Il Gruppo romano del Grau e l’esperienza alla I^ Biennale di Archittetura (1980); il lungo tortuoso cammino dentro il ‘postmoderno’ fra ideologia e prassi.

di Massimo MARTINI

DENTRO LA STRADA NOVISSIMA

Un approfondimento sulla mostra del 1980 che ha dato il via alla discussione internazionale sul postmoderno

UN’IPOTESI DI STUDIO

Quando, nel 1980, si apre alla Biennale di Venezia la I° Biennale di Architettura, The Presence of the Past, io sono fra gli espositori come facente parte del gruppo Grau di Roma. Una delle facciate della Via Novissima, quella dedicata a un colombario romano (con vasi-sculture di Enzo Rosato), ci rappresenta. E ci rappresenta bene, in modo pertinente al tema: che è l’apertura a un diverso possibile significato dei segni (ormai tutti nella disponibilità di tutti), piuttosto che il portfolio di stilemi personali, nella gara a chi sia il più bravo. Il segnale inequivoco (come l’ombra frantumata della nicchia sul vaso-urna) di un’alterità che accompagna il gruppo, scomodi ma appartati, strani.

Dentro la Via Novissima, Biennale di Venezia, 1980. Enzo Rosato sistema uno dei suoi vasi-urna, sulla facciata del Grau in costruzione.
Foto di Patrizia Nicolosi

Arriva il 1980 e sono più di quindici anni che lo studio Grau lavora su segni e logiche in grado di riaprire la modernità ai linguaggi degli edifici in pietra e in muratura, siano essi quasi ruderi del tutto privi di orpelli, oppure modelli astratti completi del supremo, altissimo Ordine. Ricerca sostenuta da massicce dosi di geometrie derivate dal dilatarsi di poligoni regolari dentro centralità molto esibite, prima statiche e implose poi per fortuna in movimento dentro più luminose centralità laterali. Ricerca sostenuta anche da proclami teorici nella dimensione di un marxismo liberatorio, lontano dal socialismo reale, forse con il senno di poi molto vicino ad un individualismo romantico alla Thoreau. Ma il frutto proibito (grazie al proibizionismo imposto da un moderno eroico e puro) rimane pur sempre la Storia! Mentre l’organismo reale, quello di tutti i giorni, non se ne cura, continuando a crescere con sistemi intelaiati in cemento armato, tamponature leggere con foratini in foglio e a cassa vuota, una bagarre di fili, tubi e rivestimenti. Per dire di una casistica infinita e perciò fragile, quella che sta per accogliere la dimensione concettuale del postmoderno.

Con la curiosità degli artisti che scivola incerta sulle lastre ghiacciate dei dogmi e gli artisti stessi costretti a far uso d’artifici per potersi sostenere reciprocamente. Nel nostro caso tutti stretti attorno a un fare monolitico di gruppo, bene accetto in giro perché del tutto sessantottino. Il grido siamo marxisti e formalisti che si spegne nell’asfissia critica dell’ opera chiusa. Il fare dirompente dentro un asettico hortus conclusus, là dove le voci dei singoli dicono la loro, per poi tacere nel credo comune serale. A nascondere, coscienti o meno, quel che realmente siamo: acerrimi e chiusi individualisti, poco disposti a scendere in campo se non di tanto in tanto. Snob nell’evitare il dibattito come mestiere. (Quanta merce avariata da chi, e sono francamente troppi, inizia il discorso come autore, lo prosegue come critico e lo conclude con l’autorità esibita del prof come a dirti: vedi tutto torna…). Comunque alla favola di un Grau tetragono sembrano credere tutti. Anche noi. L’ambiguità è servita. Sono pronti i castelli di carte e un qualche destino deve pur palesarsi.

Quando il destino si palesa chiaro e netto, mi si perdoni la brevità delle argomentazioni, lo fa con una notizia buona, una cattiva e una così e così.. La notizia buona è che un Nuovo (ora permissivo) prevede la facoltà di assumere maschere figurative, indossabili sopra un qualsivoglia assieme strutturale, senza divieti di stile, né di omogeneità fra i segni. Questa soglia del pensiero lascia coscientemente irrisolti, perché irrisolvibili, tutti i legami modernisti, sia quelli centrati sulla sincerità della struttura portante, sia quelli riguardanti la congruità dei modelli funzionali. In compenso apre correttamente le porte alla storia di tutti, ora distesa su grandi tavoli orizzontali piuttosto che lungo impervie scaffalature verticali. (E mi viene in mente la teoria dell’antecedente logico così ben disegnata dal Grau …). In un vento di speranza per cui, ampliando il senso delle cose, l’ambiguità dell’irrisolto può venire positivamente esibita. Dentro un nuovo ordine formale che elabora, nella coscienza dei propri errori, gli stilemi di una più adeguata modernità. In un percorso di liberatoria autoanalisi.

La notizia non buona è che, dopo un poco di tempo ma neanche tanto, l’adozione di geometrie derivate dai poligoni regolari, nel fascino di centralità mai prima frequentate, si mostra come una scelta angusta, autoreferenziale. Il poligono regolare, così evidente e chiaro, si rivela essere un boa constrictor, nelle cui spire si infrange la spinta a espandersi di un’idea. Soprattutto se impegnata a tenere assieme ordini complessi dentro immagini molto idealizzate. Lungo praterie progettuali troppo estese, logoranti, già segnate dall’International Style (il convitato di pietra, per altro). Tanto la maschera è sfuggente, difficile da mettere a fuoco, ricca di promesse, sovraccarica di dubbi, tanto gli assetti univoci e centrali appaiono (falsamente) tranquilli e rassicuranti. Facili insomma nella vulgata dell’architetto frettoloso. Passa nei fatti un postmoderno di facciata, pure statue di cera nel fascino dell’irrisolto delle città. E molti si svegliano nauseati. E alcuni si negano anche, come postmoderni. La teoria del modulo plastico, vedi ancora un Grau multiforme, non riesce purtroppo a decollare.

La notizia così e così è che, contrariamente alle aspettative, si apre un periodo di falsa stabilità. La realtà, terremotata dal tardo capitalismo, poi strappata dalla globalizzazione, appare troppo straziata per consentire un qualsiasi approccio realista ad essa. Seppur con mezzi diversi dalle avanguardie storiche, la ricerca sembra nei fatti proseguire dentro una stagione di pura sperimentazione. L’autorità tout court connessa alla citazione storica si rivela potente ma fragile, quasi un lusso fuori luogo. Il proibizionismo del moderno tutt’altro che cancellato. La maschera come epifania di liberi strati, bellamente bypassata nel trionfo inaspettato dell’ante operam: feticcio da adorare, misura del peccato, anteprima del nulla, certificatore di numeri e date piuttosto che di valori. I segni degli stili antichi, appena ereditati, messi di nuovo in bella fila dentro una sempre verde manualistica. Con buona pace dell’architettura come strato, vagheggiata da un Grau pasoliniano e vagabondo.

Lungo la Via Novissima il Grau subisce una violenta normalizzazione, sia per il suo essere percepito come prigioniero della centralità (quindi dentro il lato oscuro del postmoderno), sia per la troppa varietà delle poetiche espresse (poco riconducibili alle sintetiche parole d’ordine necessarie all’occasione). L’ambiguità prima esibita come di chi si nasconde volutamente dietro una sigla (mai per altro registrata da nessun notaio), ora trasmuta in un’alterità diversamente ambigua (frutto di un disordine di gruppo divenuto reale). Con il fastidio di veder datati, da chiunque e a qualsiasi titolo, nell’ante o nel post Biennale, scritti, disegni, progetti e quant’altro, in un destino fatto solo di buoni qualità da esibire come testimonianza di esistenza in vita. Nella mia opinione, ovvio. Che l’ambiguità mi piace mutante, come si addice alla fase calante della vita, dentro una civiltà gloriosa che sta anch’essa passando la mano. E così, strano destino per dei borderline, una mostra sul Grau, tutto e intero, dall’inizio a oggi, solo nell’opera fotografica di Patrizia Nicolosi potrebbe trovare un senso e una ragion d’essere. Oltre al fatto che lei c’era, ovvio. Vivi sì, ma nello scatto d’autore. Architetture di grigi raffinati. Eterne promesse da mantenere.

E io, come me la cavo? Bene. Vado in cerca di guai e li trovo. Per altro niente di eroico. Solo qualche geometra che ti ruba il timbro per firmare una sua direzione lavori. Oppure il politico locale che ti chiede (chiede?) di firmare un progetto non tuo. Insomma, normale amministrazione. Come tutti. Produco finti disegni dentro un lungo dopo-sisma. Vado in cantiere nella speranza di essere costretto a fare il progetto cambiando idea (e segni). Trasformo effimeri allestimenti di mostre in effimere installazioni d’arte. Chiamo ready made un grande progetto di conservazione nel rifiuto di santificare materie troppo incandescenti. Il reale irraggiungibile. Il progetto un non senso. Mi convinco che i segni di uno stile, l’uno per l’altro, vivacchiano annoiati sulle facciate nel rovello di non significare, spenti. Ogni oggetto è opaco. Comunque desideroso di essere riscritto. Da chi lo voglia nel suo istinto progettuale, ovvio. L’Architettura (stremata) del tutto assimilabile a un’Installazione (effimera). Dentro un personale, ambizioso giudizio quando mi dico: l’International Style altro non è altro che un Manierismo del Moderno, un meraviglioso manierismo! Che non mi impedisce di sentirmi pienamente postmoderno! Anzi, a sua volta mi tenta. Nell’ambiguo dilemma: questo segno è manierista, postmoderno o tutti e due all’occasione?

Grazie per la cortese attenzione e un grazie a Paolo Portoghesi.

Massimo MARTINI    Roma 1 dicembre 2018