmente poi si trasmuta in un “don Giovanni appassito” come si raffigura nel 1940 nel dipinto Le Flambeau du Pantin, esemplificazione della “turpe vecchiaia di chi troppo ha amato se stesso in gioventù” (Apolloni, p. 7) fig 16

Alberto Martini, Le Flambeau du pantin, 1940, Olio su cartone, cm 50×70, firmato e datato sul retro ‘A. Martini’ (Galleria Apolloni)

Una conclusione che non ci deve sorprendere e che forse in una certa misura può fornire una qualche spiegazione alle cause che hanno portato al ridimensionamento di Alberto Martini in quanto artista; se è vero che l’opera d’arte per essere  interpretata ed apprezzata in modo adeguato deve situarsi  nel momento giusto, si può immaginare che quella sorta di ripiegamento interiore, o per meglio dire

“quella crisi spirituale che accompagnò l’ultima parte della vita di Martini … (quando) rivisita le sue diverse maniere, dal surrealismo, al simbolismo, rielaborando alcuni temi” (Cardarelli, p 68)

fosse troppo stridente rispetto ai tempi.

D’altra parte, Federico Zeri scriveva che “I capitoli della storiografia artistica sono pure ipotesi, semplici strumenti di lavoro, e non corrispondono alla realtà dei fatti pittorici, che non è mai schematica e univoca”

Non si può che concordare e quindi considerare aperta la strada per la rivalutazione della figura e dell’opera di Alberto Martini.

P d L Roma 23 maggio 2021