Il Palazzo della Montecatini e l’Architettura di Gio’ Ponti “… una lezione di coraggiosa indipendenza espressiva”

di Francesco MONTUORI

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  1. Martini & Montuori

 EREDITA’  DEL  MODERNO

 Giò Ponti, il Palazzo della Montecatini

Prima  Parte

Gio’ Ponti

Un generico spirito classico aleggiava e dominava a Milano sulle tradizionali arti decorative, come bene fu evidenziato dalla Biennale di Monza del 1927; attorno a questa idea del classicismo ruotavano prevalentemente artisti e architetti milanesi: Giovanni Muzio, certamente la personalità più autorevole, Giuseppe De Finetti, Carlo Carrà, Emilio Lancia e Giovanni Ponti, che tutti chiameranno Giò. Per gli architetti neoclassici milanesi lo spirito classico rappresentava una ricerca architettonica ed urbana che non si esauriva nella critica alla moda e al gusto del moderno ma che aveva le sue radici nella tradizione e nello stile  del costruire le case del contesto milanese.

Nel Manifesto degli artisti e degli architetti del Novecento, pubblicato su “L’Ambrosiano” del 26 luglio 1934, veniva sottolineato come il concetto di classico nelle arti rappresentasse il fondamento di una comune unità di intenti necessaria alla creazione dello “stile di un’epoca nuova” che si veniva affermando.

L’iniziale sodalizio con gli amici neoclassici lascia trasparire in Ponti quella naturale concordanza di intenti che caratterizzò il gruppo dei giovani architetti milanesi e che Giovanni Muzio, leader dei novecentisti, saluterà come la nuova “avanguardia della tradizione”. Gli esempi più importanti ed originali del passato

“apparvero con sicurezza quelli di derivazione classica, e, particolarmente a Milano, quelli di primo Ottocento …. Ciò avvenne per la profonda convinzione che gli elementi universali e necessari dell’architettura dei periodi classici sono sempre attuali e la riprova sta nella loro continua sopravvivenza in espressioni stilistiche volta a volta diverse, da Roma in poi”.

Ma già allora il pensiero e l’operare di Giò Ponti contribuirono a creare un’accorta e avveduta equidistanza fra la tradizione classica nelle arti da un lato e un moderno razionalismo dall’altro, razionalismo che gli apparve tuttavia piuttosto una regola funzionale avara di immagini e fantasia.

Paolo Portoghesi sintetizzerà che Giò Ponti fu sia tradizionalista che razionalista e in questo profondamente italiano; in effetti Ponti non amava né gli schieramenti né il pensiero teorico; era fiducioso nella sua esperienza ed aveva un intuito formidabile nel capire cosa la pubblica opinione desiderava; perseguiva un’architettura non per soli architetti, ma un’architettura capace di parlare a tutti ed in particolare alla  borghesia illuminata milanese che rappresenterà stabilmente il suo retroterra professionale.

La casa all’italiana

Centrale fin dagli esordi sarà per Giò Ponti il tema della casa cui dedicherà gran parte della sua lunga ed esuberante carriera di architetto. Non a caso fonderà e dirigerà una rivista di architettura che chiamerà “Domus”. Non a caso, intitolando nel 1933 una sua prima pubblicazione per le edizioni Domus, “La casa all’italiana”, Ponti descrive una filosofia dell’abitazione che rappresenta allo stesso tempo una sintesi dei suoi interessi maturati nel campo delle arti decorative e un’anticipazione della prime esperienze nel campo dell’abitazione:

“La casa all’italiana non è un rifugio, imbottito e guarnito, degli abitatori contro le durezze del clima … la casa all’italiana è come il luogo scelto da noi per godere in vita nostra, con lieta possessione, le bellezze che le nostre terre e i nostri cieli ci regalano in lunghe stagioni …. da noi l’architettura di fuori penetra nell’interno e non tralascia di usare né la pietra né gli intonaci né l’affresco. Essa ordina in spaziose misure gli ambienti della nostra vita … Il suo disegno non discende dalle sole esigenze materiali del vivere, essa non è soltanto “une machine a habiter”. La casa all’italiana offre al nostro spirito di ricrearsi in riposanti visioni di pace, nel che consiste, nel pieno senso della bella parola italiana, il conforto.”

La casa all’italiana dovrà avere una personalità adeguata alla civiltà di chi l’abiterà; in essa dovranno concorrere, non solo gli arredi ma anche opere ed oggetti d’arte che conferiranno a questa civiltà dell’abitare la più alta rilevanza.

La casa in via Randaccio, la casa Laporte in via Brin

Nel 1925 insieme ad Emilio Lancia, Giò Ponti progetta e costruisce in via Randaccio la sua prima casa di abitazione, per sé e la sua famiglia (fig.1).

Fig.1 Casa in via Randaccio, Milano, in Giò Ponti, “Venti Cristalli di architettura” di G. Arditi e C. Serratto

E’ un edificio a tre piani libero su tutti i lati. Presenta una facciata leggermente concava decorata con timpani ed obelischi, mentre i prospetti laterali sono più semplici. Sono qui evidenti i riflessi di quel dibattito fra classicità e novecento, che teneva ancora a distanza le innovazioni del movimento moderno come emergevano nella vicina Germania dove, già nel 1925, Gropius aveva inaugurato il Bauhaus di Dessau nell’edificio da lui progettato.

Ponti persegue una metodologia che caratterizzerà tutta la sua vita professionale; nella sua prima casa nulla è lasciato al caso, tutto è studiato nel dettaglio: la scala interna, le cui proporzioni sono accentuate rispetto al modesto villino, viene concepita perché “la si guardi anche dal sotto in su”; sperimenta per la prima volta il tema delle porte scorrevoli, che sarà una delle costanti degli interni delle sue numerose abitazioni; disegnerà le sue prime sedie, poltrone, tavoli. Nella casa di via Randaccio il linguaggio novecentesco assume non a caso un tono di ironica leggerezza, tratto costante nell’attività di Ponti; è’ un’adesione provvisoria, non un matrimonio definitivo.

La ricerca di Giò Ponti si incentra sui temi dell’abitare, del progettare, del costruire; ma non privilegia alcuno stile: può adottare con disinvoltura il neoclassico, il razionalismo, il moderno. Lo testimonia la Casa Laporte del 1936, una piccola villa in via Brin dove il razionalismo di Ponti, contrariamente alla casa di via Randaccio, si esprime liberamente nell’essenza chiusa e composita del fronte su strada, risolto da aperture a geometrie variabili, brevi pensiline aggettanti ed una terrazza ritagliata nel piano della facciata priva del consueto cornicione (fig.2).

Fig.2 Casa Laporte in via Brin, Milano in Giò Ponti, “Venti cristalli di architettura” di G Arditi e C. Serratto

Ma non è un’adesione al movimento razionalista; il suo interesse per la casa è altrove e approfondisce la sua capacità di creare regole per un vivere gioioso, senza perdere di vista le reali esigenze dell’abitare. I suoi interessi non sono stilistici:

“l’architettura della casa non è un problema d’arte soltanto, è un problema di civiltà, una meravigliosa ventura, concessa da Dio agli architetti per costruire la casa, tempio della famiglia.”

Svolgerà inizialmente la sua opera in particolare nel campo dell’arredamento della casa il che offre l’occasione a Bruno Zevi, nella sua Storia dell’architettura moderna, di ironizzare sul suo “lezioso indirizzo neodecorativo nell’ambito di una cultura salottiera e decadente”.

Palazzo  Marmont in piazza Novelli

Fig.3 Palazzo Mormont, piazza Novelli, Milano in Giò Ponti, “Venti cristalli di architettura” di G. Arditi e C.Serratto

Punto di incontro fra novecento e moderno, pubblicata su “Domus” nell’ottobre del 1935 con il semplice titolo: Una casa, il palazzo condominiale Marmont inaugurò una stagione di più incisivo approccio architettonico nel campo tipologico dell’abitazione milanese (fig.3).

Nella presentazione sulla rivista Domus Giò Ponti  riafferma “alcuni concetti fuori dai quali non vedo possibile un veramente sano progresso edilizio: l’orientazione deve essere impeccabile, l’insolazione di ogni locale assicurata, i sotterranei debbono essere trasformati in ambienti decenti, ogni abitazione, anche minima, deve avere una perfetta separazione in tre quartieri, per la vita diurna, per il riposo la notte, per i servizi; ogni abitazione deve avere al minimo un balcone capace e ben orientato”. Tutte conquiste che negli anni trenta non erano scontate, in una casa borghese di medie dimensioni.

L’uso del colore, dalla zoccolatura lapidea alla tinteggiatura in rosso dei fronti, serve a distinguere le diverse facciate nella loro autonoma identità.

Fig.4 Palazzo Marmont, dettaglio della facciata

Nella casa Marmont Ponti anticiperà un’intuizione figurativa che consoliderà negli anni della maturità: “oggi il muro non è più un vero muro, un solido, un pieno: è una superficie, un rivestimento sopra uno scheletro di cemento armato o di ferro; nel Palazzo Marmont ne trae alcuni suggerimenti formali, già adottati nella casa di via Brin: sperimenta facciate disegnate come piani liberi fra loro sovrapposti, secondo la lezione delle avanguardie della pittura astratta della metà del secolo (fig.4). Molti anni dopo applicherà radicalmente questo criterio nella casa Planchart, costruita a Caracas in Venezuela del 1953.

 Il Palazzo della Montecatini

Il nuovo Palazzo Montecatini, costruito in poco meno di due anni tra il 1936 e il 1938, rappresentò per Ponti una vera sfida progettuale. Ne curò tutti gli aspetti: l’architettura, le strutture, gli impianti, il disegno degli arredi. Scelse una pianta ad H composta da tre corpi di fabbrica di cui due laterali ed uno centrale di collegamento, decisamente più alto, arretrato e leggermente convesso per dare spazio al parcheggio delle auto dei dipendenti (fig.5).

Fig.5 Palazzo della Montecatini, disegno Giò Ponti Casabella n. 138,139,140 del 1939

Ponti si allontanò decisamente dalle consuete soluzioni del palazzo a volume compatto. La forma ad H della planimetria generale gli permise di abolire finalmente il cortile quadrato che, dal Rinascimento, sempre aveva caratterizzato il palazzo italiano (fig.6).

Fig.6 Palazzo della Montecatini, torre centrale, ingressi Casabella n. 138,139,140 del 1939

Ebbe il coraggio di affiancare al vecchio palazzo della Montecatini preesistente, un nuovo edificio dalle facciate prive di rilievi, perfettamente levigate, scandite da finestre modulate ritmate in orizzontale (fig.7). Impenetrabili pareti senza spessore e senza peso sanciscono un distacco totale e significativo dai modi della facciata del vecchio palazzo della Montecatini (fig.8).

Fig.8 Palazzo della Montecatini, fronte laterale
Casabella n. 138,139,140 del 1939
Fig.7 Palazzo della Montecatini, fronte laterale Casabella n. 138,139,140 del 1939

Come nella ricerca metodologia adottata per la Casa all’Italiana, Ponti indagò preliminarmente sull’elemento caratteristico modulare, misura in senso spirituale e in senso materiale del grande edificio: lo spazio per il lavoro dell’uomo, su cui costruisce il ritmo delle finestrature degli ambienti che dovevano ospitare le forme del lavoro coordinato, organizzato e collettivo delle duemila persone impiegate nel grande palazzo.

Il trattamento delle superfici esterne è una precisa dichiarazione di sincerità espressiva dei materiali come richiedeva l’estetica razionalista. Per la prima volta in assoluto Ponti utilizzerà l’alluminio per gli infissi delle finestre, le coperture del tetto, le cabine degli ascensori; scelse per il rivestimento esterno il marmo cipollino con taglio “controverso” (fig.9) ottenendo un risultato cromatico di grande effetto;

Fig. 9 Palazzo della Montecatini, torre centrale, ingressi www.ad-italia.it
Fig.10 Palazzo della Montecatini, fronte laterale
Casabella n. 138,139,140 del 1939

combina il grigio argento dell’alluminio al verde cangiante del rivestimento marmoreo: marmi e metalli, lavorati sul filo di un’assoluta complanarità, definiscono il valore astratto di questo monumento della moderna società del lavoro (fig.10).

La storia dell’architettura moderna, scriverà Pagano su Casabella deve essere riconoscente in modo particolare agli industriali. Il nuovo palazzo della Montecatini può essere considerato difatti, “un’opera di alta classe, dove le intensioni architettoniche contemporanee han cercato di trovare una degna espressione. Il paradosso consistette che a realizzare quest’opera di alta architettura industriale fu chiamato un architetto novecentista che ancora coltivava, negli anni ’30, una cultura della continuità con la tradizione dei palazzi milanesi. Ma sorprendentemente, concluderà Pagano, l’architettura della Montecatini:

“rappresenta una lezione di coraggiosa indipendenza espressiva fornitaci non solo dagli architetti ma anche dagli amministratori della Montecatini che hanno avuto il coraggio di affiancare alla superata estetica del vecchio palazzetto un nuovo edificio tutto liscio, pulito, lucentissimo, quasi trasparente” (fig.11).
Fig. 11 Palazzo della Montecatini, fronte laterale Casabella n.138,139,140 del 1939

Novecentista o razionalista? Giò Ponti non si identificherà mai con una tendenza. La sua forte personalità gli permise, grazie alla direzione di Domus, di dare spazio e visibilità sia agli architetti tradizionalisti che ai razionalisti. Ponti ebbe una visione aperta e una ricchezza culturale che gli permise di oscillare liberamente fra neoclassicismo e razionalismo e di assumere la tecnica come l’orizzonte operativo, il modo, lo stile, entro cui l’artista si dispone a sperimentare in piena libertà.

Nel Palazzo della Montecatini Ponti diede spazio ad una ricerca con una meticolosa predisposizione progettistica di alto valore tecnologico ma non si fece condizionare da presupposti funzionali. Con la sua aggiornatissima architettura diede una lezione di coraggiosa indipendenza (fig.12).

Fig. 12 Palazzo della Montecatini, vista su largo Donegani, Artribune.com

Non progettò “la bellezza” ma si dedicò invece all’opera con spirito tecnico e la particolare felicità di temperamento che lo contraddistingueva: la bellezza in arte non è cosa che si possa predisporre e preannunciare.

 Francesco MONTUORI   Roma  14 febbraio 2021