“Gli animali nell’arte”. Tra fonti antiche e interpretazioni simboliche o cristologiche una raccolta d’arte alla Galleria Ars Antiqua (Mi, fino al 20 luglio).

di Giulia GHILARDI

Giulia Ghilardi, nata a Bergamo, è una giovane storica dell’arte laureata prima in legislazione dei beni culturali e poi in arte medievale magistrale presso la Universita Statale di Milano, con una tesi su I mosaici della basilica di Santa Prassede in Roma, indagandone gli aspetti iconografici e iconologici. Attualmente sta proseguendo gli studi con la Scuola di Specializzazione in beni storico-artistici presso la stessa Università, approfondendo le ceramiche mediobizantine. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con About Art.

“Gli animali nell’arte”

Ars Antiqua,

via Carlo Pisacane 55-57 12-20 luglio 2023

Federico e Francesco Bulgarini, titolari della galleria Ars Antiqua, accompagnano gli appassionati di arte in un viaggio nel mondo dell’iconografia animale, declinandola tra pittura e scultura, in un susseguirsi di esempi dal Rinascimento sino al XVIII secolo.

Il richiamo ammaliante della potenza animale ha da sempre assunto nel mondo dell’arte una supremazia che, storicamente, è stata offuscata dalla visione antropocentrica applicata a qualsiasi altro ambito. Dalle venationes antiche allo sviluppo di un loro corrispettivo mitologico, inteso a coronare l’uomo di sovrumana forza e prestanza se avesse sconfitto l’alterità animale, nel mondo dell’arte è possibile parlare di una vera e propria etologia pittorica, richiamante a sé in ogni tempo un appassionato successo di mecenati, pubblico e critica.

Alla base di questa esplosione coloristico-disegnativa sono implicite protagoniste le fonti antiche reinterpretate attraverso gli specchi crescenti di cristianesimo, neoplatonismo e poetica arcadica poi: dal classico Aristotele conosciuto attraverso la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, sino alla cristiana traduzione interpretativa dei primi bestiari, tra i quali è il Physiologus di II o III d.C. Grazie al sapere medievale le figure animali vennero insignite di diversificati valori simbolici e fiorì un concomitante e vasto repertorio allegorico. Dopo il De Universo di Rabano Mauro (IX sec.), le definizioni brillanti come arabeschi del dotto Isidoro di Siviglia, comparse nel libro XII di quella che può essere considerata la prima enciclopedia del mondo occidentale, le Etymologiae sive Origines, consegnarono agli artisti moderni lo spunto per nuove interpretazioni figurative: in latino si sarebbe parlato di animalia o animantia, in quanto gli animali sono esseri animati dalla vita e mossi dallo spirito; gli animali selvaggi, in particolare leoni, leopardi, volpi, cani e lupi avrebbero invece ricevuto la miglior definizione di ‘bestie’ in riferimento alla vis, la vera forza, mentre le ‘fiere’ feruntur, ossia si lasciano trasportare dal loro desiderio.

Maestro di Serumido, Gesù Bambino e San Giovannino

La mostra offre un prontuario figurativo di arte moderna relativo al lessico animale e alla sua realtà evocativa e affascinante: si parte da un olio su tavola (cm 67 x 49) con Gesù Bambino e San Giovannino, che suggella nell’immediato l’incontro con uno dei rappresentanti tardorinascimentali campioni nella Firenze cinquecentesca, il Maestro di Serumido.

Pittore italiano, altrimenti anonimo, forte di uno stile rarefatto e simbolicamente magico, il Serumido conobbe un sincero apprezzamento in seguito a un suggerimento dello Zeri (Eccentrici fiorentini II, in Bollettino d’arte, 1962, 4, pp. 318-326) che ne illuminò per primo l’indomabile espressionismo per accertarne le competenze e i dati biografici.

In un primo tempo ritenuto quell’Aristotele da Sangallo che fu sodale del Raffaello, il Maestro di Serumido deve il nome all’iconica pala d’altare con Madonna con Bambino in trono, santi e angeli conservata nella Chiesa di San Pier in Gattolino, detta appunto di Serumido in onore di un possidente che ne destinò generosi fondi per la ricostruzione. Educato alle gentili pennellate di Ridolfo del Ghirlandaio e del Bachiacca, il Maestro si lasciò pervadere da un leonardismo in certa misura esotico, qui riscontrabile nei volti del Bambino e del San Giovannino. L’agnellino mesto e dolce ad un sol tempo che questi abbraccia, orgogliosa prefigurazione della salvezza umana, e il cardellino metaforicamente screziato del sangue del Figlio predestinato, il cui nome richiama anche l’albero di cardo di cui era fatta la corona di spine del Figlio, rappresentano massimamente l’eccellente ruolo simbolico e rituale degli animali, immancabili protagonisti delle prove del Maestro, come già era accaduto nel San Michele Arcangelo con San Raffaele Arcangelo della pieve di S. Severo a Legri (Calenzano, Firenze), impreziosito dall’algido cagnolino che muove silenziosamente a lato di Raffaele.

Maestro di Serumido, San Michele Arcangelo con San Raffaele Arcangelo ( e part.), pieve di S. Severo a Legri (Calenzano, Firenze)

 

Giovanni Crivelli detto il Crivellino, Caccia al Cervo

Altrettanto esemplificativa di una nuova stagione pittorica italiana, stavolta lombardo-padana, risulta la coppia di dipinti ascrivibili con cristallina certezza formale e documentaria a Crivellone e Crivellino, padre e figlio invidiati animalisti.

Giovanni Crivelli detto il Crivellino,  Caccia al Cervo, Castello Ducale di Agliè (Torino)

La Caccia al cervo (87 x 113) superbamente dipinta dal figlio, Giovanni Crivelli detto il Crivellino (Milano, ?-Parma, 1760), era già stata pubblicata in F. Arisi, Crivellone e Crivellino, Piacenza, edizioni TIP.LE.CO, 2004, p. 565, fig. 157. Mossi i primi passi artistici nella bottega paterna, il Crivellino ne mutuò la tematica animalista collaborando ad un certo punto con il piacentino Boselli tra il 1721 e il 1732 (F. Arisi, F. Boselli, Piacenza 1973, pp. 63, 90); le prove pittoriche del giovane si rivelarono sin da subito impressionanti se quell’analisi psicologica animale e il gusto virtuosistico totalmente nuovo che andava mostrando furono lestamente accolte dai Savoia. Del 1733 è infatti la testimonianza dell’attività del figlio, con padre al seguito, entro il registro dei conti di Stupinigi in cui si rimanda ad un pagamento di 160 lire per gli otto paracamini  del salone centrale della palazzina di caccia, accordato con il soprintendente alla decorazione Iuvarra (N. Gabrielli, Museo dell’arredamento, Stupinigi, Torino 1966, pp. 28 s., 90).

Già accostata dall’Arisi ai Due cani che sorvegliano la selvaggina della Narodna Galerija di Lubiana così come alla cacciagione di collezione piacentina e ai pendants di collezione Steffanoni di Bergamo, la presente tela si riflette nell’omonima caccia  custodita presso il Castello Ducale di Agliè (Torino), calibrata stavolta dalla consistente distribuzione materica delle liquide, luminose velature screziate sul manto degli animali, guizzanti sul pelo dei cani e sublimate nel sacrificio del cervo. I cani, probabilmente degli incroci tra segugi, essendo all’epoca quella del segugio una razza non definita e risultando i presenti canidi del tipo ‘caccia a correre’, sono una dirimente dimostrazione dell’eccezionale bravura di uno dei migliori animalier del Settecento (L. Beltrame, Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco, a cura di M. T. Fiorio, Milano, pp. 73; 77, nn. 860 – 861).

Angelo Maria Crivelli, detto il Crivellone, Tacchino, due galline e gallo intorno a un canestro di fiori

Debitore dei modi dei fiamminghi Frans Snyders, Paul de Vos, Jan Fyt e David de Conninck risulta anche il padre Crivellone, nato Angelo Maria Crivelli (attivo a Milano tra il 1690 e il 1730), che Ars Antiqua idealizza nel Tacchino, due galline e gallo intorno ad un canestro di fiori (cm 113 x 147). Già in collezione privata presso la città di Ospedaletti, questa eccezionale tela è ancora una volta pubblicata dall’Arisi (p. 130), seppure con un titolo diverso (“tacchino e tre galline”,  p. 206). Luminismo e sinfonico brio figurale racchiudono in una perfetta composizione pennuti e bouquet floreale, virtuosisticamente facente eco ai bargigli degli animali, ma di secondaria importanza rispetto alle febbricitanti piume di questi, protagonisti indiscussi dello spazio bucolico. Collezionato da piccola nobiltà ed alta borghesia, il Crivellone vantò una posizione di rilievo nelle quadrerie Arese (F. Arese, Una quadreria milanese della fine del ‘600, «Arte lombarda», XII[1967], 1, pp. 130, 139), Attendolo Bolognini, Guasconi, Tarii, Casati, Visconti di Saliceto, Ala Ponzone, Carrara (Luisa Tognoli Bardin, ‘Crivelli’, Angelo Maria, detto il Crivellone, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 31, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1985). Il prontuario generista del Crivellone, assiduamente preparato alla decantata resa di uccelli da cortile, giardino e radura boschiva, concorre ad accostare al dipinto sopracitato altre esemplari tele, come Pollame e roditori (Stupinigi, Palazzina di caccia), nonché Gallo con galline e pulcini del Castello di Santena.

Angelo Maria Crivelli, detto il Crivellone, Pollame e roditori, Stupinigi, Palazzina di caccia
Felice Boselli, Mercante di pesci

Per nulla equivoco nell’ambito del naturamorfismo fu anche il disincantato apprezzamento nei riguardi delle composizioni con pescato fresco e figuranti, restituente una vivace fotografia dei lavori di genere, di più o meno esplicitata derivazione campesca. Felice Boselli (Piacenza, 1650 – Parma, 1732), impugnò con estremo realismo la restituzione filamentosa e plastica di qualsiasi tipologia ittica, come accade con il Mercante di pesci  qui offerto (cm 96 x 75). Lo scaltro sorriso della donna e l’ammaliante paesaggio non possono nulla in confronto alla perizia lenticolare con cui l’artista restituisce l’anguilla torcentesi in spire serpentine e i due splendidi esemplari di luccio (esox lucius), estremamente naturalistici al filo della maniera (S. Proni, Felice Boselli, in Natura Morta italiana, tra Cinquecento e Settecento, catalogo della mostra a cura di M. Gregori e J. G. Prinz von Hohenzollern, Milano 2002, p. 400 e 464, con bibliografia precedente; F. Arisi, Felice Borselli pittore di nature morte, Roma 1973, ad vocem).

Francesco Malagoli, Nature morte con uva, frutta, fiori, funghi verdure e animali entro paesaggi

L’amenità del paesaggio funge da paradisiaco fondale anche per la serie di quattro tele con Nature morte con uva, frutta, fiori, funghi, verdure e animali entro paesaggio (cm 63 x 77,5 cad.) eseguite da Francesco Malagoli (attivo nel tardo XVIII secolo). Pittore modenese, documentato tra il 1777 e il 1779, (s.v. Francesco Malagoli in La natura morta in Italia, a cura di Federico Zeri, Milano 1989, I, pp. 434-35), il Malagoli fu silente autodidatta; si distinse tra i contemporanei per la sua eccellenza nel dipingere “fiori, frutte, uccelli e singolarmente delle uve tanto vere da ingannare chiunque”, esposte per la prima volta in occasione della festa del Corpus Domini  del 1776, cui partecipò in ragione dell’apprendistato religioso svolto presso l’Ordine Carmelitano, ottenendo il plauso bolognese (M. Oretti, Aggiunta di Notizie Istoriche di molti Professori di Pittura…, ms. XVIIII, Biblioteca Comunale di Bologna, ms. B. 144, cc.4,11). L’interpretazione coloristica fiabesca, qui sugellata anche dalla perizia del Prof. Alberto Crispo, rivela la spasmodica attenzione provata dall’artista nei confronti del conterraneo Felice Rubbiani, proprio nell’istante in cui il figurativismo del figlio Bernardino lo andava  imitando maggiormente. I presenti dipinti apparecchiano catini colmi di profumata uva, piccioni, grondanti angurie spaccate a metà, funghi, un grazioso ermellino, un colorato galletto tra un melone e un cesto d’uva sormontato da un melodioso uccellino, altri uccelli e un morbido coniglio.

La stagione naturamorfista napoletana aprì un ampio ventaglio sul soggetto a tema ittico e anche pastorale, intendendo elogiare contemporaneamente il leggiadro mondo arcadico e l’opulenza del mercato partenopeo, in grado di soddisfare qualsiasi richiesta aristocratica. Gli allievi di Luca Giordano avevano raccolto una lezione che andava oltre la semplice restituzione del dato artistico, intendendo organizzare in una narrazione ricca di pathos e dettagli-colpi di scena una rinnovata sensibilità per una pittura capillarmente ricolma di minuzie e cromaticamente trionfante di tonalità calde.

Giuseppe Ruoppolo, Natura morta con stoviglie di rame, seppie e ostriche

La Natura morta con stoviglie di rame, seppie e ostriche (cm 102 x 152)  di Giuseppe Ruoppolo (1630 ca.-1710), periziata ancora una volta da Alberto Crispo e figurante in Fototeca Zeri, figurava un tempo come pendant  di  una tela dispersa organizzante sonanti stoviglie ramate, recante la firma dell’artista. Della predilezione del Ruoppolo per le vettovaglie in rame lasciò traccia scritta Bernardo De Dominici, prezioso biografo immancabile testimone della scena artistica napoletana, il quale testimoniò che l’artista “dipinse (…) ad imitazione del suo Zio Gio. Battista cose di Rame” (Vite de’ pittori, scultori, ed architetti napoletani, III, Napoli 1743, p. 299). Allievo di Paolo Porpora e collega del Salvator Rosa, l’artista seppe padroneggiare l’influsso catalizzatore di Luca Forte, esponente della bottega di Aniello Falcone, che in origine aveva inteso dare risalto ad uno spettacolarismo caravaggesco (G. De Vito, Giuseppe Ruoppoli (o) contemporaneo di Giovanni Battista, in Ricerche sul ‘600 napoletano. Saggi e documenti, Napoli 2005, pp. 7-26; A. Della Ragione, La natura morta napoletana dei Recco e dei Ruoppolo, Napoli 2009, p. 24, n. 122).

Giuseppe Ruoppolo,  Natura morta con stoviglie di rame, ubicazione sconosciuta

La convinzione di Roberto Longhi che non occorresse vagliare quel mezzo secolo di arte napoletana precedente a Luca Giordano per intendere criticamente l’estro dello stesso Giordano, dimostra il pari debito del dipinto offerto da Ars Antiqua, opera di Niccolò Rossi (1647-1702) suo allievo, nei riguardi dell’ancora scottante esplosione coloristica barocca legata più alla “bonaccia dei veneziani” che non alle proposte formali partenopee (Roberto Longhi, Recensione a E. Petraccone, Luca Giordano ecc., in “L’Arte”, XXIII, 1920, pp. 92-95 ripubblicato in Scritti giovanili, Firenze 1961, I, pp. 455-460). Questo Paesaggio arcadico con viaggiatori, pastori e animali (cm 205 x 295), periziato da A. Crispo e firmato in basso a sinistra “NRosso. F”, racconta un gremito spostamento di  greggi e armenti, icasticamente pacifici e di sublime pace compositiva, di sorprendente grazia nella loro commovente mitezza.

Luca Giordano, Rappresentazione mitologica dell’agricoltura, Londra, The National Gallery
Nicola Rossi, Paesaggio arcadico con viaggiatori, pastori e animali

Di comune accordo, il De Dominici (Bernardo de Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, IV, Napoli 1846, pp. 198-200) e il Pavone (Mario Alberto Pavone, Pittori napoletani del primo Settecento. Fonti e documenti, Napoli 1997, pp. 98-101) testimoniano di mano dell’artista un’affastellata costellazione di dipinti quasi tutti concentrati nella capitale del Viceregno. All’interno della “Vita del cavalier D. Luca Giordano, pittore; e de’ suoi discepoli” (p. 126 ss) il De Dominici riporta che

Nicolò Rossi napolitano, fu oltremodo spiritoso nel far disegni, e partorire bene ideati pensieri, e piacquero le sue pitture, benché alquanto rosseggiasse la bella tinta del suo maestro, da cui tutte le opere d’importanza fu aiutato con disegni e bozzetti (p. 198)”.
Nicola Rossi, Fiera contadina, Municipio di Livorno

A proposito di paesaggi pullulanti di animali e figure umane, alcuni anni fa Elena Fumagalli (Una scena di genere di Nicola Russo, “Dialoghi di Storia dell’Arte”, 1999, 8-9, pp. 146-147) ha ricostruito questo versante pittorico del corpus operistico rossiano, ricollocandovi il dipinto Fiera contadina sottratto, come prevedibile, dal catalogo di Giordano. Già arricchente le collezioni fiorentine del principe Ferdinando de’ Medici (oggi custodito presso il Municipio di Livorno), il dipinto, di cui la studiosa ha individuato la dirimente firma del Rossi nello stendardo a sinistra, è stato per la prima volta esposto in occasione della mostra “Filosofico umore e maravigliosa speditezza. Pittura napoletana del Seicento dalle collezioni medicee” svoltasi presso la Galleria degli Uffizi dal 19 giugno 2007 al 6 gennaio 2008.

Parimenti il dipinto qui presentato di Giuseppe Tassone (Roma, 1653-Napoli 1737), Carovana di pastori (cm 130 x 155), periziato dal Prof. A. Crispo,  evoca nella sua pressocché perfezione formale la sentita lode che lo stesso Luca Giordano andava declamando nei confronti sul suo allievo. Semanticamente improntato al passato di Salvator Rosa, Rosa da Tivoli e Domenico Brandi, il Tassone coltivò pure una pittura allineata con le novelle tendenze del barocchetto napoletano, come si può dimostrare relazionando la tela con due dipinti simili oggi custoditi presso le civiche raccolte del Castello Sforzesco milanese.

Giuseppe Tassone, Carovana di pastori

Giuseppe Tassone, Paesaggio con Armenti, Pinacoteca del Castello Sforzesco

Finale esemplare rappresentativo della mostra è la Natura morta di frutta con pappagallo (cm 75 x 100) di Reynaud Le Vieux (Nimes, 1613 – Roma, 1699), periziata dal  Prof. Gianluca Bocchi. A prescindere dalla colorata varietà di frutti estesa sul tavolo, la presenza del pappagallino variopinto insiste ancora una volta sulla superiorità allegorica degli animali. Secondogenito di Jean, Reynauld risiedette lungamente a Roma, entrato in contatto con generisti a lui connazionali; affascinato dalla lezione romana di Raffaello, l’artista si aggiornò successivamente sulle nature morte di Francesco Noletti detto il Maltese e di Pier Francesco Cittadini, ricavandone citazioni naturalistiche ricche di preziose aspirazioni compositive.

Reynaud Le Vieux, Natura morta di frutta con pappagallo

La mostra si terrà nello showroom di Ars Antiqua, in via Carlo Pisacane 55-57, sino al 20 luglio.

Giulia GHILARDI  Milano 16 Luglio 2023