I pavimenti “a tutta caccia” del Monastero palermitano di Santa Chiara: eccellenti decorazioni in un edificio da recuperare.

di Rosario DAIDONE

La storia della maiolica, che tra le arti cosiddette minori ha riconosciuta sussidiarietà testimoniale e privilegio di coniugare artisticamente forme e pittura d’inossidabili colori, è disciplina che necessita di ricerche particolari.

Ma i documenti d’archivio, gli atti notarili degli impegni e delle forniture che si riferiscono agli antichi pavimenti di maiolica dipinta ignorano spesso autori e descrizioni anche quando si tratta di opere di pregio che erano frequenti dal Quattrocento al Settecento nei palazzi nobiliari, nelle chiese e nei conventi siciliani. Trattandosi di opere a cui l’architettura e la storia dell’arte dedicano crescente attenzione, conoscere i fornitori e l’esatta cronologia degli impiantiti sopravvissuti è un’esigenza quasi sempre difficile da soddisfare, tanto che i pareri e le attribuzioni contrastanti nell’ambito degli studi della materia sono più frequenti di quanto si possa immaginare. E’ stata quindi una fortunata congiuntura capace di suscitare una certa soddisfazione trovare nell’Archivio di Stato di Palermo il documento inedito di un’opera pavimentale ancora esistente rimasta a lungo priva d’indagine.

Si tratta di una testimonianza del XVII secolo, emersa dal fondo notarile, relativa a due pavimenti che contemplano paesaggi e personaggi (“a tutta caccia”) in un filo narrativo esistenti nel Monastero di Santa Chiara, sito nel quartiere dell’Albergheria, scampati a varie vicissitudini compreso il terremoto del 1726 che produsse gravi danni alle strutture dell’edificio (N0ta 1). Sfuggiti agli studi più accreditati e, soltanto per indizi, erroneamente associati nel 1997, nel Catalogo della Mostra sul Terzo Fuoco a Palermo, (Nota 2) agli impegni del decoratore Nicola Sarzana che nel 1776 si era invece occupato di dipingere il pavimento del refettorio dello stesso monastero e della chiesa sostituito col marmo negli anni Cinquanta del secolo scorso di cui resta un modesto inapprezzabile lacerto dietro l’altare maggiore.

I pavimenti del dormitorio delle Clarisse, sopravvissuti fortunatamente in due celle, che oggi ad evitarne il crollo sono puntellate dal piano sottostante, restituiscono solo in parte l’originaria bellezza a causa dell’usura che svela in diverse zone il rosso ferroso dell’argilla palermitana, ma non per questo da condannare alla perdita in quanto essi sono ancora nelle condizioni di godibile fruizione e in grado di sollecitare il fascino della loro preziosa fattura. (Fig. N° 1 disporre in orizzontale)

Fig 1

Nelle due opere, articolate cornici spugnate di verde e contornate di giallo si intersecano con altre più sottili di colore azzurro e inquadrano disegni a graticcio, stilizzate cornucopie di frutta e fiori secondo i gusti e la moda del periodo.  (Fig. N° 2)

Fig 2

Il tema centrale della caccia al cervo, che caratterizza i due commessi, ha impostazione scenografica simile. In entrambi il cacciatore a cavallo con i cani inseguono l’agile cerbiatto; conigli fuori pericolo, simbolo di pace e prosperità, tranquillamente brucano l’erba mentre intrecciati canestri di paglia ricolmi di frutta che fanno da controcanto al dramma ricordano le nature morte delle tele. Case, disegnate in monocromia azzurra di ascendenza ligure, negli angoli. (Fig. N° 3)

Fig 3

Le cornici, escluse dal calpestio, corrono intatte lungo i muri delle due stanze a delimitare con incisiva eleganza gli impiantiti: un festone di foglie verdi con raccordi e nastri gialli – ricordo di antiche insistite robbiane – nella prima cella, grandi foglie ricorrenti azzurre e verdi nell’altra.  (Fig. N° 4)

Fig 4

In una delle due opere il cacciatore sul cavallo morello che corre al galoppo contro vento, la spada pronta a colpire, si affaccia improvvisamente sulla scena dominata da un grande albero cui si dirige ad ali spiegate un uccello variopinto. Due veltri ansanti sono vicini, ma la preda sembra irraggiungibile e sta per mettersi in salvo nell’intrigo degli alberi e le macchie del folto. Una sapiente dinamica scena teatrale osservata attraverso le quinte di una finestra dalla cornice azzurra, un’istantanea del dramma in cui i protagonisti improvvisamente appaiono e velocemente sembrano scomparire alla vista come in uno di quei giochi ad effetto in cui il “secolo della meraviglia” si provava smanioso di riposte allusioni allegoriche giacché, per suggerita ipotesi, il cervo come simbolo di Cristo è motivo ricorrente nell’iconografia religiosa. (Fig. N° 5)

Fig 5

Osservata più da lontano nella scena del secondo pavimento, il cervo, inseguito dal cacciatore sul cavallo bianco ha movenze eleganti di antiche pitture, aspetto dorato d’acquamanile medievale. Un albero inarcato dal vento, un uccello pigro sul ramo e azzurre montagne all’orizzonte. La bestia innocente sfugge anche qui illesa al feroce cacciatore nel vago significato allegorico che similmente questa scena sottende. (Fig. N° 6)

Fig 6

La fornitura delle due opere fu affidata all’officina palermitana intestata ad Antonino Di Leo che è corredata da concomitanti notizie archivistiche relative ad altre testimonianze materiali e cartacee che la riguardano.

Aveva da poco compiuto diciotto anni Antonino Di Leo quando il 3 aprile del 1628 sposava la fanciulla Rosana di dodici rimasta orfana di Giuseppe figlio del defunto mastro Antonino Oliva proprietario della prestigiosa bottega aperta sin dalla fine del ‘500 nella strata delli stazzoni dove ci è la immagine di San Giuseppe, officina attiva nelle forniture pubbliche e private di pavimenti istoriati e vasellame maiolicato per le spezierie siciliane quando per i loro corredi vascolari non erano più dipendenti dalle importazioni operate dai mercanti genovesi, in regime di monopolio, nel corso del XVI secolo.

Antonino Di Leo, per i diritti ereditati dalla moglie Rosana, era diventato socio del maestro nasitano Paolo Lazzaro, che aveva a sua volta sposato Isabella, figlia del vecchio proprietario Oliva. Alla società che si era costituita non mancavano le commesse, anche di mattoni smaltati alla moda come quelli, “a mustazzola (romboidali) dipinti di verde bianco e nero” – simili agli esemplari della stessa forma e colore allestiti per la Badìa palermitana di Montevergini – che nel 1633 furono inviati attraverso impervie mulattiere nel lontano paese d’Isnello sulle Madonie.

Fig 7

Morto nel 1638 il socio nasitano, Antonino Di Leo, rimasto unico conduttore dell’impresa, era impegnato nella fornitura di pavimenti dipinti per il Palazzo Reale e apprestava nel 1657 centinaia di mattonelle di censo con l’immagine dell’anima purgante per l’Unione Miseremini della Chiesa di San Matteo del Cassaro di cui sopravvivono -altra felice coincidenza – alcuni esemplari in collezioni private e nel Museo Diocesano di Palermo (FIG. N° 7 anima purgante).

Nel 1669, in concorrenza con la fabbrica Cosentino che si aggiudicava la copertura della guglia, Antonino Di Leo vinceva la gara d’appalto indetta dal Senato per la fornitura del pavimento della stanza sulla Porta Nuova disegnato dell’architetto Gaspare Guercio, quella stessa camera in cui erano avvenuti alla fine del Cinquecento gli incontri furtivi tra il viceré Marcantonio Colonna ed Eufrosina Corbera.

Fig 8

Sono soltanto alcune delle numerose commesse che attestano il prestigio di cui godeva l’officina Di Leo nella seconda metà del Seicento e che orientarono, secondo l’atto notarile del 31 ottobre 1684, la scelta del Monastero di Santa Chiara per la realizzazione dei pavimenti ricchi di particolari progettati probabilmente dall’architetto Paolo Amato (1634-1714) impegnato dal 1678 nei restauri del Convento. (FIG. N° 8 Immagine di Paolo Amato)

Dopo le vicissitudini che nel corso dei secoli hanno sconvolto le antiche costruzioni della città, risparmiati dalle bombe che nel secondo conflitto mondiale colpirono il Monastero distruggendone parzialmente la chiesa, i due pavimenti costituiscono un raro esempio di impiantiti secenteschi formati da 3.680 mattoni di 18 centimetri di lato allestiti, come recita l’atto notarile,

per servizio delli celli del nuovo dormitorio nuovamente fatto e per li passi delli detti celli”. (camere e relativo corridoio, ndA) “quali l’habbiano d’essiri bene magistribilmente fatti ben stagnati et pinti” (Cfr. nota 1).

Due mesi di lavoro, a cominciare dal 31 ottobre, per una fornitura che lo stazzone di Antonino di Leo doveva consegnare puntualmente ai muratori in diverse rate e completare immancabilmente entro il 24 dicembre di quell’anno.

I pavimenti furono un singolare dono per le clarisse che con i fratelli francescani condividevano l’amore per la natura; innocente riservata bellezza di scenografiche finzioni, memoria e conforto della perduta campagna, nostalgia delle allegre brigate nelle lunghe residenze estive quando, fanciulle predestinate, vivevano ancora in famiglia. (FIG. N° 9)

Fig 9

Gli accordi stabiliti nella fornitura prevedevano, fatta salva “la portatura” a carico del Monastero, il prezzo di once 1 e tarì 10 ogni centinaio di mattoni. Una spesa complessiva considerevole di 42 once e 10 tarì netti che copriva fatica, cartoni e colori occorrenti alla complessa stesura pittorica nonché l’impegno d’assistere i muratori all’”appatto” dei mattoni numerati sul verso nel complicato svolgimento del disegno.

Per fornire alcuni elementi di paragone relativi all’enorme prezzo pagato dalla badessa del tempo Lorenza Ventimiglia è opportuno riferire che all’inizio dello stesso secolo il nasitano Geronimo Lazzaro, anziano fratello del Paolo citato, aveva decorato i pavimenti di un “salone e camerone” del Palazzo Reale (non più esistenti) per 24 tarì il centinaio; nel 1630 un addetto, esperto di  smalti come Andrea Pantaleo quando decorava mattoni per il monastero di Santa Caterina veniva retribuito a tarì 17 per ogni migliaro; Lo stesso Di Leo aveva ricevuto per la citata fornitura d’Isnello 24 tarì ogni cento mattoni.

Erano tempi in cui un curioso documento notarile del 1657, testimonianza di antichi vezzi cittadini, informa, a beneficio dei raffronti retributivi, che un operaio riceveva il misero salario di un’onza e 10 tarì l’anno dai Gesuiti palermitani per

non far fare sporchezze da picciotti, bottare mondizza, né altre lordezze nel piano della Casa Professa et sempre mantenerlo limpido.

 Un’onza di Sicilia equivaleva a 30 tarì: un tarì a 20 grani, un grano a 6 denari.

Per quanto concerne l’autore dei due impiantiti appare improbabile che il pittore di un’opera così ricca di particolari come è quella dei pavimenti del Monastero delle clarisse, sia stato lo stesso titolare della bottega, Antonino Di Leo, di cui notizia di pittura praticata non è giunta. Sicché individuare con certezza documentale l’esecutore della pittura dei due pavimenti è impresa pressoché difficile dal momento che generalmente le carte notarili non restituiscono alcun riferimento in merito, fatta eccezione per alcune figure di spicco come Andrea Pantaleo che nei primi trent’anni del secolo XVII firmava diverse maioliche di spezieria pervenute, come Filippo Passalacqua e pochi altri, compreso Diego Di Leo, fratello del nostro Antonino, di cui è nota una boccia di spezieria autografa.

Una risposta al silenzio delle carte si potrebbe trovare nell’ipotesi che i pittori di pavimenti generalmente lavorassero per diverse officine della città reclutati “alla bisogna” senza impegni scritti, ma nel caso dei pavimenti di Santa Chiara tutto lascia pensare che ad eseguire la pittura ad libitum del disegno fornito dall’architetto sia stato con ogni probabilità lo stesso Diego (che scomparirà nel 1673) il fratello di Antonino titolare dell’impresa, ma non autore della decorazione. (Fig. N° 10 Part.)

Fig. N° 10 part di Fig. N° 6

Un intervento di restauro di cui l‘intero Monastero urgentemente necessita -sede oggi dei Salesiani che si occupano dei ragazzi del quartiere popolare dell’Albergheria – potrebbe restituire alla storia dell’arte e del costume un monumento di notevole interesse di cui si conosce ormai il fornitore dei pavimenti, il probabile ideatore e l’anno di fabbricazione (nota N° 3). (Fig. N° 11 cortile e Finestre del dormitorio del Monastero)

Fig 11

Ulteriori ritardi potrebbero destinare l’opera, attestazione non secondaria di valori culturali e artistici appartenenti al nostro passato, ad una irrimediabile perdita nel desolante colpevole abbandono dei diversi edifici del centro storico palermitano.

Rosario DAIDONE  Palermo 11 Febbraio 2024

NOTE

(1) 1684 (31 ottobre) Not. Salvatore Miraglia, Vol. 428, f. 391
Mastro Antonino Di Leo stazzonaro civis huius felicis urbis Panormi si obbliga e pelli matri sorori Lorenza Ventimiglia abbatissa del Ven. Monastero di Santa Chiara di questa città a tutte spese e attratto e magisterio de lo ditto Di Leo fare tutta quella quantità di maduni di valenzia che il detto ven. monastero haverà di bisogno per servizio delli celli del nuovo dormitorio nuovamente fatto e per li passi delli detti celli quali l’habbiano d’essiri bene magistribilmente fatti ben stagnati et pinti giusta la forma della mostra tiene detta reverenda abbatissa s’obbliga quelli detto Di Leo consignare de hoggi innanti et successivamente continuare per tutti li 24 di dicembre p.v. dell’anno presente, VIII indizione innante posti in detto monasterio, itache la portatura l’habbia di pagare il detto Ven. Monasterio di patto. Et hoc pro pretio ad rationem once 1 e tarì 10 singolo centinario. Detta abbatissa promette di solvere a detto Di Leo consignando solvendo. Con patto che essendoci ciascheduno di mala qualità rutto e mal stagnato in tal caso quelli possa rifiutare di patto.
Testi Pietro Ventimiglia e Salvatore Aloysio Giuliana. (trascrizione dell’autore)
(2) Cfr. Terzo Fuoco a Palermo, (Cat. a cura di L. Arbace e R. Daidone)  Mostra tenuta a Palazzo Abatellis dal 12 aprile al 29 giugno del 1997; A. Lombardi ed.
(3) Le immagini fornite si riferiscono alle parti salienti della decorazione poiché, date le condizioni di precarietà in cui versano i due pavimenti non è stato possibile, per motivi di sicurezza, fornire la visione intera.