Il romanzo di una vita d’artista: Somerset Maugham indaga Gauguin

di Mario URSINO

Il Gauguin di W. Somerset Maugham fra letteratura e pittura

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Come sanno i lettori dello scrittore inglese William Somerset Maugham (1874-1965), il suo Gauguin si chiama Charles Strickland, protagonista del suo romanzo più noto, The Moon and the sixpence, edito per la prima volta a Londra nel 1919 (quasi cento anni fa) [fig. 1]. Una storia ancora oggi avvincente, diffusa in Italia nella famosa collana Medusa della Mondadori del 1946 [fig. 2] e in numerose successive edizioni. Lo scrittore narra la vita di un tranquillo signore britannico, sposato ad una brillante signora (Amy) che: “Aveva un appartamento a Westminster con panorama sulla cattedrale incompiuta…” e che amava ricevere nel suo salotto amici scrittori.

Maugham premette nei due capitoli iniziali della Luna e sei soldi che il suo non vuole essere un romanzo biografico sulla vita di Gauguin come pittore, ma “io mi propongo di trattare dell’opera di Charles Strickland  solamente per quanto essa abbia riferimento alla persona”. Ciò si deve dedurre dal fatto che Somerset Maugham aveva studiato medicina al St.Thomas’ Hospital di Londra, anche per sfuggire all’opprimente vita di provincia nel Kent, sotto la tutela di un suo zio vicario a Whistable. Ma egli, segretamente, voleva diventare scrittore. Le esperienze di medico presso l’ospedale St. Thomas lo misero a contatto con ogni sorta di persone: “Vedeva la sofferenza che corrode i valori umani…”. Empatia e psicologia hanno quindi dato vita a personaggi di tutte le classi sociali con le quali veniva in contatto. La vita di Gauguin gli apparve perciò quasi come un caso clinico di improvviso rovesciamento della personalità di un individuo, che egli esaspera nella raffigurazione del quieto Charles Strickland, il quale, all’improvviso, esplode in una cinica personalità, staccandosi brutalmente dall’agiata famiglia che lui stesso aveva creato. Effettivamente così fece Gauguin, ma con minore brutalità, quando si separò dalla sua famiglia. Molte sono quindi le analogie tra l’autentica vita di Gauguin e quella del protagonista immaginato da Maugham: entrambi erano stati bravi agenti di cambio, entrambi erano sposati ed avevano dei bei figli e vivevano agiati. Gauguin aveva sposato Mette-Sophie Gad (1850-1920), appartenente alla borghesia luterana di Copenhagen; in entrambi i personaggi, infatti, si fa strada, dapprima lentamente, un’incontenibile ambizione per la pittura, in Strickland, però, ciò avviene segretamente, mentre Paul Gauguin (1848-1903) all’inizio è come un pittore dilettante della domenica, considerato dalla famiglia come un comune hobby, che si trasforma in passione dopo l’incontro folgorante con Camille Pissarro (1830-1903) e gli impressionisti nel 1874, l’anno, come è noto, della loro prima mostra nello studio del famoso fotografo Nadar. Con costoro Gauguin inizierà a partecipare alle loro mostre a partire dalla quarta nel 1879; queste, dunque, le divergenze tra il personaggio reale e quello immaginario. Gauguin si stacca dalla famiglia che torna a Copenhagen, dopo che l’artista aveva perso il suo lavoro di agente di cambio, mentre Strickland sparisce all’improvviso e senza alcuna giustificazione, lasciando la moglie e i figli per sempre, per andare prima da Londra a Parigi e poi a Marsiglia, e infine, proprio come Gauguin, in Oceania.

Benché l’interesse di Maugham, come già detto, sia principalmente la “mostruosità” del rovesciamento della personalità del suo protagonista, nel romanzo si avverte anche la sua sensibilità per le arti figurative. Infatti lo scrittore inglese, divenuto ricco e famoso, metterà insieme una raffinata collezione d’arte che include appunto il singolare acquisto di un’opera di Gauguin (di cui parlerò più avanti) e opere di Matisse, di Picasso, di Renoir, Monet, Toulouse-Lautrec, Utrillo, Sisley e di molte altre, finite all’asta nel 1962, tre anni prima della sua scomparsa.

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Dunque, egli struttura il suo romanzo con l’espediente letterario dell’io narrante (lui stesso), retrocedendosi biograficamente agli anni dei suoi inizi letterari, quando ancora era uno sconosciuto scrittore, introdotto in società per il tramite dell’amicizia della garbatissima signora Amy Strickland, che lo accoglie come un abituale amico frequentatore del suo salotto, dove riuniva più anziani letterati, scrittori e artisti. Confidando nella sua giovane età e sensibilità, la moglie di Strickland, disperata, chiede il suo aiuto, mostrandogli la breve lettera d’addio del marito fuggito da Londra a Parigi: “Ho deciso di vivere lontano da voi, e parto per Parigi in mattinata … Non tornerò. La mia decisione è irrevocabile. Affettuosamente. Charles Strickland”.  E così sarà per tutta la storia. Viceversa per Gauguin, anche quando si allontana dalla moglie e dai figli, si reca poi a Copenhagen, dove per un certo tempo trova anche un lavoro, ma la Danimarca non fa per lui e inizia i suoi viaggi di andata e ritorno nei mari del Sud, affermando perentoriamente: “D’ora in avanti dipingerò tutti i giorni” (in Victor Segalen, Hommage à Gauguin, Paris, Georges Crès et Cie, 1918, trad. it. Omaggio a Gauguin, in Paul Gauguin. Scritti di un selvaggio, Milano, 1996, p.  12, fig. 3), nonostante le ristrettezze economiche e le malattie che lo condurranno fino alla morte. Scrive Segalen nel suo testo sopra citato: “Questa energia lo porta prima da Parigi in Bretagna, a Pont-Aven. Poi si ricorda di altre terre più lontane … terre tra i due tropici … E, arrivato al momento (ormai raggiunta la quarantina) [] solo allora si decide e parte per le Antille francesi, per la Martinica” (p. 13). Anche lo Strickland di Maugham è un quarantenne nella svolta epocale della sua esistenza. Nel romanzo il giovane scrittore (Maugham) viene pregato dalla signora Amy in lacrime, di andare a Parigi per cercare di convincere il marito a tornare indietro, lei lo perdonerebbe, perché immagina, con i suoi familiari, che l’uomo sia fuggito per una storia d’amore (poiché nulla sapeva della sua segreta passione per la pittura). Ma non era così. Delle donne non gliene importava punto. Solo la pittura. La discussione sul delicato incarico, Maugham lo descrive da par suo: i dialoghi dell’io narrante con la donna, e con i vari personaggi della sua famiglia, e di qualche amica pettegola, sono il punto di forza di questa storia, così come in tutti i racconti e i romanzi dello scrittore inglese, dai quali sono stati tratti anche alcuni importanti film [fig. 4]. Bisogna tener conto che quando Maugham scrive questo romanzo, grosso modo tra il 1916 e il 1919, anch’egli era un quarantenne, però già affermato, che aveva al suo attivo una decina di lavori teatrali e altrettanti romanzi. Ma, tornando alla storia di Strickland, egli accettò l’incarico della donna abbandonata, e va a Parigi alla ricerca del fuggitivo; e quando lo trova miseramente lacero e affamato, alloggiato in una locanda di infimo ordine, si trova ad affrontare un brutale colloquio con l’esule aspirante pittore, divenuto un inconoscibile e cinico personaggio, la cui unica ragione di vita era quella di dover dipingere. “Meritava che la trattaste così?”- gli chiede il giovane scrittore. “No”, risponde lui.

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“Avete qualcosa da rimproverarle?” – “Nulla” è la risposta. “Ma allora non è mostruoso abbandonarla in quel modo, dopo diciassette anni di vita coniugale, senza una colpa da addossarle? È mostruoso. Lo guardai sbalordito. Il suo cordiale assenso a tutto ciò che dicevo mi faceva mancare il terreno sotto i piedi”. A questo punto ci sovvengono anche le parole che Victor Segalen aveva già scritto nel 1904, quale prefazione a quel piccolo capolavoro di Gauguin, Noa Noa [fig. 5], pubblicato per la prima volta nel 1901, insieme al poeta Charles Maurice, su i due anni felicemente trascorsi a Tahiti, tra il 1891 e 1893; ha scritto Segalen:Gauguin fu un mostro: voglio dire che non lo si può far rientrare in nessuna delle categorie morali, intellettuali o sociali con le quali siamo soliti definire la maggior parte degli individui” (p. 7). Testo sicuramente noto a Maugham, quando stava elaborando La Luna e sei soldi. Però, nelle pagine introduttive del romanzo, che ho anche citato più sopra, Maugham tiene a sottolineare, a proposito della vita di Gauguin: “Il sorgere di questa fama è uno dei più romantici avvenimenti della storia dell’arte”. Quindi, se è vero che la spinta a scrivere tale romanzo sia stato l’interesse per un caso clinico di estraniamento della personalità umana, è altrettanto vero che lo scrittore inglese si intendeva anche di storia dell’arte: sono esemplari il suo saggio su El Greco e su Zurbaran, frutto di un suo prolungato soggiorno in Spagna, oltre ad aver costituito, come già detto, una raccolta d’arte di grande interesse, poi dispersa sul mercato dell’arte. In questo senso Maugham, sebbene parta, come abbiamo visto, da premesse interessate alla personalità sconcertante del suo personaggio, fa apparire sulla scena un’altra figura d’artista, ovvero un pittore olandese conosciuto a Roma, e rincontrato per caso a Parigi; costui conosceva bene Strickland e lo considerava un grandissimo pittore. L’olandese si chiama Dirk Stroeve, un tipo dall’aspetto un po’ comico e dipingeva in maniera corrente. “Era pittore – scrive drasticamente Maughamma pessimo”. Stroeve era però un uomo generoso e umanissimo, ma queste sue qualità furono anche causa della sua rovina. Egli volle assistere e curare personalmente Strickland, portandolo a casa sua (persino contro il volere di sua moglie), quando questi fu trovato malatissimo e senza assistenza nel suo lurido alloggio. E questa circostanza, Maugham la descrive come un vero e proprio colpo di teatro. Ripresosi per le cure ricevute, il cinico Strickland prima seduce la moglie dell’olandese, poi addirittura rimane a casa sua passivamente, poiché Stroeve si autoesclude volontariamente per non privare dall’agio la sua amatissima moglie Blanche, che altrimenti avrebbe seguito il pittore inglese nella sua squallida dimora. Ma la tragedia continua, e il brutale Strickland abbandona anche questa donna che, talmente presa da lui, si toglie la vita. E siamo solo a metà del romanzo.

Raccontata così sinteticamente la storia può sembrare banale, ma qui ci interessa l’aspetto sottostante della pittura che è latente in tutto il corso del racconto; e mi è parso particolarmente significativo uno dei momenti più drammatici della storia di Stroeve, quando egli torna in possesso della propria casa dopo la morte della moglie e trova il suo studio in ordine con i suoi quadri, ma ne vede uno molto più grande dei suoi, rivolto verso la parete; gira il dipinto e vede raffigurato uno splendido nudo, quello di sua moglie, ultima crudeltà dello Strickland. Fa per distruggerlo – racconta Stroeve al giovane Maugham – ma poi si ferma perché l’opera è un capolavoro. Sebbene la descrizione iconografica approssimativamente indichi un nudo disteso, penso che l’idea avuta da Maugham sia dovuta alla conoscenza del primo dipinto che dette a Gauguin una certa notorietà, e si tratta del Nudo di donna che cuce, 1880, Copenhagen, Ny Carlsberg, Gliptotek [fig. 6],

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lodato dal grande scrittore J.K. Huysmans (1848-1907) che scrisse: “Non esito ad affermare che tra i pittori contemporanei che hanno trattato il nudo, nessuno lo aveva fatto finora con una nota così violentemente reale …” (in L’Art moderne, 1880) e che fu esposto alla sesta mostra degli impressionisti nel 1881. Il dipinto, a mio avviso, doveva sicuramente essere noto a Maugham, se non altro per le autorevoli parole di Huysmans.

fig 7 Chardin LaCuisiniere
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Ma è possibile anche un riferimento letterario-iconografico, nella Donna che cuce di Gauguin e andrebbe ricercato nel passo della Luna e sei soldi, laddove il giovane Maugham, invitato a casa dell’amico Stroeve per essere presentato a sua moglie Blanche, così descrive la donna: “La moglie era seduta alla stufa col suo cucito …”. Stroeve rivolgendosi all’amico dice: “Ma non è straordinaria?… Guardala seduta là. Non è un bel quadro? Chardin, eh?”. Più avanti Maugham riflettendo sull’aspetto della donna: “Ma Stroeve non aveva avuto torto ad alludere a Chardin, ed ella infatti mi ricordava stranamente quella simpatica massaia in cuffia e grembiule che il grande pittore aveva immortalato” [fig. 7, ma confrontare anche Mette Gauguin che cuce di Gauguin, 1878, fig. 8].

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Somerset Maugham a Tahiti e la Eva di Gauguin

Nel capitolo iniziale della Luna e sei soldi, come detto più sopra, Maugham spiega le ragioni del suo interesse per la figura del protagonista Strickland, che immagina di aver conosciuto e frequentato a Parigi, fino a quando il personaggio si trasferisce a Marsiglia (anche qui troviamo un’analoga coincidenza con il vero e drammatico soggiorno di Gauguin nella stessa città). Ma lo scrittore, sempre con espediente letterario, dice che: “… ma credo che non avrei mai messo su carta i miei ricordi, se i casi della guerra non mi avessero portato a Tahiti, dove, come è noto, egli [Gauguin, n.d.a.] trascorse gli ultimi anni della sua vita, e dove incontrai gente che lo aveva frequentato con una certa familiarità”. Poi nel capitolo XLV del romanzo, Maugham ci avvince con la narrazione del suo soggiorno e degli incontri con soggetti che avevano conosciuto il Gauguin-Strickland, fino alla sua drammatica e sofferente scomparsa, anche questa volta la finzione è ancora pressoché coincidente con la realtà. E spiego perché.

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Quando Somerset Maugham decise di vendere la sua collezione nel 1962, volle lui stesso premettere al catalogo della vendita la storia dei suoi acquisti nell’interessante e godibile testo Purely for my pleasure, ignoto in Italia, poiché non è mai stato tradotto. Suscitato da questa curiosità, qualche anno fa riuscii a venire in possesso di una copia di codesto catalogo [fig. 9] che acquistai sul mercato librario londinese. Il libro riproduce ben 37 opere della sua collezione (che includeva autentici capolavori di Picasso, Matisse, Renoir, Monet, Pissaro, Sisley e altri pittori impressionisti e postimpressionisti) e affidai il testo alla cortesia della professoressa Paola Faini dell’Università Roma 3, che già in passato aveva tradotto altri libri dello scrittore inglese. Il testo in questione, però, è tuttora inedito in Italia per il disinteresse di note case editrici milanesi da me interpellate, che pure di Maugham hanno pubblicato e ripubblicano numerose sue opere. Ma tant’è. È questa dunque l’occasione per far conoscere al pubblico, per gentile concessione della studiosa Paola Faini, almeno il brano in cui Maugham racconta come realmente sia venuto in possesso di una singolare opera di Gauguin. Sembra una finzione letteraria, ma non lo è. Quindi lo pubblichiamo dalla traduzione dall’originale inglese più sopra citato:

Passò del tempo. – scrive Maugham  – Avevo a lungo accarezzato l’idea di scrivere un romanzo sulla vita di Paul

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Gauguin. Così andai a Tahiti, nella speranza di trovare qualcuno che lo aveva conosciuto, per ottenere qualche informazione utile. Scoprii subito che da qualche parte, nella foresta, c’era una capanna in cui Gauguin, malato, aveva passato del tempo, dipingendo durante la convalescenza. Presi a noleggio un’auto, e in compagnia di un conoscente viaggiammo finché l’autista scorse la capanna. Scesi dall’auto e la raggiunsi percorrendo uno stretto sentiero. Sui gradini una mezza dozzina di bambini stavano giocando. Si affacciò un uomo, probabilmente il padre, e quando gli dissi cosa volevo mi invitò a entrare. C’erano tre porte. La parte inferiore di ciascuna di esse era un pannello di legno, e la parte superiore era di vetri tenuti insieme da listelli di legno. L’uomo mi disse che Gauguin aveva dipinto tre immagini sui pannelli di vetro. I bambini avevano raschiato via i dipinti su due delle porte, e avevano appena cominciato a lavorare sulla terza immagine. Raffigurava  Eva, nuda, con in mano la mela (Tavola X) [fig. 10]. Chiesi all’uomo se era disposto a venderla. “Ma così dovrei comprare un’altra porta”, mi rispose. “Quanto costerebbe?” gli chiesi. “Duecento franchi,” fu la sua richiesta. Acconsentii e egli prese il denaro ben volentieri. Togliemmo i cardini alla porta e, aiutato dal mio compagno, la portai alla macchina e ripartimmo per Papeete. Quella sera un altro uomo venne da me, sostenendo che la porta per metà era sua. Mi chiese altri duecento franchi, e glieli detti volentieri. Feci segar via il pannello di legno dalla cornice della porta, e con ogni possibile cautela portai i vetri prima a New York e da lì in Francia. La pittura è lieve, poco più d’uno schizzo, ma incantevole. L’ho sistemata nel mio studio.

Lo scrittore inglese aveva la sua residenza a Cap Ferrat, Villa La Mauresque, acquistata nel 1927, dove

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amava ricevere amici, scrittori e personaggi illustri, come il Duca e la Duchessa di Windsor, Lord Beaverbrook (famoso editore e politico britannico), l’Aga Khan, T.S. Eliot, H.G. Wells, Rudyard Kiplng, Ian Fleming, Virginia Woolf, Winston Churchill, che, dopo le sue dimissioni nel 1955 da Primo Ministro, amava trascorrere lunghi periodi sulla Costa Azzurra [fig. 11].

Era il 1916, il tempo di questi ricordi, quando Maugham fece un viaggio nelle isole del Pacifico, per raccogliere, appunto, materiale per il suo romanzo The Moon and sixpence. Fu il primo dei suoi viaggi nelle colonie britanniche che proseguirono negli anni Venti e Trenta, quale testimone degli ultimi aspetti del colonialismo in India, in Cina, nel Sud-Est asiatico e nel Pacifico. E nel 1938, pubblicando la sua singolare autobiografia filosofica-letteraria, The Summing Up, Maugham ricorda ancora una volta di quando partì per i mari del sud: “Avevo sempre desiderato di andarci fin da quando, giovane, avevo letto The Ebb-Tide e Tbe Wrecker [di R. L. Stevenson, n.d.a.], e inoltre volevo trovare materiale per un romanzo, al quale pensavo da tempo, sulla vita di Paul Gauguin. Partii, cercando bellezza e avventura, lieto di frapporre un oceano tra me e i problemi che mi tormentavano. Trovai bellezza e avventura, ma scoprii anche qualcosa che non mi sarei mai aspettato: un nuovo me stesso. Da quando avevo lasciato l’ospedale St. Thomas, avevo vissuto con persone che davano valore alla cultura. Ero arrivato a pensare che nulla al mondo fosse più importante dell’arte. Cercavo un significato nell’universo, e l’unico che riuscivo a trovare era la bellezza che gli uomini di tanto in tanto creavano. Apparentemente la mia vita era varia ed eccitante; ma al di là delle apparenze era limitata. Ora entravo in un nuovo mondo, e tutto l’istinto del romanziere che era in me si espanse esilarato, per assorbire la novità. Non era solo la bellezza delle isole che mi aveva conquistato, Herman Melville e Pierre Loti mi avevano preparato a tutto questo, e pur essendo una bellezza diversa, non è maggiore di quella della Grecia o dell’Italia meridionale; e non era neppure la loro vita, sconnessa, soffusa d’avventura: quel che mi eccitava era incontrare, una dopo l’altra, persone per me nuove (in The Summing up, traduzione italiana di Paola Faini, La resa dei conti, Lucarini Editore, Roma 1988, p. 137).

Il pubblico vuol conoscere in un sol giorno, in un solo minuto, ciò che l’artista ha imparato in molti anni
(Paul Gaugin, 1892)

 

I rari dipinti su vetro e le Eve di Gauguin 

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Sono poche e poco note le vetrate dipinte di porte e finestre che Gauguin aveva decorate tra il 1893 e il 1896; quella trovata da Maugham nel 1916, come da descrizione del racconto più sopra riportato, è l’ultima superstite delle tre porte dipinte quando l’artista era ospite in casa di un indigeno durante un periodo delle sue frequenti malattie (cfr. n. 372 in Gauguin, L’opera completa, Milano 1972, p. 109). La vetrata rappresenta una Eva con in mano una mela in un paesaggio, 1896, olio su vetri suddivisi in sei riquadri, cm.100 x 75, firmata nel riquadro in basso a destra: P Go, che Maugham fece montare ad una finestra del suo studio nella villa La Mauresque a Cap Ferrat [fig. 12]. L’opera e altri dipinti della sua collezione furono messe all’asta di Sotheby a Londra, Bond Street nell’aprile del 1962, e fu aggiudicata per 13.000 sterline a J. P. Berman  (in seguito a Parigi al Jeu de Paume e, probabilmente

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oggi al Musée d’Orsay).  Il dipinto rappresenta, come è evidente, anche in altre opere di Gauguin una Eva primordiale in versione Maori (la mitica razza presente nelle isole polinesiane). La pittura su vetro, per Gauguin, non era meno importante tra le diverse tecniche da lui utilizzate (sculture e rilievi su legno primitiveggianti, lavori su creta e ceramiche arcaicizzanti), come si legge in una lettera al suo caro amico Daniel de Monfreid (1859-1929), pittore anche lui e devoto a Gauguin e suo primo biografo (si veda il suo omaggio pittorico all’amico, fig. 13); de Monfreid era pure la persona di fiducia che si occupava degli affari di Gauguin in Europa. Ecco cosa l’artista gli scrive a proposito della pittura su vetro: “La vetrata semplice che attira lo sguardo con le sue divisioni di colori e di forme è ancora quello che c’è di meglio. È, in un certo senso, della musica […]. Sia vetrate, sia arredamento, ceramica ecc … ecco in fondo le mie vere attitudini: molto più della pittura propriamente detta” (in, Lettere di Gauguin alla moglie e agli amici, Longanesi, Milano 1948, p. 205). È l’agosto del 1892 a Tahiti, quando egli manifesta questi pensieri: in realtà  egli dovrà ancora  dipingere molti capolavori, prima della sua fine.

E per tornare all’iconografia dell’Eva che coglie il frutto nella vetrata del Maugham, va detto che Gauguin aveva già dipinto una Eva esotica, 1890, Parigi, coll. priv. [fig. 14],

prima dell’incontro con le giovani tahitiane: essa era stata desunta da una riproduzione fotografica di un particolare di un rilievo del tempio giavanese di Barobudur (cfr. Gauguin, op. cit. 1972, n. 226, p. 99); la medesima posa la si trova nella più nota  Donna tahitiana in un paesaggio, 1892, che al centro in basso reca la scritta Te Nave Nave Fenua (Terra deliziosa), Kurashiki, Oara Art Museum [fig. 15]. E un’altra Eva è raffigurata nella vetrata Rupe Tahiti, 1893, anche questa, come in quella di Maugham, dipinta in sei scomparti ed è siglata nel pannello in basso a destra: “P Go”, oggi nel New Orleans Museum of Art [fig.16].

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Altre due note vetrate, Donna tahitiana in un paesaggio, e Nave Nave, entrambe del 1893, sono esposte e conservate a Parigi, Musée d’Orsay [figg. 17-18]; esse furono dipinte da Gauguin nel suo studio, preso in affitto per tre mesi, in rue Vercingétorix, n. 6, quando tornò a Parigi da Tahiti nel settembre del 1893. La medesima iconografia compare inoltre in una delle dieci xilografie per illustrare il suo testo Noa Noa: Nave Nave Fenua, 1893-1894, N.Y. MoMA  [fig. 19].

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Il soggetto dell’Eva tahitiana, a Gauguin dovette apparirgli all’improvviso durante una sua escursione per raggiungere la cima dell’isola tahitiana, la montagna sacra e temuta  dai nativi, detta l’Aorai; ecco come l’ha descritta nel suo Noa Noa: D’improvviso, a una svolta, scorsi, dritta contro la parete di una roccia che carezzava più che tenere con tutte e due le mani, una ragazza nuda: beveva alla sorgente che zampillava molto in alto tra le pietre. Quando ebbe finito di bere, prese dell’acqua tra le mani e se la lasciò scorrere tra i seni”.  Questa immagine edenica il pittore la trascrive nel dipinto Donna che beve a una fonte e Busto maschile (Hina Tefatou),1893, in basso a sinistra si legge: Gauguin 93; a destra si legge Hina Tefatou, che vuol dire: La Luna e la Terra [fig. 20], New York, MoMA. Due anni dopo, nel febbraio del 1895, in una lettera indirizzata da Parigi al famoso drammaturgo e scrittore svedese, August Strindberg (1849-1912), che scriverà in quell’anno la presentazione di una mostra di Gauguin all’Hotel Drouot, il pittore manifesta il suo pensiero sulla donna della Genesi:

Dinanzi all’Eva di mia scelta, che ho dipinto in forme e armonie di un altro mondo […] hanno forse evocato un passato doloroso. L’Eva civilizzata della vostra concezione vi rende, e ci rende, quasi tutti misogini; l’Eva antica che, nel mio studio, vi fa paura, potrebbe forse un giorno sorridervi meno amaramente […]. L’Eva che ho dipinto (lei sola), logicamente può restar nuda davanti ai nostri occhi. La vostra, in quello stato naturale, non saprebbe camminare senza impudicizia […]. Per farvi capire il mio pensiero bene, paragonerei non più quelle due donne direttamente, ma la lingua maori o turaniana che parla la mia Eva e la lingua che parla la vostra donna fra tutte, lingua a flessioni, lingua europea. Nelle lingue d’Oceania, di elementi essenziali, conservate nella loro durezza, isolate o saldate senza nessuna preoccupazione del levigato, tutto è nudo e primordiale” (in Lettere di Gauguin, op. cit. pp. 233-234)

Queste parole dell’artista riflettono la felicità trovata a Tahiti nei due anni trascorsi tra il 1891 e il 1893 in compagnia di una sua Eva reale, che gli ispirò forse i suoi quadri migliori, tanto che Edgard Degas presentò ben 44 dipinti, nell’autunno del 1893 alla famosa Galleria Durand-Ruel, acquistando per sé proprio La Donna che beve alla fonte, che rappresenta appunto questa Eva primordiale. E troviamo tra Scritti di un selvaggio, di Gauguin tra il 1896-1897, come descrive la donna polinesiana: “È astuta e saggia nella sua ingenuità l’Eva di Tahiti. Rimane per me un enigma ciò che nasconde il suo occhio infantile […] è l’Eva dopo il peccato, che ancora può camminare nuda senza vergogna, con tutta la sua fiera bellezza come il primo giorno” (ed. italiana, a cura di Maurizio Brusa, Tea, Milano 1996, p. 79).

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Gauguin, infatti, aveva trovato una giovanissima tredicenne maori, che lo incantò non solo per la sua primitiva bellezza, ma soprattutto per il racconto che ella gli fece della lunga e complicata Teogonia polinesiana, tutta intrisa di immanentismo naturalistico (cielo, acqua, sole, luna, luce, tenebre), narrata poi dal pittore con mirabile sintesi, non priva di sue interessanti notazioni antropologiche e filosofiche, nel citato libro, Noa Noa [anche sulla scorta degli studi di J.A. Moernhout (1796-1879), esploratore, etnologo e diplomatico nella Polinesia francese, autore del Voyage aux iles du Grand Océan, 1837].

La ragazza si chiamava Teura, con lei Gauguin si trasferisce da Papeete, la capitale di Tahiti, a Mataiea, a molti chilometri di distanza, per vivere pienamente nella natura, in una tipica capanna indigena [fig. 21]; così scrive della giovane compagna:

L’oro del viso di Teura inondava di gioia e di luce la nostra casa e il paesaggio intorno. Ed eravamo tutti e due così perfettamente semplici! Come era bello la mattina andare insieme a rinfrescarci al vicino ruscello: così dovevano essere il primo uomo e la prima donna nel paradiso terrestre. Paradiso tahitiano, “nave nave fenua”… E l’Eva di questo paradiso si abbandona sempre più docile, amante”.

Dopo circa due anni ritorna in Francia, prima a Marsiglia e poi a Parigi, per esporre alla sopra citata mostra da Durand-Ruel; farà un ultima visita alla moglie a Copenaghen.

Nel luglio del 1895, Gauguin si imbarca nuovamente per i mari del Sud, e giunge a Tahiti a settembre, ma non farà mai più ritorno in Francia: le sue condizioni di salute andranno sempre peggiorando. Ciononostante egli dipingerà altri numerosi capolavori, aventi per soggetto Eve e Veneri tahitiane: ad esempio, Donna tahitiana sdraiata, detta anche La donna dei manghi, 1896, San Pietroburgo, Ermitage; sul dipinto si legge in basso a destra: “Te Arii Vahine, (Regina di bellezza), P. Gauguin 1896” [fig. 22];

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la ragazza raffigurata è la sua ultima compagna, una quattordicenne di nome Vaeoho (o Pahura, secondo altra fonte, dalla quale ebbe anche una figlia, sopravvissuta solo un anno); Gauguin dipinge la giovane secondo una iconografia classica, desunta dalla storia dell’arte europea: in questo caso da una Venere del 1518 di Lucas Cranach. A proposito del dipinto, Donna tahitiana sdraiata, Gauguin scrive all’amico Daniel de Monfreid nell’aprile del 1896: “Ho appena dipinto una tela di 130 per un metro, che credo migliore ancora di tutto quanto ho fatto finora: una regina nuda, sdraiata su un tappeto verde […]. Credo di non aver mai fatto con i colori una cosa di tanto grave sonorità” (in Gauguin, 1972, op.cit., n. 364, pp. 108-109); ma va detto che l’opera rammenta anche la Maya desnuda, 1800c., di Goya, Madrid, Prado, l’Olimpia, 1863 di Manet, Parigi, Musèe d’Orsay, e le Veneri di Giorgione e di Tiziano. E ancora vanno ricordati  alcuni degli ultimi capolavori, raffiguranti  Eve o Veneri tahitiane che sono, quali esempi tra le più note, Seni con fiori rossi, 1899, New York, Metropolitan Museum [fig. 23]

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e Due donne tahitiane sedute, (… E l’oro dei loro corpi), 1901, in basso a destra si legge: “ Et l’or de leur corps/ P. Gauguin 1901”, Parigi, Louvre [fig. 24].

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La fine di Strickland-Gauguin 

Gli ultimi tre anni di vita di Gauguin, tra il 1901 e 1903, non furono edenici come quelli del precedente soggiorno (1891-1893) a Tahiti, e narrati in Noa Noa. L’artista era malatissimo, e con gravi problemi economici. Decide quindi di trasferirsi nel 1897 dalla tahitiana Panaauia ad Atuana, un villaggio della Dominica, Hiva Hova, nelle isole Marchesi, convinto che lì la vita costasse meno. Si costruisce una nuova

fig 25

casa-capanna, con l’aiuto degli indigeni, e la intitola. “Maison du Jouir” (si veda foto di una ricostruzione fedele, fig. 25). Qui vivrà sino alla dolorosa e drammatica morte, solo, ed assistito da un affezionatissimo indigeno di nome Tioka, secondo le testimonianze biografiche, riportate nel citato testo di V. Segalen, (cfr. Omaggio a Gauguin, op. cit. pp. 29-30).

Diversa, e più romantica, è la versione che ne dà Maugham nella La luna e sei soldi. Lo scrittore ci racconta di aver visto Strickland per l’ultima volta a Parigi, prima della sua partenza per Marsiglia, e poi per la Martinica. Dopo diversi anni, quando Strickland era già morto, Maugham va a Tahiti e riesce ad incontrare alcune persone che avevano conosciuto il pittore (esemplare la narrazione del capitano Nichols che aveva condiviso col pittore inglese la vita agra trascorsa a Marsiglia; e quella di un altro Capitain au long cours, René Brunot, che gli racconta  di quando era stato ospite di Strickland nella sua ultima dimora; e infine il vecchio medico francese, il dottor Coutras, che lavorava a Papeete, la capitale di Tahiti. Fu questi l’ultimo testimone della drammatica morte del pittore per lebbra, tra la disperazione di Ata, la giovane compagna indigena che gli aveva dato due figli. Ma le sofferenze, e l’indifferenza per il male irreversibile che lo aveva colpito, non gli impedì di dipingere fino alla fine, persino le pareti della sua capanna, come racconta, nel romanzo il dottor Coutras a Maugham: “Aveva accettato di morire, perché il suo compito era stato adempiuto. “Che soggetto era?” domandai. “Quasi non lo so. Era strano e fantastico. Una visione del principio del mondo, il giardino dell’Eden, con Adamo ed Eva [fig. 26]*… que sais-je … un inno alla bellezza delle forme umane, una lode alla natura, sublime, indifferente, bellissima e crudele […]. I colori erano i colori a me familiari, e tuttavia diversi, con un significato tutto loro. E quei nudi di uomini e donne. Erano sulla terra e tuttavia distaccati. Sembravano possedere qualcosa d’argilla, ond’erano stati creati, e insieme qualcosa di divino”. Fin qui la finzione letteraria, e la fine della storia di Strickland.

fig 26

Ma la morte di Gauguin fu ben più drammatica, sìa per gravissime malattie (si è detto lebbra, elefantiasi, sifilide), ma pure per una vicenda giudiziaria che lo aveva condannato ingiustamente, per una sua denuncia di corruzione di un gendarme francese che favoriva dei contrabbandieri. L’unico testimone della sua fine, non fu un medico, come nel romanzo, ma un missionario pastore protestante, Paul Vernier che era andato a trovarlo, dopo aver ricevuto un biglietto da Gauguin: “Caro Signor Vernier, non vorrei disturbarvi ma ho bisogno di voi, la vista non mi funziona più bene. Sono molto malato e non posso più camminare”.

Il missionario ricorda: “Andai da lui. Soffriva orribilmente, le gambe erano tutte arrossate e ricoperte di eczemi. Gli chiesi se potevo medicarlo; mi ringraziò molto gentilmente dicendomi che avrebbe fatto da solo … Si mise a chiacchierare, parlando della propria arte in modo mirabile” […].  L’8 maggio, di buon ora, mi fece chiamare sempre da Tioka. Lamentava dolori molto acuti per tutto il corpo. Mi chiese se era mattino o sera, giorno o notte […]. Mi parlò di Salambò [romanzo esotico di Flaubert, NdA]. Lo lasciai più calmo dopo questa conversazione. Più tardi alle undici  […] Paul Gauguin era morto Tioka se ne stava lì a gridare, e piangendo diceva:  “Ero venuto a vedere come stava … Lo chiamavo da fuori: Kokè ! Kokè! Non rispondeva … Sono entrato, Kokè non si muoveva più. Mata! Mata! Mata!”  E Tioka mordeva la pelle del cranio – mata –  per  richiamarlo in vita … Tentai la respirazione artificiale … Paul Gauguin  era morto, credo, per arresto cardiaco.

Fu allora che Tioka, guardando per l’ultima volta il suo amico Kokè, disse: “Adesso non ci sono più uomini” (in V. Segalen, op. cit. pp. 29-30).

* * *

Intervista a Paul Gauguin, di Eugène Tardieu, apparsa su L’Echo de Paris, 13 maggio 1895:

Perché siete andato a Tahiti?”

Ero rimasto affascinato tempo fa da questa terra vergine, dalla sua gente semplice e primitiva; ci sono andato e sto per tornarci. Bisogna cercare il nuovo risalendo alle origini, all’infanzia dell’umanità. La mia Eva è quasi un animale, per questo è pura anche se nuda. Tutte le Veneri esposte al Salon sono indecenti, odiosamente sconce …”

“Gauguin tacque di colpo, lo sguardo rivolto a una tela appesa al muro con alcune donne di Tahiti nella foresta vergine”

Prima di partire”, rispose dopo qualche secondo, “farò pubblicare, con l’aiuto del mio amico Charles Morice, un libro dove racconto la mia vita a Tahiti e le mie opinioni artistiche. Morice commenta in versi l’opera che ho ricavato da quell’esperienza. La sua lettura vi spiegherà come e perché sono voluto partire.

“Il titolo di questo libro”?

Noa – Noa,  che significa nella lingua di Tahiti: fragrante; sarà il profumo di Tahiti

Mario URSINO   Roma 1° dicembre 2018

Nota

*Il dipinto Adamo ed Eva, 1902, olio su fustagno, cm.59×38, firmato e datato: “Paul Gauguin, 1902”, Copenaghen, Collezione Ordrupgaard, è attualmente esposto nella mostra Gauguin e gli Impressionisti a Padova, Palazzo Zabarella, 29 settembre 2018-27 gennaio 2019. Sulla interpretazione e la bibliografia dell’opera, si veda la scheda  n. 57 di Anne-Birgitte Fonsmark, pp. 208 e 211.
I brani citati de La Luna e sei soldi di William Somerset Maugham, traduzione dall’inglese di Giorgio Monicelli, sono tratti dall’Edizione Mondadori, “I Libri del Pavone”, Milano 1956.
I brani citati da Noa Noa di Paul Gauguin con introduzione di Victor Segalen, tradotti dal francese da Maria Cristina Marinelli, sono tratti da Passigli Editori, Bagni di Ripoli,  (Firenze) 2000.
Le foto che corredano il testo figurano tra quelle disponibili in rete.