Il Direttore Andrea Viliani sulle tendenze dell’arte contemporanea. Dalla Biennale di Venezia alla politica culturale al Madre.

P d L

Andrea Viliani (Casale Monferrato, 1974) dirige dal 2013 la Fondazione Donnaregina che sovrintende il Madre (Museo d’Arte contemporanea Donnaregina) di Napoli; ha alle spalle una carriera di curatore e direttore di istituzioni museali d’arte contemporanea di primo piano, maturata al Rivoli Museo di Torino, al Mambo di Bologna, alla Fondazione Galleria Civica-Centro di ricerca sulla contemporaneità a Trento; ha curato e prodotto esposizioni ed eventi di numerosi tra i maggiori artisti di oggi, italiani e stranieri, collaborando con le più prestigiose gallerie d’arte internazionali; numerose le sue pubblicazioni di carattere scientifico; nel 2017 è stato riconosciuto dal Giornale dell’Arte  come miglior Direttore di Museo d’Italia. Lo abbiamo intervistato nel suo ufficio in una pausa di lavoro al museo, cui dedica la massima parte della sua giornata.

Comincerei questa nostra conversazione con una domanda sulla Biennale di Venezia che il prossimo mese chiude i battenti, il cui titolo è apparso come un auspicio a vivere “tempi interessanti”; ed allora ti chiedo: sono interessanti i tempi che stiamo vivendo ? Ma, soprattutto, l’arte può rappresentare questi tempi e come riuscirebbe a farlo?

R: L’arte in realtà rappresenta sempre il proprio tempo, se poi questi che viviamo siano tempi interessanti non saprei dirlo, ma nell’ambito della Biennale a cura di Ralph Rugoff alcuni aspetti della contraddittorietà produttiva, delle preoccupazioni  ma anche delle visioni della nostra contemporaneità, mi sembra che siano magistralmente rappresentati; a mio avviso è stato opportuno non impostare la Biennale nel segno della coerenza bensì nel segno dell’accoglienza verso tutte le potenzialità di un’epoca, che certamente non si presenta armonica e coerente, ma scissa, divisa, affaticata. Viviamo del resto in un periodo complesso, dove lo sviluppo continuo di una società sempre più globalizzata e digitalizzata inevitabilmente porta a dislivelli sociali e rischia di far sembrare ininfluenti aspetti che invece sono determinanti, come ecologia, formazione democratica, accesso alle risorse (a partire da quelle delle conoscenza). Aspetti che qualcuno apposta addita invece come una sorta di scomodo rallentamento per questi processi di sviluppo in atto. Oggi le grandi mostre periodiche svolgono una funzione non solo di aggiornamento culturale, metodologico e disciplinare, ma sono una specie di “stati generali” delle molteplici sfaccettature di una realtà sempre più complessa. Va del resto ricordato che la Biennale stessa ha un dna contraddittorio, oggi non solo superato ma direi amplificato dal dominio delle logiche finanziarie e dei nazionalismi populisti sorti sui miraggi della globalizzazione, La Biennale si basa su due modelli, uno è quello della Fiera d’arte (infatti all’inizio della sua storia le opere esposte erano in vendita), l’altro quello della Esposizione Universale: questo rispondeva ad una modalità funzionale e ad un impianto metodologico molto differente, per esempio, da Documenta a Kassel. Fondata all’inizio degli anni Cinquanta del XX secolo su basi più specificatamente storico-etiche, in una città completamente rasa al suolo sul finire della seconda guerra mondiale, l’idea stessa alla base della costituzione di questa mostra periodica è stata quella di ribaltare le premesse di civiltà dell’isolamento e della supremazia di una cultura verso l’altra, per farsi strumento di un confronto inter-soggettivo e multi-culturale a venire.

-Quale opera o Padiglione ti ha colpito particolarmente sotto questo aspetto? 

R: Penso soprattutto al bellissimo Padiglione lituano, una sorta di tableau vivant che ha vinto il Leone d’Oro, dove occorreva non solo guardare ma anche muoversi e ascoltare, e questo ci dice come oggi le opere d’arte attivano vari sensi, tanto che, non a caso, protagoniste dell’opera erano tre artiste con tre formazioni diverse, che hanno coniugato l’aspetto visivo a quello performativo  della scrittura – letterale, musicale e coreografica. E così capitava che noi fruitori ascoltavamo mentre guardavamo muovendoci in un’atmosfera da “fine del mondo”, non però intesa in senso millenaristico ma della quale noi essere umani siamo coautori e corresponsabili. E’ come se si percepisse il rischio di una fine che abbiamo noi stessi determinato, come se fosse lì presente e disponibile, nel bene e nel male; e tra l’altro la visione dall’alto, cioè il fatto stesso che si guardi a questo “spettacolo” dall’alto, inserisce nella condizione di testimoni apparentemente molto prossima a quella che assumiamo sostanzialmente nella odierna società digitale (googlemap?), però con il sofware non delegato, ma interiorizzato. Sebbene insomma non si tratti di un’opera tecnologicamente impostata, ci permette uno sguardo al quale siamo inavvertitamente abituati, rendendocene consapevoli, come se ci venisse consentito un affaccio criticamente dinamico sulla fine dell’Antropocene, dove cioè gli esseri umani sono essi stessi autori principali di quello che accade su questo pianeta. Mi è sembrata la conferma di una linea di ricerca operata da tanti altri artisti in Biennale, che ci invita a riflettere sulla nostra perdita di centralità nell’ambito di una esperienza del mondo che passa attraverso l’intelligenza algoritmica, la creazione di una realtà virtuale e aumentata che noi possiamo impostare, ma che nello stesso tempo ci reimpostano. Abbiamo un potere enorme, ma queste opere ci suggeriscono che dobbiamo rendercene conto, saperlo usare… Ovviamente è comunque sempre difficile assegnare un premio. Ad esempio io personalmente – ma non solo io – ho molto amato il Padiglione del Ghana, un’esperienza del medium contemporaneo assolutamente olistica, che andava dall’istallazione alla pittura, dalla fotografia al video, cui si univa un’attenzione molto attenta al problematico rapporto tra tradizione ed innovazione, oltre che tra primo secondo, terzo mondo…

-Secondo te è possibile trasferire queste esperienze presenti in vari Padiglioni nella realtà di istituzioni museali, come il Madre che tu dirigi?

R: Da alcuni anni anche al Madre stiamo realizzando e potenziando l’idea di un museo performativo, dove la “performance” non consiste però né in quella istituzionale/aziendale né solo in un corpo che balla, una voce che canta, un testo recitato… è piuttosto l’apertura del museo ad un’esperienza dell’arte in tempo reale. Occorre anche nelle sedi istituzionali trovare il tempo e lo spazio per dar conto di come stia cambiando l’arte o il nostro modo di recepirla, trasmetterla. Possiamo, per fare un esempio, pensare alla Tate Modern, in cui ai magazzini che custodivano le opere si sono affiancati i camerini per cambiarsi d’abito e gli studi di prova, o a progetti come The Host and the Cloud (2009-10) di Pierre Huyghe al Musée des Arts et Traditions Populaires di Parigi, nel momento in cui esso era chiuso. A me piacciono molto le sale-cinema o le conferenze dei musei, ma non come luoghi di approfondimento, piuttosto come un’alternativa alle gallerie espositive: la mostra dedicata a Liam Gillik, inaugurata al Madre a giugno, è una retrospettiva ideata e progettata per essere il catalizzatore di un’esperienza plurima che oscilla fra black box del cinema, white cube museale, progetto di design, scultura minimalista, agit-prop… Anche alla Biennale abbiamo esperito e riflettuto su qualcosa che effettivamente sta già accadendo, non solo nelle arti visive: abbiamo visto proiezioni in sale senza sedie o schermi di matrice cinematografica ma con visori per realtà ‘immersive’, abbiamo attraversato una tridimensionalità che portava l’immaginario videografico nell’ambiente che stavamo esplorando. Il video smette di essere un analogo di un dipinto in movimento per attivare sempre più spesso una qualità plastica, scultorea, installativa che conferisce consistenza alle immagini bidimensionali. In questo senso – per tornare alla domanda sul fatto se siano o no interessanti i tempi in cui viviamo – posso rispondere in effetti di si: viviamo in tempi interessanti perché credo che siano tempi dialettici, fra un’epoca e un’altra… Per fare un altro esempio, mi ha colpito vedere ai Giardini il fumo che saliva dall’architettura del Padiglione centrale, ovvero l’opera di Lara Favaretto Thinking Head che, richiamando la figura pensante di Alighiero Boetti, dava rappresentazione all’idea di come anche una mostra o un’istituzione debbano sforzarsi per pensare e cercare di capire le cose. Mi ha colpito, dicevo, che il curatore abbia posto all’inizio del percorso della sua Biennale non il tema dell’aver ragione ma l’allegoria dell’interrogarsi, e lo sforzo che ciò implica…

-Passiamo al Madre; in primo luogo, notando la scultura di Jan Fabre che si proietta, per così dire, nel cortile del museo e considerato che questo artista è stato rappresentato non molto tempo fa in un’importante mostra a Capodimonte, ti chiedo se questa coincidenza corrisponda ad una sorta di sodalizio fra i due musei.

R: Effettivamente la collaborazione con il Museo Real Bosco di Capodimonte si fonda su un comune interesse, del sottoscritto e del Direttore Sylvain Bellenger, con cui abbiamo co-ideato il progetto Cartabianca. Capodimonte imaginaire, sull’indagine di quelli definirei i musei “possibili”. Non costruzioni critiche, alternative, polemiche o utopiche, ma musei nascosti all’interno dei musei reali, quelli soggiacenti a quelli pubblici e quotidiani, quelli che si possono delineare nei loro archivi o nei loro magazzini, o nelle professionalità dei team di lavoro, o nelle aspettative e nella partecipazione del pubblico. Ma il discorso che stiamo facendo riguarda in realtà quanto sta accadendo in generale a Napoli, nel campo della cultura, delle istituzioni e delle manifestazioni artistiche.

-Ecco vuoi spiegare cosa significa per un Direttore di un museo d’arte contemporanea fare cultura a Napoli oggi?

R: A Napoli si è realizzata una volontà comune che certamente coinvolge i Direttori dei musei ma che è il risultato di una visione sistematica, in cui hanno rilievo anche le rispettive ‘governance’, che consiste nel mettere in comune le rispettive professionalità, discipline, metodologie, collezioni. Il Madre collabora con Capodimonte ma anche con il Parco Archeologico di Pompei, con il Museo Archeologico Nazionale, con il Polo museale, generando occasioni di confronto fra artisti, fra epoche, fra stili che definiscono il continuum storico di questa città. Napoli è una città assorbente e porosa, dove il contemporaneo è stato da sempre presente, e quindi dove tutto è contemporaneità di fatto o in potenza. Pensiamo alle ceramiche e porcellane di Capodimonte (oggi esposte in una important mostra Cfr ) : è vero che risalgono ad Amalia di Sassonia e a Carlo di Borbone, ma oggi, con sforzo congiunto del Ministero e della direzione del museo, riacquistano una peculiare pregnanza nel momento in cui sta rinascendo proprio l’antica Real Fabbrica, all’interno dell’Istituto Caselli. Se tecniche, materiali e saperi non si disperdono, se a nuovi artisti si fornisce l’occasione di tornare a produrre oggi e qui nuove opere con gli stessi materiali, tecniche e saperi del passato, essi saranno ricaricati di espressione e valore contemporaneo. Ecco quindi che la ceramica e la porcellana di Capodimonte riprendono ad essere contemporanei nella misura in cui tornano ad essere materia di ricerca, attenzione e riflessione.

-Un’unione su obiettivi concreti e su basi comuni, che magari potrebbe essere d’esempio anche ad altre realtà territoriali?

R: La verità è che qui si è realizzata, come dicevo, una comunione d’intenti che si basa innanzitutto su una medesima comprensione dei caratteri, della storia e delle prospettive del territorio, e che quindi per funzionare deve agire complessivamente. Prendiamo l’esempio che tu stesso facevi della scultura di Jan Fabre; in questo caso, alla mostra centrale, da Wunderkammer, realizzata a Capodimonte, è seguita la presentazione della scultura che abbiamo posto al centro del cortile del Madre (a sua volta una differente versione della stessa scultura già esposta in precedenza; è come se i segni si spargessero per la città, perché poi c’è anche un’altra opera di fronte al dipinto di Caravaggio al Pio Monte della Misericordia. Una piece teatrale urbana (fatta anche di presentazioni di libri e regie teatrali), quella che stiamo mettendo in atto, e non a caso essa è messa in scena e interpretata da Fabre, che non è solo un artista visivo, ma anche performativo. Tutto il sistema istituzionale ha collaborato nella prospettiva di far emergere l’articolazione stessa della pratica dell’artista… Ma occorre anche viaggiare oltre, per così dire. Da un lato non dobbiamo mai dimenticare che Napoli è una “città-mondo” che prima che italiana è stata greca, latina, bizantina, normanna, francese, spagnola, e che il programma di un museo come il Madre deve quindi rispondere anche a quest’identità complessa, esprimere e dare continuità a una cultura che è un naturale incrocio di esperienze e civiltà. D’altro lato, tra i doveri istituzionali di un museo come il Madre c’è anche quello di riservare la massima attenzione all’arte italiana, anche in considerazione del fatto che gli artisti italiani, storicamente privi di piattaforme di supporto a livello nazionale, si affermano più spesso grazie all’attenzione del sistema dell’arte internazionale. Dovremmo essere invece i primi chiamati in causa, in questo senso, il che vuol dire porre una responsabile e stringente attenzione alla nostra storia artistica, passata, presente e futura.

-Come vi state muovendo a questo riguardo?

R: In questo senso il Madre ha accolto fin dall’inizio le possibilità proposte dalla piattaforma di italian Council, producendo o ricevendo nuove produzioni di artisti quali Ra di Martino, Lara Favaretto, Margherita Moscardini, Cesare Pietroiusti. Nel contesto della nostra attività espositiva la mostra retrospettiva dedicata dal mese dI giugno alla ricerca pittorica di un artista dell’Arte povera come Pier Paolo Calzolari rappresenta l’ultimo capitolo di un racconto che comprende le mostre dedicate, dal 2013, sia a artisti giunti a metà del loro percorso di ricerca, o emergenti, quali Giulia Piscitelli e Gian Maria Tosatti, sia a Maestri di cui il museo si è proposto di riproporre e approfondire la pratica e il ruolo per così dire seminali, quali Vettor Pisani, Ettore Spalletti (in occasione della cui mostra retrospettiva è stata creata una collaborazione inter-istituzionale fra il Madre, la GAM di Torino e il MAXXi di Roma), Mimmo Jodice, Fabio Mauri. O, nel contesto della loro presentazione in collezione, con l’acquisizione o il comodato di opere di Vincenzo Agnetti, Carlo Alfano, Tomaso Binga e Gruppo XX, Riccardo Dalisi e Superstudio (pratiche radicali degli anni Settanta fra architettura, urbanistica e ricerca sociale), Giuseppe Desiato, Bruno Di Bello, Salvatore Emblema, Maria Lai, Luca Maria Patella, fra gli altri. O, nel contesto delle attività editoriali e seminariali, Gianfranco Baruchello, di cui il museo ha prodotto la prima monografia riservata alle immagini in movimento, insieme alla Triennale di Milano. O, nel contesto del sostegno alla ricerca artistica attuale, la produzione di opere di artisti come Bianco-Valente, Giulio Delvé, Eugenio Giliberti. Un’attenzione riservata anche a figure di operatori e mediatori del sistema dell’arte, come Lucio Amelio, uno degli indiscussi protagonisti della storia artistica contemporanea di Napoli, a cui il museo ha dedicato una mostra e una pubblicazione basate su un articolato processo di ricerca.

-Considerando la complessità di una realtà come quella napoletana viene da chiederti come fai a gestirla, nel quotidiano.

R: innanzitutto direi letteralmente “vivendoci”: ho scelto di abitare a pochi metri dal Madre per vivere il museo anche prima e dopo il suo orario di apertura, per far parte del suo quartiere, per conoscerlo a fondo; una scelta fatta inizialmente d’istinto, senza rifletterci, ma che mi ha permesso di incontrare quotidianamente quel pubblico di prossimità, spesso non intercettato dal museo, con le sue opinioni, di cercare e applicare gesti anche simbolici che lo collegassero alle dinamiche che ogni giorno determinano un’impressione di vicinanza o lontananza, interesse o disinteresse; vivere e gestire un museo come il Madre a Napoli a mio avviso significa farsi condurre dalla comunità che nel museo deve poter trovare un interlocutore, per discutere e anche per criticare, dove si possa realizzare nel concreto la costruzione in tempo reale di una comunità consapevole, di una cittadinanza responsabile, che proprio tramite la cultura, soprattutto del contemporaneo, possa lasciare da parte i suoi dubbi per porsi l’obiettivo di testare  anche delle piccole sicurezze. Si dice sempre che l’arte pone dei dubbi e non dà risposte, è vero, pone dei dubbi ma così facendo s’interroga su quali siano le risposte possibili, e io sono convinto che bellezza, impegno, critica e ricerca della verità, vale a dire alcune delle caratteristiche che pretendiamo dall’opera d’arte, lo debbano essere anche di un museo. A livello pratico, proprio qui al Madre, nell’ultimo anno abbiamo ideato e condiviso, con la Presidente Laura Valente e il nostro team, un progetto che ha un titolo bellissimo, Io sono Felice!, e che si basa su una didattica d’inclusione e di cooperazione sociale ed è dedicato ad un grande artista che ha deciso che la sua arte non dovesse essere esposta nei musei, ma farsi coscienza sociale, girare nelle strade, entrare nelle scuole, animare le feste popolari, aggregare dal basso e non imporsi dall’alto. “Felice” è Felice Pignataro, per molti anni attivo a Scampia, nell’area nord di Napoli. Ne abbiamo già conosciute di figure simili di artisti in Italia, penso ad esempio a Piero Gilardi a Torino, autori di un’estetica “relazionale” ancor prima che il termine venisse coniato negli anni Novanta. Pionieri assoluti e appassionati. Nel caso di Pignataro (figura poco nota, e anche questo potrebbe essere un segnale su come l’informazione tratti esperienze così radicali in modo diverso quando riguardino il meridione?) la sua pratica artistica ha un rilievo davvero esemplare, per questo abbiamo deciso di adottare la doppia valenza del suo nome, “Felice”, e di intitolare così il progetto, Io sono Felice !, perché vuol dire che tutti noi, facendo come Felice Pignataro, possiamo essere più felici o comunque possiamo iniziare a pretenderlo, a partire dal punto esclamativo.

-Come si è articolato in pratica il progetto?

R: Abbiamo messo in atto numerose attività partecipate, e co-progettate, che hanno coinvolto associazioni che operano sul nostro territorio proponendo laboratori di danza, teatro, fotografia, cinema, letteratura, cucina; devo dire che se è vero che esiste ancora – ed è giusto che sia così – l’artista singolo, che dipinge, scolpisce o stampa nel suo studio, è sempre più vero che l’artista, almeno a partire dagli anni Settanta, sta divenendo una figura intellettuale più pubblica, con produzioni e pratiche aperte e collaborative, extra-disciplinari, e in questo senso anche il museo Madre, partendo proprio dal progetto Io sono Felice!, è un museo ancora più pubblico. Anche a livello di finanziamenti, e in questo senso so di andare in controtendenza rispetto a quanto affermano quasi tutti i miei colleghi sul tema dei finanziamenti, al Madre, grazie al sostegno della Regione Campania, qui siamo abbastanza “felici”…

-Cioè contrariamente alle premesse, e quindi in un certo senso alle problematiche a cui risponde Io sono felice!, potremmo dire?

R: Ecco appunto. I problemi esistono, è vero, ma la Regione Campania sta assicurando investimenti coraggiosi e consistenti proprio sulla cultura. Purtroppo se ne parla poco ma se questo territorio è divenuto la capitale italiana della serialità televisiva, se ci sono musei e festival il cui riconoscimento è testimoniato da trend di visita sempre in crescita, se persino le avventure letterarie dei personaggi di Elena Ferrante diventano marketing territoriale… un ruolo in tutto ciò lo riveste anche la continuità di finanziamenti pubblici garantiti dalla Regione Campania, che non mi pare abbia tanti analoghi esempi in Italia. Dovremmo quindi farci mediatori innanzitutto della consapevolezza che investire in cultura restituisce sempre più di quanto investito, non solo in termini di flussi turistici, ma soprattutto in termini di… “felicità percepita”, perché la pervasività di una presenza e azione culturale è indicatore primario anche di qualità della vita. Per quanto riguarda la mia quasi settennale esperienza al Madre, posso confermare che il Madre fa ormai parte integrante di questa esperienza di ricerca, produzione, esposizione e condivisione di cultura, che diviene senso di appartenenza, autostima, speranza, voglia di coinvolgimento, azione concreta.

-La Collezione permanente è un elemento fondamentale per la storia e la missione di un museo. Come si è accresciuta sotto la tua direzione? Ci sono progetti futuri anche sotto questo punto di vista?

R: La collezione permanente non è solo fondamentale per un museo: è di fatto ciò che definisce un museo in quanto tale. E’ un’ovvietà ricordare che il Madre, come altri musei italiani, non ha in dotazione stanziamenti per acquisizioni nemmeno paragonabili a quelli di alcuni musei internazionali, o presenti nel settore privato. Quindi la questione va affrontata seguendo altre modalità, per esempio coinvolgere e impegnare gli artisti agendo come committente di progetti i cui risultato finale incrementi la collezione del museo. In questo senso il Madre è fra i musei che hanno ottenuto i più numerosi riconoscimenti dalla partecipazione all’Italian Council, la piattaforma che citavo prima e che consente di finanziare la produzione di opere d’arte di artisti italiani, donate ai musei pubblici. Essendo il termine ultimo del processo (il museo che acquisisce le opere a patrimonio pubblico) ho espresso più volte tutta la mia soddisfazione, per i risultati che l‘ltalian Council sta permettendo di raggiungere, alla Dott.ssa Federica Galloni, Direttore Generale della Direzione Arte, Architettura Contemporanee e Periferie Urbane del MiBAC-Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Una piattaforma che ha dato e darà l’opportunità non soltanto agli artisti ma anche a critici, curatori e operatori di viaggiare e fare ricerca, informarsi e formarsi come professionisti nello scenario  globale delle arti contemporanee. Inoltre il Madre ha ricevuto anche da artisti e alcuni collezionisti numerose donazioni in questi anni, da Tris Vonna-Michell e Jef Geys alle opere entrare in collezione attraverso il progetto Per_formare una collezione. Per un archivio dell’Arte in Campania. In merito a quest’ultimo, vorrei ribadire che il Madre, museo d’arte contemporanea della Regione Campania, avverte la responsabilità verso la propria storia artistica non come un dato provinciale, ma come un dato identitario, soprattutto in un’epoca di globalizzazione e standardizzazione come la nostra. Vorrei ricordare in questo senso almeno due casi. Il primo riguarda la donazione di Riccardo Dalisi, uno dei massimi interpreti dell’idea dell’architettura “diffusa” che non costruisce palazzi o piazze ma azioni urbane per le comunità: nello stesso momento in cui l’artista dona al Madre, che ne aveva fatto oggetto di un progetto di ricerca, importanti documentazioni ed opere dal suo archivio, il Centre Pompidou di Parigi, uno fra i più importanti musei al mondo, con un budget per le acquisizioni imparagonabile a quello del Madre, ne acquista altre. Il secondo esempio riguarda la mostra Il Soggetto imprevisto. 978 Arte e Femminismo in Italia, inaugurata in aprile a FM-Centro per l’Arte Contemporanea di Milano, istituzione le cui esposizioni e pubblicazioni sono diventate, in pochi anni, di riferimento, sia a livello metodologico che tematico. Ebbene, in questa mostra dedicata non soltanto alle espressioni artistiche collegate al femminismo in Italia, ma più in generale alle pratiche artistiche eterodosse rispetto al canone tradizionale del sistema dell’arte e all’idea di cultura dominanti, il Madre ha prestato due opere centrali nel progetto della mostra; Alfabetiere murale di Tomaso Binga (scenografia anche dell’ultima sfilata parigina di Christian Dior) e i disegni, le prove grafiche e altri manufatti connessi alla mostra del 1977 alla Galleria Lucio Amelio dedicata al Gruppo XX Genoma femminile, un gruppo femminista napoletano di cui fecero parte anche le artiste Mathelda Balatresi e Rosa Panaro. Confesso che quando le inserimmo in collezione qualcuno disse: “Ma non sono mica Andy Warhol!” E del resto se non trovassimo ogni giorno voci e modalità anche alternative di incremento del nostro patrimonio contemporaneo, ci troveremmo, come musei pubblici, a dover considerare il paradosso di non produrre o collezionare i futuri Ercole Farnese, le future Cappelle Sansevero, le future Sette Opere della Misericordia di Caravaggio, o i futuri bassorilievi di Donatello o affreschi del Vasari, per citare solo alcuni esempi, che costituiscono il patrimonio storico della nostra città. Occorre guardare all’incremento di valore di un patrimonio collezionistico pubblico come qualcosa di molto lento, che nasce anche in relazione all’interesse privato, nella collaborazione con la dimensione del lavoro dell’artista, dell’attività galleristica, dalla passione collezionistica. Altrimenti del patrimonio artistico contemporaneo non avremo traccia nel futuro.

-Un’ultima domanda proprio sul rapporto pubblico-privato: come lo sviluppate al museo Madre?

R: Ritengo sia molto importante, e qualche volta determinante, partendo dalla premessa condivisa che occorre differenziare in modo preciso le rispettive aree di competenza e intervento, agendo nel più rigoroso rispetto delle regole pubbliche anche nella valorizzazione del know-how privato. Il Madre sostiene per questo, e in questo modo, dal 2012 anche attività proposte da istituzioni, fondazioni e associazioni private con rilevanza pubblica, attraverso la piattaforma Progetto XXI. D’altra parte pensiamo alle collezioni del Museo Archeologico Nazionale o del Museo e Real Bosco di Capodimonte… musei creatisi a partire da collezioni private, come le collezioni dei Borbone e dei Farnese! Il rapporto pubblico-privato è la storia stessa dei musei italiani, e non solo, dunque occorre facilitarlo creando condizioni di fiducia reciproca, adottare una politica dei piccoli passi che si svolge su spazi ampi e per tempi non brevi, ma certamente produttivi… Gli spazi e i tempi della cultura e del musei? Almeno fino a quando dovesse arrivare la “fine del mondo” evocata dal Padiglione lituano alla Biennale...

P d L    Napoli  6 ottobre 2019