Il Bello artistico fra Estetica ed Etica: sconfitte e speranze. Un saggio di Vitaliano Tiberia.

di Vitaliano TIBERIA*

I- Fluttuante nel divenire storico e fra le oscillazioni del gusto, l’idea di bellezza, dall’antichità ad oggi, ha avuto un’esegesi positiva nel pensiero di una sua possibile eternità o universalità connotata dalla spiritualizzazione di modelli e dati reali. Kant, ad esempio, ha emblematicamente visto nel bello un simbolo di moralità con la pretesa di un consenso universale.

Il bello, pietra angolare del concetto di forma, talora con eccesso di retorica, è stato disposto demiurgicamente fra il bene e il vero, nel tentativo di armonizzare distinzioni e differenze, dischiudendo orizzonti ontologici per molteplici ermeneutiche dell’arte e dello stesso significato della vita. Un collegamento sottile ma saldo ha mantenuto uniti nel tempo, oltre gli ideali e le ideologie, mondi lontani.

Guardando alla sequenza bello-bene-vero, se Padri della Chiesa ed autori medievali, in primis san Francesco d’Assisi, ma anche Michelangelo, hanno visto nella bellezza del creato un riflesso della \bellezza divina, alcuni filosofi del XVIII-XIX secolo, padri del razionalismo moderno, con finalità altrettanto spiritualistiche, l’hanno spesso interpretata al pari delle virtù e come un dominio sulle passioni. Così Schelling ricordò che virtù e bellezza risiedono nel dominio dello spirito e della bellezza stessa sulle passioni, mentre Nietzsche ritenne l’esistenza e il mondo giustificati solo come fenomeno estetico.

Alle origini del problema dell’estetica, Aristotele apre la sua Metafisica affermando che gli uomini tendono per natura al sapere e che amano le sensazioni per sé stesse, in particolare la vista, anche indipendentemente dalla utilità. E’ la piena esaltazione del corpo umano, che, a partire dall’Umanesimo-Rinascimento, è stato artisticamente raffigurato nella sua nudità, e pertanto nella sua bellezza primigenia, è «la soglia concretizzata della coscienza e della tattilità»[1], nell’elaborazione delle varie invenzioni della forma artistica. Da qui si può ripensare ad un’educazione all’estetica, che sia coscienza e sensibilità e quindi rispetto del corpo e della natura con la quale questo si relaziona. Il corpo, dunque, punto d’equilibrio dell’interiorità degli spazi dell’anima e dell’esteriorità degli incontri con la realtà, è come un’architettura in cui la dialettica interno-esterno genera la spazialità, finalizzata alla possibilità di abitare bene ma anche a vivere un’immagine architettonica come bellezza dell’abitare.

Il corpo, sede delle sensazioni, è morfopoiesi della vita, soggetto ed oggetto di percezione, memoria, intuizione e desiderio, cesura virtuale fra tradizione e modernità, protagonista costante nel trascorrere del tempo e nel mutare del gusto e dunque sostegno per ogni riflessione sulle origini, il senso e le finalità della vita.

II – Le sensazioni possono dar vita alla bellezza e costituiscono l’estetica, l’investigazione delle origini del senso, che può fondarsi sul giuoco dei simboli e che, nel confronto di intuizione e di intelletto, genera l’arte, che è luogo particolare, come ricordava Heidegger, dell’apertura di mondi e «porsi in opera della verità»[2]. I simboli, infatti, dischiudendo il possibile, universalizzano il pensiero, durano nel tempo, e si offrono a letture “trasversali”, declinati con suggestione di immagini in lingue e talora in religioni diverse, compresi in fedi talora contrastanti; perché i simboli, dopo l’esilio dell’anima e le ferite inferte dalle passioni, coniugando il verbo della bellezza ed evocando il mito, riducono e risanano le fratture, favoriscono gli incontri, rafforzano la speranza che non tutto muore con la materia. Diversamente dunque dalla scienza, che è storia degli errori del passato, ed è pertanto acquisizione, correzione, integrazione o annullamento di risultati precedenti già ritenuti definitivi, l’arte è scalata prometeica ai misteri della vita ed è capacità di non ritenere definitiva l’apparenza fenomenologica.

Il simbolo nell’arte, dunque, ridimensiona il relativismo gnoseologico, il nesso sensibilità-morale e il meccanicismo scientifico, definiti sistematicamente a partire dalla riflessione sei-settecentesca, ed è poco compatibile con l’universalismo della tecnica, funzionale al benessere di tanti ma spesso subordinata, in quanto produttrice di ricchezza, alle dinamiche finanziarie. La tecnica moderna serve alla produzione seriale delle cose, dispiegandosi in una dimensione amplissima, affollata di desideri da esaudire. Tecnica e tecnologia sono forti alleate dei sistemi materialistici collettivizzanti di ieri e di oggi, come il comunismo e l’odierna globalizzazione, di cui un’originale sintesi è la Cina contemporanea, colosso mondiale dell’economia, ma comunista e globalista ad un tempo, che non rispetta i diritti umani e rifiuta ogni spiritualità religiosa, mortificando la categoria dell’estetica, attraverso una diffusa produzione del mercato del falso.

III – Riflettendo sul significato dell’estetica, vediamo che l’arte non vive di schematizzazioni prassistiche, ma, in quanto presa di coscienza, è libera di fondarsi sul principium individuationis e sul dato per cui ogni corpo, oggetto della sua attività, è tomisticamente materia signata quantitate: lopera d’arte sgorga disinteressatamente dalla spiritualità dell’artista che sospende il reale, purificandolo da ogni scoria dell’esistenza, così che anche un referto brutto diventa bello, se trasfigurato artisticamente. Come ha teorizzato Cesare Brandi, l’arte riduce l’oggettività dell’esistenza al soggettivo della coscienza, creando una dimensione non esistenziale, pura, mentre l’atto morale subordina il soggettivo della propria esistenza alla suprema oggettività della legge: in ambedue la coscienza trascende l’esistenza ed attinge l’assoluto.[3]

Un concetto, questo dell’intenzionalità della coscienza, che ha riscontro  anche nella riduzione fenomenologica della realtà attraverso l’epoché teorizzata da Edmund Husserl, per cui la pura essenza, l’eidos, è al cospetto dell’intuizione intellettuale, così come un dato dell’esperienza si presenta oggettivamente all’intuizione sensibile; in altre parole, l’husserliana  intuizione eidetica ha per oggetto l’essenza e non l’esistenza ed è possibile solo con la sospensione, l’epoché pensata dagli antichi Scettici, la sospensione dell’esistenza.

Dunque, la sublime “finzione” artistica, che soprattutto il poeta e il pittore intuiscono e realizzano, è creativa ed è la guida nell’incontro di materia e spirito. Da qui ha origine la bellezza dell’arte, kantianamente libera da pregiudizi gnoseologici e da fini concreti, che ha valore estetico vero se, facendosi oggettivamente forma, cosa vivente, visione, come pensava Francesco De Sanctis, condiziona il gusto e diviene simbolo di universalità. Perché la bellezza, considerata già per tutto il Medioevo realtà e non astrazione e, giacchè emanata da Dio, origine e fine di ogni cosa, si è costantemente posta come fonte di piacere e (lo ha teorizzato Pareyson) di formatività, in quanto agire produttivo e inventivo che percepisce la realtà, trascendendola nella forma.[4]

Il bello artistico, dunque, anche se libero dal destino conoscitivo, non è un’astrazione metafisica, ma fenomeno, in quanto segno ed esperienza, della verità della forma, di volta in volta irripetibile, veicolata dalla materia disposta nella realtà. E questa non è copiata ingannevolmente dall’artista, come voleva Platone, ma, nel processo creativo, è da lui sospesa e potenziata nella catarsi formale e rivolta alla verità, è dinamica del bello che non può essere esiliato. Ma l’uomo contemporaneo, per costruire gli alberghi della felicità e nuovi areopaghi, venerando Plutos (la ricchezza) e Dike (la giustizia), ha progressivamente allontanato dall’Olimpo Atena e Afrodite, le dee della sapienza, dell’amore e della bellezza ed ha esiliato i poeti cantori del mito, recidendo ogni rapporto fra cielo e terra. L’uomo contemporaneo, immerso nelle seduzioni secolarizzanti, è rimasto così ancor più in solitudine, orgoglioso di amministrare giustizia e moralità, ma alienato e senza sollievo neppure nel lavoro, mentre la ricorrente mitizzazione dell’etica ha generato spesso la ùbris, la tracotanza, che i Greci temevano perché invisa agli dei e che si purifica spesso nella tragedia. E lo hanno dimostrato le grandi distruzioni morali e materiali dei totalitarismi del XX secolo, discesi dal totalitarismo filosofico di una  «verità metafisico-epistemica» (E. Severino): l’indistinto etico della ragion di Stato che cancellò la dignità della persona, proprio nel momento in cui si consolidavano in suo nome le ideologie razionalistico-materialistiche sette-ottocentesche e sembravano attuarsi, con le dittature nazista e comunista, i grandi progetti di realizzazione di una società più giusta.

IV- Le conseguenti eredità si sono rivelate illusorie; essendo utopie senza trascendenza non potevano corrispondere positivamente alle domande di senso esistenziale. Si tenta ora, in epoca di postmoderno lyotardiano, di metabolizzare tali fallimenti con l’offerta della “nuova” etica globalistica dell’avere tutto da parte di tutti, secondo modelli antropologici in realtà non raggiungibili per la maggior parte degli uomini; risultato vistoso è il consumismo planetario cui sono chiamate Cina e India, per il loro essere giganti demografici, non importa se ancora tormentati dal disagio per la mancanza delle risorse minime per la sopravvivenza di molta parte delle loro popolazioni.

Al pari di quanto accaduto nel recente passato nei paesi del comunismo reale, per realizzare la globalizzazione, che attraversa indifferentemente ideali e ideologie, la prima vittima a cadere, dopo la religione, è stata ancora una volta l’estetica, come l’aveva teorizzata Kant, con la sua distinzione di un bello artistico libero e di uno naturale; Kant, che, dopo aver scritto le due Critiche della ragion pura e di quella pratica, sentì il bisogno di farle incontrare, scrivendo una Critica del giudizio dedicata all’estetica. Etica e metafisica non si sarebbero, così, perse di vista grazie all’estetica, che riscattava nobilmente e disinteressatamente le ragioni dell’intuizione e della creatività, proiettandone la materia purificata dai condizionamenti esistenziali nella regione dello spirito. La bellezza artistica, per essere incondizionata, avrebbe conciliato metafisica e morale, sensibilità e intelletto, offrendo libertà e verità, di cui sarebbe divenuta simbolo.

Questa intuizione è stata talora fraintesa: nell’arte, dapprima l’ideologia marxista ha visto una sovrastruttura borghese, di cui si può fare a meno ed in cui si deve semmai privilegiare sociologicamente il contenuto rispetto alla forma; quindi gli attuali “liberisti” hanno sostenuto e sostengono che le opere d’arte, anche se di soggetto sacro, costituiscono un valore essenzialmente patrimoniale e possono autofinanziare la propria esistenza. Posizioni fondate sui concetti finanziari di efficienza ed economicità, estranei alla simbolicità e alla libertà dell’arte e funzionali ad interessi planetari appannaggio di pochi. Come ha riconosciuto Benjamin,

«con la privazione di ogni fondamento cultuale nell’arte, si è perduta, anche e per sempre l’apparenza della sua autonomia»[5].

Il progressivo venir meno dei valori tradizionali, con la trasformazione dell’etica in moralismo e dell’arte in tecnicismo estetico, sperimentazione socio-psicologica, specializzazione materica, denunzia del passato e del presente, propaganda socio-politica, ha decretato la fine del pensiero della bellezza, della comprensione del mito e del simbolo nell’arte, della possibilità di evocare il non vissuto e di reincontrarsi dopo essersi persi di vista o anche senza essersi mai conosciuti. In parallelo, si è perduta la capacità di un’ermeneutica estranea al relativismo della non identità del sensibile e dell’universalità spirituale del reale e della trascendenza.

Consequenziali sono state la rinunzia ad ogni significato religioso dell’arte e la sottovalutazione del dato di fatto che religione ed estetica chiedono all’uomo anche un rapporto rispettoso con la natura, ritenuta da Kant depositaria in certi momenti del sentimento sublime e non una realtà funzionale alle ragioni socioeconomiche e finanziarie; la natura che è stata ed è vilipesa e saccheggiata, al punto che ecologisti e scienziati parlano ora di rischio imminente per la sopravvivenza del pianeta.

Un rischio richiamato recentemente anche dal papa Francesco, che lo ha teorizzato su vari piani, nell’enciclica del 2015, Laudato si’. Nessun antico pagano avrebbe incendiato boschi per ulteriori usi speculativi. I pagani, vivevano del sentimento religioso da cui nascevano poesia e bellezza, personificate in divinità che collegavano l’Olimpo alla natura. Se si tagliavano alberi in un bosco, lo si faceva per costruire oggetti di utilità vitale, come i carri o le imbarcazioni, ma anche per edificare abitazioni, templi, teatri, che erano luoghi d’incontro civile e religioso, in cui la pietas erga deos, esaltata dalla bellezza della poesia accompagnata dalla musica, evocatrice del mito, modellava l’abito culturale dell’intera città.

Nel mondo pagano, il bello era infatti individuato nella natura e nell’opera d’arte, ambedue collegate successivamente dal Cristianesimo, in rapporto analogico, all’idea di creazione, di poiesis divina e umana. Era la bellezza il metron della civiltà, mentre la natura, ritenuta dai pagani abitazione di creature divine, ispirava i poeti che davano vita agli dei loro protettori, fondando quella religione della bellezza che trasformava la poesia in religione. Perché, nel mondo greco, oltre ad una spiccata sensibilità metafisica, vigeva un pensiero fondato su un’etica del buon gusto universalizzante, che costituiva, come ha sottolineato Gadamer, «il culmine più alto del giudizio morale».[6]

V – Sia l’arte cristiana, che quella contemporanea sono andate oltre la concezione antica. La prima, riferendosi all’idea divina di creazione, ha rivalutato il corpo umano e la sensibilità, interiorizzando il dato di fede ed esprimendolo in forme sensorialmente belle ed umanisticamente elette nella raffigurazione della presenza divina nella storia; Kant ha quindi separato l’estetica dalla gnoseologia e dall’etica, vedendo tuttavia in quest’ultima la possibilità di essere un simbolo della prima. Infine, l’arte contemporanea, sviluppando l’auspicio di Worringer che già nel 1908 riconosceva all’artista il diritto di allontanarsi dalla natura, ha spesso respinto la resa artistica della datità naturale[7].

Nei successivi sviluppi si è, di fatto, concettualizzata l’arte anche come negatività, indeterminatezza o rivendicazione di una creatività puramente gestuale e talora decisamente espressionistica negli stravolgimenti delle avanguardie ai danni della tradizione e nella dispersione della soggettività psicologica o della prassi sociale dell’attribuzione dello status artistico solo da parte delle istituzioni o del cosiddetto “mondo dell’arte”, fino al nihilismo di talune poetiche contemporanee della matericità oggettuale. [8] Non casualmente, Adorno ha parlato dell’arte come fonte d’irritazione e discontinuità, come un comprendere fondato sul non identico opposto alla consueta gnoseologia dell’identità[9]. Ma l’arte, fino all’Ottocento comprensibile per tanti (le arie della lirica erano cantate o fischiettate dal popolo), deve tornare al suo passato, se non vuol rischiare una popolare incomprensibilità.[10]

L’itinerario che stiamo descrivendo è segmentato nella sua evoluzione storica fino al XVII secolo dalla presenza di due dati talora convergenti, uno religioso ed uno scaturito dal pensiero archetipico greco sulla bellezza; e ciò, oltre che nell’arte classica si riscontra nell’arte cristiana occidentale, che conosce il suo vertice, dopo lo spiritualismo iconizzante di gran parte del Medioevo e il preumanesimo cavalliniano-giottesco, nel riacquisto dell’elemento figurativo geometrico-naturalistico ed illusionistico per eccellenza: la prospettiva.

Un riacquisto tuttavia rinnegato già dalla seconda metà dell’Ottocento per rivendicare quella libertà della superficie pittorica che sarà centrale per gli Impressionisti e nel cubismo di Braque e Picasso, e che promuoverà con Duchamp, in un processo di reificazione senza limiti, il passaggio paradossale di oggetti comuni ad astrazioni formali. In precedenza, l’Illuminismo, esaltando il nesso sensibilità-morale e congedando il pensiero della trascendenza, aveva privato razionalisticamente l’arte dei suoi significati religiosi, per gettare involontariamente le basi della concezione borghese, divenuta poi consumistica e comunista dell’estetica, per cui l’arte o è godimento effimero e fatto di mercato, o è, rispetto alla struttura basilare produttiva della società, sovrastruttura borghese, di cui, al pari della religione e di ogni altra manifestazione dello spirito, si può fare a meno.

Il frastagliato pensiero marxista sull’arte, con significative eccezioni eterodosse (Bloch, Argan), prendendo le distanze dal pensiero kantiano e da tutta l’estetica spiritualistica, laddove ha prodotto un’analisi sociopolitica dell’arte come sovrastruttura, ha teorizzato generalmente un’arte che tipizza il reale in quanto forma di comunicazione propagandistica di rispecchiati dati materiali, piacere massificato e quindi surrettizio mezzo burocratico di incremento del potere. E questo alla luce di un’illustrazione dialettica e apodittica dell’ingiustizia della condizione umana, cui non offre riscatto l’arte «alienata a merce» (Adorno), funzionale, in realtà, alla costruzione dell’attuale originalissimo sistema culturale fondato su un materialismo tricipite: libertario-irenistico, moralistico, mercantile, anche se non mancano eccezioni, già alla fine dell’Ottocento, di alta qualità formale e di invenzione suggestiva, come, per esemplificare, Le spigolatrici, (1857), di Jean François Millet, e Il quarto stato (1898-1901), di Giuseppe Pellizza da Volpedo.

Jean-François Millet, Le spigolatrici (Des glaneuses), 1857, olio su tela, 83,5 x 110 cm. Parigi, Musée d’Orsay
Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, 1898 – 1901, olio su tela, cm. 295 x 545, Milano, Galleria d’Arte Moderna

La conseguente alienazione della coscienza, insensibile all’idea di trascendenza, ha rivelato l’incapacità di intuire ciò che è eletto e di creare bellezza ispirandosi alla natura, al suo equilibrio, alla sua armonia. L’arte non è stata più mezzo di piacere, servizio divino, culto della religione, segno ed esperienza e presa di coscienza veritativa, ma è divenuta religione della cultura,[11] che è parte del mondo hegeliano dello spirito alienato, da cui si è originato l’antinaturalismo e, di conseguenza, tanta parte, di ardua comprensibilità, dell’arte contemporanea.[12] Nonostante gli sforzi dell’ideologia collettivizzante otto-novecentesca per un miglioramento del rapporto uomo-lavoro, l’alienazione dell’uomo è perdurata e l’arte l’ha registrata appunto come fallimento della volontà di essere in relazione con il reale e come incapacità di dare senso alla vita.

L’alienazione nella società contemporanea del post-moderno si è quindi acuita con l’imporsi affrettato del tecnicismo informatico, come, per altro, sembrano dichiarare certe operazioni estetiche in ambito video di collegamento fittizio fra datità presenti e identità del passato; la tecnologia informatica, minimizzando, se non annullando, la dimensione dello spazio-tempo e cancellando il linguaggio tradizionale di segni e suoni, ha consolidato l’impersonalità del globalismo commerciale, attuale motore espansionistico della tecnologia, frutto a sua volta di un progresso scientifico talora incurante della stessa legge naturale e rivolto allo sfruttamento delle potenzialità umane e delle risorse ambientali. Un “progresso” che sta depauperando gravemente il pianeta per favorire il consumismo più sfrenato, giustificato per di più dalla necessità di espandere la democrazia e di creare ulteriori possibilità di lavoro.

Mentre la crisi contemporanea insidia anche il Cristianesimo, è tramontato il criticismo estetico kantiano con le successive tendenze spiritualizzanti dei grandi dell’estetica tedesca (Hegel, Schiller, Schopenhauer, Schelling, Nietzsche, Herder, Gadamer, Von Balthasar), per cui era stato individuato il sublime nella natura e il bello nell’arte, ritenuta, se di soggetto sacro, servizio divino e redenzione.

L’odierna crisi post-razionalistica e libertaristica dell’ideologia e dei valori certi ha acuito negativamente la mutazione dei rapporti dell’uomo con la realtà, così che i dati da questa provenienti sono diventati moventi per configurazioni soggettivistiche. Di fronte all’inevitabile scacco assistiamo ad affrettate riconversioni e riscoperte della morale del padre o degli schemi classici dell’economia o della politica senza “utopie” materialistiche, o dell’estetica, ostentata come anodino detergente delle macchie della coscienza ed elegante strumento autopromozionale.

VI – Nei momenti difficili della storia, la forza di conservare le identità fondamentali della civiltà, fra queste la pace e la giustizia, non hanno ceduto; all’etica in crisi ha portato soccorso l’estetica, àncora di salvezza durante i naufragi della dignità umana e imprescindibile tessera ospitale per accostarsi al bene e al vero. Così, alla decadenza morale della Chiesa del Rinascimento, che portò alla lacerazione luterana e al rifiuto dell’arte sacra, corrispose dopo pochi decenni una straordinaria fioritura di valori estetici. A Roma, pittori, scultori e architetti e i loro committenti, trasfigurando in forme artistiche la relazione uomo-natura-Dio, testimoniarono quanto importante fosse l’arte. La crisi della consapevolezza della centralità del bene e del vero, se fece riconsiderare il rapporto uomo-Dio-mondo e il concetto di giustizia per consolidare l’antropocentrismo, non determinò la morte del bello; grazie al talento degli artisti e alla lungimiranza dei loro committenti, ne fu esaltata la potenza in ogni architettura, ma soprattutto nei luoghi alti della religione cattolica: le chiese e gli stessi palazzi apostolici romani.

Nella seconda metà del secolo scorso, il capovolgimento di prospettive etiche e di riferimentiestetici, ha promosso secolarizzazione ed ateismo, agnosticismo e relativismo a valori fondanti di un nuovo mondo abitato da un uomo apparentemente più libero, più giusto, più buono, in presunta armonia con il cosmo. Nuovi e migliori assetti socio-antropologici sono stati così profetizzati da orientamenti del gusto contemporaneo come il New Age, per cui il culto fisico della persona, sostenuto da dovizia di estetismi e dalla sopravvalutazione dei dati astrologici (la fede negli oroscopi), propone una nuova interiorità abitata dagli astri ed un’estetica dell’apparire individualistico al limite del narcisismo, che esteriorizza esasperatamente l’io; modesta eredità del pensiero hegeliano della morte di Dio e dell’arte, da cui sono scaturite alcune poetiche contemporanee negazionistiche, talora di indubbio interesse teoretico ma inaccessibili ai più perché strutturate essenzialmente sui significanti e non sui significati; fatto questo già ritenuto inaccettabile da De Chirico, che nell’arte metafisica vedeva, in polemica con le Avanguardie, una fonte di significati chiari e la possibilità di ritornare alle origini.

L’eclisse della metafisica e dell’estetica hanno così reso più evidente la crisi dell’etica, deflagrata, nel Novecento, dapprima nella delega delle coscienze ai totalitarismi ideologici di singole personalità “provvidenziali” e successivamente nella fiducia riposta nell’assolutismo finanziario del mondo globalizzato; ma l’estetica, se esige un insegnamento alla percezione e alla bellezza che eviti possibili atteggiamenti retrivi della collettività dinanzi ad espressioni artistiche “astratte” in favore di una resa presuntamente figurativa del reale, richiede un’educazione alla sua pratica nella vita quotidiana. In questo senso essa potrà avere anche un valore etico: sarà libera dalle ragioni reificanti di una commerciabilità della vita, talvolta ridotta a possesso di oggetti kitsch ed ora tecnologici, più volte denunziata in chiave spiritualistica da alcuni esponenti del Nouveau Réalisme; una commerciabilità che asservisce le coscienze ad una logica dello scambio perenne e silenzioso, dopo averle ottenebrate con un costante lavorio di sgretolamento dei fondamenti spirituali e di giustizia.

È stato recentemente osservato:

«Se esiste un senso della bellezza innato quanto quello della giustizia, esso può opporsi alla violenza oscena il cui consumo è causato dal vuoto interiore e che, a sua volta, riproduce vuoto interiore. Più la bellezza è tale, più sentiamo che va al di là dello spazio e del tempo in cui si manifesta. Se riusciamo ad entrare in rapporto con essa, entriamo in qualche modo in rapporto con l’infinito e con l’eterno».[13]

Questo riacquisto del senso della bellezza, che tocca il vertice nella musica, arte libera dall’arbitrarietà del linguaggio e dunque universalizzante, può disporre al centro delle coscienze il valore del simbolo e del mito, della tradizione, su cui la stessa Chiesa cattolica, ha fondato tanta parte della sua identità.

La bellezza, dunque, come concreto monumentum aere perennius, come pensava il poeta Orazio riferendosi alla sua poesia, in una proiezione attraverso il tempo vagheggiando l’eternità; la bellezza come centro sia di una filosofia dell’arte sacra alla ricerca di senso, sia di un’estetica delle norme e delle forme del divenire e dell’essere. Perché la bellezza artistica, non subordinata a mediazioni concettuali, si distingue per il suo essere inestinguibile e talvolta esemplare. Per questo le grandi opere d’arte, incarnazione verticistica della bellezza formale, subiscono solo una parziale storicizzazione; pur nascendo nella storia, non sono legate ad una data, perché sono sempre presenti.

VII – Con 1a seconda metà del XX secolo in particolare, è progressivamente venuta meno la consapevolezza che l’estetica è anche misura della vita quotidiana, mentre s’è sviluppata ulteriormente la volontà ideologica di presentarla come una sovrastruttura borghese, specchio di ipocrisia e riserva d1 pochi, di cui ci si può liberare. Nel generale progressivo annullamento delle distinzioni tradizionali, si è quindi affermata contro la bellezza la poetica provocatoria dello scarto promossa da Andy Warhol (autodefinitosi businessman dell’arte), compresa nel postulato tutto può essere arte, affiancata dal suggestivo pensiero libertaristico di Joseph Beuys nella variante· creativistica del movimento e parzialmente spiritualistica ed utopica del tutti sono artisti. Una poetica, tuttavia, come anche quella pluricomprensiva di Fluxus, ardua da comprendere per i più, perché dettata da intellettualismo o da imposizione istituzionale o dagli interessi del cosiddetto “mondo dell’arte”.

La stessa Op Art, ricca di implicazioni scientifiche e tecnologiche con fortunate presenze nella moda e nella grafica, si è presto affievolita. E non è andata meglio alla Junk Art e all’Arte povera, che, presentando rifiuti e materiali alternativi a quelli dell’arte tradizionale, hanno illustrato i resti della produzione del capitalismo, senza tuttavia scalfirne la logica. E ancora, il dilagare della “spazzatura” televisiva (per esempio, le performances televisive, volgari ed esibizionistiche, da vecchia caserma, di Benigni-Carrà, Benigni-Baudo, accompagnate da fragorose risate del pubblico), il successo del Rap nella musica come espressione cantastoriale, hanno confermato la difficoltà di un’interpretazione oggettivamente qualitativa e comunicativa del dato estetico.

Sul piano di un’estetica della corporeità individuale manipolata il ricorso diffuso a tatuaggi e al piercing appare dettato dalla volontà di esteriorizzare simbolicamente i propri ricordi non importa se ai danni della superficie corporea, mentre, soprattutto fra i giovani, dilaga il turpiloquio come linguaggio corrente e non come riflesso episodico di alterazione emotiva; come pure il minimalismo (non nei costi!) se non la trasandatezza dell’abbigliamento spinto fino al clochardismo, come l’ostentazione da parte di alcuni divi dello spettacolo di jeans accuratamente lacerati. Fatti questi che contribuiscono a rendere problematica una nuova e qualitativamente accettabile definizione dell’estetica contemporanea, che   rifiuta ogni morfologia tradizionale. Si è invece sviluppato il concetto di sottrazione, di anti-arte, di anti-prassi, nuove modalità del fare estetica come rovesciamento «del mondo, del senso, dell’uomo, ed infine anche di sé stessa» come antibellezza e nientificazione di ogni struttura artistica.[14]

Posizioni avanguardistiche peraltro già espresse negli anni Venti del secolo scorso con le grandi Avanguardie del Dadaismo e del Futurismo, quando Kurt Schwitters, nel 1923, affermava che lo sputo d’artista è arte! Mentre la musica ha offerto il rumore e anche, con John Cage, l’assoluto dell’assenza di suono, mentre la pittura ha promosso i materiali o il già ricordato ready made di Duchamp a raffigurazioni artistiche. Tutto per rifiutare il passato, ma anche in nome di una presunta libertà che ha reso invece pressoché incolmabile la distanza fra produttore d’arte e ricettore, fino a dimenticare che il fine dell’arte sarebbe misera cosa se si esaurisse, dopo la distruzione di precedenti tassonomie, in esperienze risentite del comprendere o del constatare esteticamente l’alienazione dell’essere uomo.

Già nel 1949 Cesare Brandi avvertì che l’Avanguardia era finita[15], mentre, dieci anni dopo, un maestro come Achille Pace manifestava l’esigenza «di uscir fuori dall’irrazionale groviglio dell’Informale» per «un’esistenza più conscia e costruttiva». Ciò non ostante, ancora recentemente un autorevole ecclesiastico, come il cardinale Gianfranco Ravasi, ha osservato in sede accademica pontificia che gli operatori estetici contemporanei, gli avanguardisti in altre parole, costruiscono «nuove grammatiche dell’arte», non considerando che le Avanguardie storiche e quelle attualmente ricorrenti, cui appartengono tali operatori, si presentano sempre come uniche e originali, e che nascono per annientare l’idea stessa di grammatica, non già per riproporla in altre forme; senza considerare poi il fatto che proprio il Postmoderno, come ha sottolineato Paolo D’Angelo, ha decretato la fine dell’avanguardia,

«segnando in pittura il recupero del figurativo […], in letteratura l’abbandono degli sperimentalismi, il recupero dei generi, la commistione di arte colta e forme popolari»[16].

Un epilogo, questo della perdita del futuro, determinato dalle Avanguardie, ancora ripreso da Brandi nel 1970, che lo vide nella sostituzione dell’essere con l’esistere, decretando per l’Avanguardia una posizione «puramente araldica come un titolo nobiliare al cui predicato non corrisponde più nessun potere effettivo».[17] Nel nostro tempo, essendosi perduta la dimensione del futuro, non c’è più spazio per un’idea di Avanguardia, che è fondata sul pensiero di progresso contraddittoriamente presentificato.

Resta dunque la realtà di un funzionalismo consumistico e di uno spregiudicato efficientismo speculativo, ultime professioni di fede dell’odierna apostasia del materialismo ideologico convertita al materialismo globalistico, in cui l’idea di bellezza artistica si è vaporizzata. Basti guardare non poca parte dell’architettura moderna prodotta dalla speculazione edilizia e dall’ideologia dominante negli ultimi cinquant’anni; spesso pretestuosamente ispirata al magistero di Le Corbusier e realizzata secondo criteri di funzionalità, questa architettura è deprimente. Non vi si trova più declinata l’idea strutturale di spazialità architettonica in rapporto dialettico di volumi, linee e piani con la luce; vi si impone invece una concezione dello spazio condizionata da ideologismi egualitaristici, ma, in realtà, funzionale (in contrasto, per altro, con le intenzioni di Le Corbusier) ad interessi speculativi di varia natura.

Chi è costretto a vivere in un ambiente degradato o in un quartiere dormitorio ma, suo malgrado, dichiarato culturalmente “razionale”, lontano chilometri dal centro storico delle grandi città e spesso a ridosso di raccordi autostradali, può perdere ogni senso estetico e divenire l’incolpevole protagonista di un esilio esistenziale. Se le piazze degli antichi centri con le loro architetture storiche erano lo spazio strutturale delle città e il luogo deputato per la manifestazione delle identità comunali dei popoli, da tempo queste, salvo alcune eccezioni virtuose, sono “luoghi alti” per pochi privilegiati o per la burocrazia e la finanza o contenitori di occasioni indistinte, di pseudo eventi, che disperdono le coscienze in assordanti adunate di massa.

L’estetica, fonte rigogliosa di riflessione ontologica, è uscita così quasi del tutto dalla coscienza comune; è rimasta appannaggio, in quanto scienza filosofica e oggetto della critica d’arte, di una ristretta cerchia professionale o di isolati cultori delle cose belle, ma è scomparsa anche dalla gestualità quotidiana comune perché non considerata più dato di vicinanza positiva ed elegante nelle relazioni sociali.

Nel labirinto dell’arte contemporanea, l’artista ha così ceduto il passo all’operatore estetico; e questi ha cercato un’alternativa etica nel ripugnante, nel grottesco, talora nel blasfemo, o ha perseguito innovazioni gnostiche per pochi iniziati o più diffusamente reiterati messaggi di denunzia della tradizione rifiutata dalle neo-aristocrazie intellettuali. Così la Pop Art non ha circoscritto la secondarietà degli oggetti kitsch né ha equilibrato la relazione fra popolare tecnologico e popolare di tradizione artigianale, ma ha dimostrato, come pensò Argan, la non creatività delle masse popolari. Né risultati più soddisfacenti, sul piano di un diffusa comprensione sociale delle novità estetiche sembrano aver ottenuto le poetiche dello Hardware o del Software o del Minimalismo o della Body art o del Post moderno o della Transavanguardia, anche se quest’ultima è una presa d’atto intelligente della situazione attuale di crisi dell’estetica e della necessità del recupero del figurativo.

La stessa esaltazione come prodotto-produttore estetico del mezzo fotografico o del video digitale che aderiscono alla realtà o la sostituiscono o la rivelano, o che indagano il passato o il post-umano sconfina talora nell’estetismo tecnologico dell’operatore, senza smaterializzare tuttavia l’oggetto del prelievo tecnologico che rimane flagrante. In particolare, certe performances della Body Art, in cui corpo e intuizione dell’operatore estetico coincidono fino a limiti estremi matericamente autopunitivi se non addirittura mortali, scavalcano il simbolo celebrando una liturgia dello stupore o del risentimento, che si esaurisce nella flagranza della datità reale proposta con violenza.

Quando la Chiesa Cattolica, nella seconda metà del XVI secolo, in momenti di crisi a seguito dello scisma luterano, si allontanò dalla sua tradizione artistica fondata sulla riproduzione di modelli di bellezza naturale codificati nel mito, non riuscì a prevalere sulla riforma protestante che fece il suo corso come un fiume in piena. Ma decaddero le arti a Roma, ridotte, nell’ultimo trentennio del Cinquecento, con poche eccezioni, a mera propaganda figurativa di dogmi e misteri, cristallizzate in una sorta di ricorrente iconismo devozionale, pur tuttavia ricco di colori e di simboli, in cui fu minimizzata la raffigurazione del rapporto uomo-natura ma non la bellezza del disegno.

Fu certo una scelta contingente, dettata da circostanze estranee all’estetica, per tentare di arginare, con la comunicazione socialmente pervasiva dell’arte, l’intransigenza evangelica dei protestanti; fu tuttavia una scelta che sospese la grande tradizione artistica cattolica, sempre connotata da seducenti risultati formali, frutto della riflessione sulla realtà naturale e sulla bellezza. Una tradizione che aveva dato vita alle pitture e alle sculture di Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Angelico, Raffaello, Michelangelo, Donatello, e che affondava da più di un millennio le radici del suo splendore nei grandi cicli figurativi murali romani e nella scultura ellenistica; per esempio, il mosaico in Santa Pudenziana a Roma (inizi V secolo) e il gruppo del Laocoonte (40-20 circa a.C.).

Mosaico, Roma, abside della chiesa di Santa Pudenziana, fine del IV  – inizi V secolo

Ma il decadimento artistico non durò a lungo nella Chiesa dopo la riforma cattolica; la grande tradizione di un’arte fondata sulla rivalutazione dell’eredità classica e quindi della bellezza avrebbe vissuto una delle più felici stagioni. La grandeur delle “Glorie” barocche di Pietro da Cortona, Baciccio, Maratti, Andrea Pozzo su volte di chiese e palazzi avrebbe ristabilito il regno della bellezza artistica, in cui non si celebrò più la mortificazione della materia, ma si restituì all’uomo la certezza che Eros e Thanatos, sinonimi di luce e di tenebre, sono ambedue trascendimenti, se tradotti in forme artistiche, verso l’eternità.

Quanto al nostro tempo, esauritesi, dunque, ma non del tutto, come ha rilevato anche Jean François Lyotard, le grandi narrazioni metafisiche di Illuminismo, Idealismo, Marxismo, a seguito del dissolvimento di certezze e valori tradizionali con presa d’atto dell’esistenza di citazionismi o di frammenti del sapere, gli artisti potrebbero riflettere sul nesso coscienza-materia-spirito proiettato sulla sequenza architettura-pittura-scultura e sul significato simbolico del colore.[18] Ne potrebbe avere giovamento l’esercizio della fantasia sulla relazione uomo-natura, nella speranza che la concezione disinteressata di questo rapporto possa favorire la comprensione morale di quanto è gratuitamente ulteriore alla bellezza prodotta dall’arte.

Guardando infatti al passato, vediamo che, al cadere del XVI secolo, dopo le introversioni esistenziali e la contestazione alla tradizione classica a colpi di estremizzazioni formali da parte dei Manieristi, interpreti di un’epoca angosciata dal pensiero della disperata condizione dell’uomo, toccò ad un pittore, Annibale Carracci, il compito di risvegliare con storie del mito pagano in palazzo Farnese a Roma l’attenzione degli artisti per la natura che offre albergo all’amore e alla bellezza, esaltando nella successiva stagione del barocco il prorompere sensuale della materia nel fasto di una forma artistica dinamica, ridondante di colori.

L’idea di un’arte definita dalla forma, senza fini pratici ma con una finalità universalizzante e dunque (lo hanno sottolineato Pareyson e Von Balthasar), insostituibile momento ermenenutico della verità, non darà luogo, come pensava Benjamin, ad una teologia dell’arte, ma ad una conferma della distinzione, crociana se si vuole, del momento intuitivo da quello espressivo nel passaggio, teorizzato da Cesare Brandi, dal prelievo del dato esistenziale materico alla realtà pura dell’opera d’arte.[19]

Bellezza artistica e natura dunque come sinolo tra intuizione e ragione, amore e virtù, perché l’arte

«[…] è chiamata a rivelare la verità sotto forma di configurazione sensibile, è chiamata a manifestare quella opposizione conciliata […]».[20]

In prospettiva si profila anche il possibile riacquisto di una dignitosa fenomenologia umanistica della natura, accolta dall’uomo nell’oggettività consolatoria del suo essere insostituibile abitazione, perché è dal rapporto corretto con la natura che l’uomo ha costruito le culture utili per abitare il mondo rispettandone le verità palesi e i misteri. In proposito, ricordo questo pensiero di Gadamer:

«La bella natura è capace di suscitare un interesse e cioè un interesse morale. Il trovar belle le forme della natura conduce a pensare che è ‘la natura che ha condotto quella bellezza’. Ora, se tale pensiero suscita interesse, vuol dire che c’è una cultura del sentimento morale […] Che la natura sia bella è un fatto che suscita interesse solo in colui che ‘già prima ha ben fondato il suo interesse in ciò che è moralmente buono’. L’interesse per il bello di natura ‘è morale per parentela’ […]. In quanto esso riconosce lo spontaneo corrispondere della natura al nostro piacere scevro di ogni interesse, e quindi una mirabile finalizzazione della natura a noi, indica che siamo il fine ultimo della creazione, rivela la nostra destinazione morale».[21]

VIII Il tema della mobilità della bellezza e della presenza della natura, sinonimo del creato, nelle forme artistiche è stato avvertito costantemente dalla Chiesa cattolica; fra disorientamenti e difficoltà esegetiche sul piano teologico, pedagogico e morale, accentuatisi dagli anni Sessanta del secolo scorso, essa non ha tuttavia abbandonato la sua tradizione estetica, continuando a ritenere la bellezza il riflesso perspicuo ed ontologico dell’assoluto che solo gli artisti sanno rappresentare sia con la figuratività che con l’astrazione, purché in piena libertà creativa e con l’aspirazione all’universalità e alla verità che non conosce confini.

In tal senso restano fondamentali tre documenti pontifici rivolti agli artisti da Paolo VI (1964), Giovanni Paolo II (1999), Benedetto XVI (2008) e un’Enciclica (2015) di Francesco. Il primo, già ricordato (cfr. supra, nota 9), di Paolo VI, è ricapitolativo dei rapporti storici fra Chiesa ed artisti, in cui particolarmente significativo è il passo dove il papa diceva: «[…] questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza come la verità è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione».

La Lettera agli Artisti, di Giovanni Paolo II assolutizzava il valore della bellezza, centro della vita e della fede, dell’arte: «La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente», aggiungendo che la bellezza è la vocazione rivolta all’uomo dal creatore con il dono del talento artistico. Su questa scia il cardinale Paul Poupard, a lungo Presidente del Pontificio della Cultura e del dialogo interreligioso, ha delineato in varie sedi una intensa pastorale della cultura, in cui il pensiero della bellezza, sostanziato dalla fede e dalla riflessione filosofica, è viatico eletto nel viaggio lungo la via pulchritudinis.

L’ultimo documento è il Messaggio alla XVI seduta pubblica delle Accademie Pontificie, di Benedetto XVI, in cui il papa teologo ricordò l’indispensabile unitarietà di bellezza, verità e bontà, sottolineando:

«Una ragione che volesse spogliarsi della bellezza risulterebbe dimezzata, come anche una bellezza priva di ragione si ridurrebbe ad una maschera vuota ed illusoria».

Infine, il pensiero della bellezza, artistica, naturale, morale, teologica, è stata evocata da Francesco con dovizia di argomentazioni già nel terzo anno del suo pontificato, in un documento sistematico, già ricordato in questo scritto, l’Enciclica del 24 maggio 2015, emblematicamente intitolata Laudato si’, in cui si sottolinea, fra l’altro, la minaccia da parte del consumismo nei confronti

«del patrimonio storico, artistico e culturale […] parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile […]».[22]

Questa enciclica, “francescana” nel duplice senso del termine, si conclude in chiave lirica con due preghiere di intensa suggestione per la nostra terra e con il creato, nelle quali il papa, dopo aver evocato la parola bellezza per tre volte, il numero ecumenico perfetto, la richiama una quarta volta come sigillo onomastico alla sequenza giustizia. pace, amore.

Vitaliano TIBERIA  Roma 19 Marzo 2023 IV Domenica di Quaresima

Presidente Emerito della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon,

*Lessi una prima ridotta versione di questo argomento il 25 novembre 2008, in Vaticano, in occasione della XIII seduta pubblica delle Accademie Pontificie, dal titolo Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto.

NOTE

[1]   P.A. Florenskij, Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, a cura di, N. Valentini e A. Gorelov, Torino 2007, p. 206. Una suggestiva analisi in chiave estetica del corpo e in D. Formaggio, Arte, Milano 1973, pp. 86-111; sulla ricchezza di significati e sull’ambivalenza del corpo si veda U. Galimberti, Il Corpo, Milano 2002. 
[2] Questa posizione di Heidegger è ora discussa da G. W. Bertram, Arte. Un’introduzione filosofica, Stuttgart 2005, ed. italiana Torino 2008, pp. 108-122.
[3] C. Brandi, Carmine o della Pittura, ed. Torino 1962, p. 189.
[4]L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, 1988, ed. Milano 2002.
[5] W.Benjamin, L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1955, ed. ital. Torino 1966, p. 29.
[6]  H. G.Gadamer, Verità e metodo, ed. ital. a cura d1 G. Reale e G. Vammo, Milano 2000, p. 103.
[7] W. Worringer, Abstraktion und Einfülung, tesi di dottorato, 1908.
[8] Sull’argomento si veda AA.VV. Introduzione all’estetica analitica, a cura di P. D’Angelo, Bari 2008, p. 13 e segg.
[9] Th. W. Adorno, Aӫstetische Teorie, Frankfurt am Main 1973, ed ital., E. De Angelis, Torino 1977, passim.
[10] E’ la posizione di J. Levinson, discussa da Paolo D’Angelo, op. cit., pp.24-30. Nel magistero della chiesa cattolica, l’attenzione all’accessibilità e alla comprensione dell’arte ha uno spazio significativo. In tal senso si ricordi il Discorso agli Artisti, pronunziato da Paolo VI nel 1964 emblematicamente nella Cappella Sistina; in particolare laddove il papa ricordava che è prerogativa degli artisti quell’ Einfülung  volta a far «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità», senza scadere tuttavia nei surrogati dell’immagine e nell’oleografia, dove, sottolineò Paolo VI, «l’arte e la bellezza e – ciò che è peggio per noi – il culto di Dio è stato male servito».
[11] Sull’argomento segno ed esperienza si veda G.W. Bertram, Kunst Eine philosophische Einfuhrung, Stuttgart 2005, ed. ital. Torino 2008, passim, ma in particolare pp. 79-116.
[12] R. Dottori, L’arte e il gioco dell’esistenza, Roma 2007, p. 42. Ma si veda anche l’analisi dell’arte contemporanea di R. Barilli, L’arte contemporanea. Da Cezanne alle ultime tendenze. Nuova edizione, Milano 2005; e ancora D. Riout, L’arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, Parigi 2000, ed ital. Torino 2002.
[13] L. Zoja, Giustizia e bellezza, Torino 2007, p.45.
[14] D. Formaggio, op. cit., pp. 114-115.
[15] C. Brandi, La fine dell’Avanguardia, 1949, ed. a cura di P. D’Angelo, Macerata 2008.
[16] P. D’Angelo, Brandi dopo la fine, in C.Brandi, La fine dell’Avanguardia, cit., p. 13.
[17]  C. Brandi, Le due vie, Bari 1970, p. 140.
[18] J. F. Lyotard, La condition postmoderne: rapport sur le savoir, 1979, trad. ital. D. C. Formenti, La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Milano 1981.
[19] W. Benjamin, cit., p. 26; C. Brandi, op. cit.,1962, pp. 32-33, 47-48; Idem, Le due vie, cit., 1970, p. 55 e segg.; Idem, Teoria generale della critica, Torino 1974; H.U. von Balthasar, La percezione della forma, Gloria, Einsiedeln 1971, ed. ital. Milano 1971, soprattutto pp. 9-35.
[20]  G.W. F. Hegel, Ästhetik, ed. ital. N. Merker, Torino 1967, pp. 66-67.
[21]  H.G. Gadamer, Wahreit und Methode, 1960, ed. ital. consultata    Verità e metodo, Milano 2001, pp. 125.
[22]    Laudato si’, 24 maggio 2015, Guida alla lettura di Carlo Petrini, città del Vaticano 2015, ed. Libreria Editrice Vaticana.