Numero Speciale: Francesco Caglioti, Donatello e il Rinascimento. Il successo di un progetto

P d L

Il numero odierno è uno ‘speciale’ che dedichiamo volentieri a Francesco Caglioti, curatore della mostra Donatello. Il Rinascimento, appena conclusasi a Palazzo Strozzi. I numeri parlano chiaro: 150.000 visitatori a Palazzo Strozzi (e circa 117.000 al Museo Nazionale del Bargello) per la grande esposizione che si colloca tra le più riuscite e visitate nella storia della Fondazione Palazzo Strozzi, nonchè come evento culturale di punta del 2022. Acclamata dalla stampa nazionale (anche About Art ha dedicato due articoli alla esposizione) e internazionale, in particolare dal New York Times (4 recensioni) dal Wall Street Journal (con 3 recensioni), dal Times (con 4 recensioni) e dal Financial Times (con 4 recensioni) che tra l’altro ha recensito il catalogo della mostra come miglior volume del 2022. Gran parte del merito va assegnato a chi con le sue comprovate competenze ha saputo progettare lo straordinario percorso, proponendo studi e confronti, e riuscendo grazie al suo prestigio di studioso ad ottenere prestiti di opere d’arte eccezionali, provenienti da istituzioni di tutto il mondo. Senza ovviamente tralasciare il ruolo e l’impegno profuso dai Direttori, Arturo Galansino per Strozzi e  Paola d’Agostino per il Bargello  e dai loro collaboratori, è il lavoro di Francesco Caglioti che  è stato determinante. Lo abbiamo incontrato proprio al Bergello in una amichevole conversazione perchè meritava parlarne.

Conversazione con Francesco Caglioti.

Vorrei iniziare questa nostra conversazione su questa esposizione davvero eccezionale appena conclusasi con uno straordinario successo, con una domanda molto semplice: dal momento che Palazzo Strozzi è una fondazione che non può fare ciò che solitamente avviene fra le istituzioni museali, cioè acquisire prestiti in cambio di altre opere da prestare, come è stato possibile ottenere per la mostra opere di caratura assoluta che di solito restano dove sono?

R: Conta molto il prestigio di cui Palazzo Strozzi gode comunque in quanto spazio culturale, così come pure ovviamente il Museo del Bargello. E i due rispettivi direttori Arturo Galansino e Paola D’Agostino hanno saputo muoversi con grande efficacia.

Aggiungiamo pure il prestigio di cui gode in Italia e all’estero il curatore…

R: Magari forse anche questo; e aggiungo ancora che si è realizzata una perfetta intesa tra i due direttori e me. Il progetto Donatello è nato mentre era in pieno sviluppo il progetto Verrocchio (2018), quando è stato chiaro che quella mostra avrebbe avuto un esito gratificante sia dal punto di vista scientifico che del pubblico, come poi in effetti è stato; i due direttori mi hanno perciò convinto molto ‘affettuosamente’ a considerare anche l’idea di un progetto su Donatello: una possibilità esaltante e nello stesso tempo assai impegnativa, ma devo confessare che, nonostante mi sia affaticato oltre ogni limite, non ne sono pentito. Tra l’altro ho fatto la scelta di tuffarmi nella mostra senza chiedere neppure un giorno di congedo al mio ateneo.

-In effetti hai curato personalmente anche la parte didattica.

R: Sì, i pannelli delle singole sezioni sono miei; una mostra è fatta anche e soprattutto di queste cose.

-Ma andrai anche a Berlino e a Londra, prossime tappe della esposizione?

R: A Berlino sicuramente non per l’inaugurazione, perché in quei giorni sono impegnato nel concorso di ammissione dei nuovi allievi della Scuola Normale a Pisa; però dovrei andarvi al più tardi per una presentazione donatelliana promossa dal museo stesso, ai primi di dicembre.

Nel catalogo c’è scritto che le due esposizioni non saranno uguali a questa fiorentina …

Donatello, Speranza, 1427 -29, Siena, Battistero di San Giovanni, Fonte Battesimale, Opera della Metropolitana, foto Bruno Bruchi

R: Sì, è così, saranno più piccole perché non ci saranno i grandi prestiti provenienti da alcune chiese italiane, dal Battistero di Siena, ad esempio, o da San Lorenzo qui a Firenze, oppure dal Duomo di Ferrara, opere che per una parte torneranno nei luoghi d’origine, e per un’altra andranno in laboratorio, dal momento che Palazzo Strozzi contribuisce ai restauri; ad esempio, delle due Virtù teologali provenienti da Siena, mentre la Speranza torna in situ, la Fede, che è ancora da restaurare, andrà per il tempo necessario all’Opificio delle Pietre Dure; accadrà allo stesso modo per le due porte di San Lorenzo: una torna al suo posto e l’altra all’Opificio, e dopo il restauro Palazzo Strozzi finanzierà il rimontaggio della seconda.

-Entriamo ora nei temi riguardanti direttamente l’esposizione; ad esempio, a leggere le tue osservazioni in catalogo appare decisamente che per te Donatello è superiore a Masaccio e a Brunelleschi, cioè ai due grandi maestri cui il nostro viene solitamente accostato per definire l’imprescindibile triade dell’avvio del Rinascimento.

R: È vero, rispetto a tanti altri maestri ‘epocali’, come Brunelleschi e Masaccio, ma anche Giotto, Michelangelo, Raffaello, Caravaggio o Bernini, Donatello attua non solo un forte cambiamento di rotta ma una trasformazione totale della tradizione. Tutti gli altri, geniali, straordinari artisti, maestri di somme capacità, certamente cambiano, innovano, progrediscono, ma vengono prima o poi assorbiti nella tradizione che essi stessi creano. Donatello no, Donatello rimescola completamente tutto, esorbitando dalla tradizione passata, ma poi domina tenacemente anche la successiva, ne rimane al di sopra. Prima di Picasso, nell’intera vicenda figurativa occidentale non conosco nessun artista che abbia sperimentato da solo tante soluzioni e strade diverse così come Donatello: e se Picasso, con tutto il suo talento personale, è stato incoraggiato e facilitato a tanto dalla condizione stessa dei suoi tempi, cioè dall’accelerazione di sperimentazioni visive creatasi prima di lui e intorno a lui anche in risposta alla rivoluzione della fotografia e del cinema, Donatello no, lui avrebbe potuto ‘accontentarsi’, così come Brunelleschi, di un’unica, gigantesca svolta, mentre ne ha prodotte di infinite. Certo, mi dirai che in queste affermazioni c’è sempre un po’ di forzatura retorica, cosa che non nego.

-Allora facciamo un discorso più puntuale, se mi consenti, prendiamo in esame il rapporto con Brunelleschi, possiamo dire che senza Brunelleschi Donatello non sarebbe stato Donatello?

Filippo Brunelleschi (da firenze.duomo.it)

R: Sì, ci può stare, Brunelleschi è stato il suo ‘scopritore’, e dovette essere un uomo di grande generosità; certamente è lui che innesca il Rinascimento architettonico, che tuttavia nel giro di un secolo assorbe la sua lezione e la supera. Pensiamo a quanti vengono dopo di lui, a Leon Battista Alberti, a Francesco di Giorgio, a Giuliano da Sangallo, a Bramante, a Michelangelo: questo che ci dice? Che nel giro di un secolo Brunelleschi non è certamente dimenticato, ma è del tutto sfruttato ed esaurito nella sua portata rivoluzionaria. Pensa invece a Donatello, passano dopo di lui decine di assistenti, allievi, ammiratori e imitatori per tutto il ’400, e nessuno riesce a stare al suo passo; in realtà, come ho provato a scrivere, Donatello imbandisce un banchetto che dà frutti ancora per tutto il ’500, e Verrocchio, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, ma anche Andrea del Sarto, Rosso, Pontormo, Cellini, Jacopo Sansovino, Bandinelli e così via, lo capiscono meglio di quanto possa aver fatto ad esempio l’amico e collaboratore Michelozzo. Perché? Perché i suoi contemporanei prendono la superficie di lui, la spinta a tornare all’antico, i festoni, gli spiritelli, gli archi trionfali, l’ornato naturalistico… mentre Donatello è molto di più, è un artista sempre spiazzante, che inventa nuovi rapporti tra opera d’arte, spettatore e ambiente espositivo, e per esempio, ogni qualvolta allestisce una sua statua in uno spazio già dato, lo spazio stesso si riplasma.

-E secondo te queste novità non le possono capire i suoi contemporanei; ma perché?

R: Io credo che non le comprendano, o se le comprendono non hanno il mestiere altissimo per tradurle in pratica. Forse sono solo due gli artisti che prima di Verrocchio e Leonardo hanno capito Donatello, o per meglio dire ci dimostrano di averlo capito. Si tratta di Masaccio e di Mantegna, cioè di due pittori, e la pittura è un’arte assai più facile rispetto alla scultura.

Masaccio,San Paolo, (dal Polittico del Carmine), 1426, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo. Su concessione del Ministero della Cultura, Direzione Generale Musei della Toscana. Firenze
Donatello, San Giovanni Battista di casa Martelli, 1442 ca, Firenze, Museo Nazionale del Bargello,. Su concessione del Ministero della Cultura. Foto Bruno Bruchi

-Beh, sai certamente meglio di me che a suo tempo ci fu un animato dibattito tra artisti con l’inchiesta di Benedetto Varchi sul primato delle arti e non finì a vantaggio della scultura.

R: La scultura è un’arte difficilissima, non paragonabile alle altre; per non dire della statuaria, sui cui riposa non a caso, in primo luogo, la gloria immensa di Michelangelo. Non tutti i maggiori scultori di quei tempi sono stati all’altezza di questo compito: prendi per fare un esempio Desiderio da Settignano, un intagliatore eccellente, quasi unico, un virtuoso del bassorilievo, dello stiacciato, che però non sapeva fare le statue; eppure a lui negli ultimi decenni è stato attribuito con gravissimo errore il San Giovanni Martelli, opera quintessenziale di Donatello; passare dalla scultura alle statue in senso proprio vuol dire saper dominare lo spazio, essere anche architetti, non è una cosa da tutti.

-Da qui, dunque, l’importanza per Donatello dell’alunnato da Brunelleschi, giusto?

Donatello, San Giorgio, 1415- 17, Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Su concessione del Ministero della Cultura. Foto Bruno Bruchi

R: Certo, ma non solo, perché poi devi operare, fare, e ogni volta innovare; questa è la forza di Donatello. Brunelleschi inventa la prospettiva razionale matematica e Donatello nel San Giorgio lo segue meravigliosamente con quel sublime stiacciato che è come un dipinto scolpito, tradotto nel marmo; siamo nel 1417 circa, ma poi, dieci anni dopo, in quel capolavoro che è il Convito di Erode, con cui partecipa al fonte del Battistero di Siena, capisce che la prospettiva alla Brunelleschi, se è di massimo aiuto nella composizione generale di una storia, comporta però anche delle limitazioni, ti costringe alla piramide visiva, a star fermo per non perdere la corretta intersezione dei piani. Se ricordiamo come Brunelleschi l’aveva sperimentata nella sua celebre veduta perduta del Battistero fiorentino, ne consegue che lo spettatore deve rimanere inchiodato a una visuale fissa, nella quale gli si chiede addirittura di coprire un occhio per ridurre lo sguardo a un’unità di approccio tanto perfetta quanto astratta.

Donatello, predella San Giorgio che uccide il drago, Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Su concessione del Ministero della Cultura. Foto Bruno Bruchi

Da qui, all’opposto, l’invenzione donatelliana di una prospettiva – come dire? – multipla e romantica; insomma, se osserviamo Paolo Uccello o Domenico Veneziano, o Piero della Francesca, rimaniamo ammirati, non c’è dubbio, ma anche distanti, al di fuori dell’immagine. Donatello invece ci risucchia dentro.

-Una sorta di effetto-cinema ante litteram …

R: Sì, Donatello ti fa entrare completamente nella storia, come i migliori registi cinematografici.

-Ma come spiegare la sua qualità di artista con la considerazione che pure qualcuno fece che si trattava di uno un po’ rozzo?

R: Un po’ rozzo? Alludi, immagino, a un’affermazione di Pietro Summonte, l’umanista napoletano di primo Cinquecento che scrive che Donatello era

“omo rozo e simplicissimo in ogni altra cosa, excepto che in la scalptura, in la quale, a iudicio di molti, ancora non have avuto superiore”.

Esattamente, è la citazione che ha tratto dal vostro catalogo il Prof. Ivo Bomba nella recensione alla mostra scritta per About Art (Cfr https://www.aboutartonline.com/dalla-mostra-di-palazzo-strozzi-riflessioni-su-donatello-che-in-la-scalptura-a-iudicio-di-molti-ancora-non-have-avuto-superiore/ )

R: D’accordo, allora precisiamo e contestualizziamo: cosa significa ‘omo rozo’? Summonte era un erudito, un grande latinista, editore delle opere del suo venerato maestro Giovanni Pontano, dunque cosa intende dire quando afferma che Donatello era un ‘omo rozo’? Che non conosceva le lettere greche e latine, allo stesso modo di come diceva di sé Leonardo, ‘omo sanza lettere’, che non voleva dire illetterato, ma un uomo di arte e di scienza con lo svantaggio di partenza di non conoscere greco e latino. Leonardo, insomma, era ‘omo sanza lettere’ rispetto a un Poliziano, così come Donatello era ‘rozo’ rispetto a un Poggio Bracciolini; dopo di che noi siamo perfettamente consci del fatto che Leonardo è una montagna di cultura che nessuno può scalare, così come lo è, artisticamente e figurativamente parlando, Donatello. Al tempo cui ci riferiamo non era da tutti sapere greco e latino, e ciò spiega il giudizio di Summonte su Donatello.

-Vorrei chiederti ora, proprio alla luce del giudizio che dai di Donatello, se credi a un’idea dell’arte come progresso infinito. Nel senso che è certamente vero che – per fare un esempio – Giotto è superiore a Cimabue, ma può essere altrettanto vero che non è sempre così, cioè non è sempre vero che chi viene dopo supera inevitabilmente chi c’era prima; dovrebbe essere la qualità dell’opera a conferire valore all’artista, non il fatto che venga prima o dopo, o no?

R: Certamente. Ma direi anche, senza troppi giri di parole, che la storia dell’arte, o almeno dell’arte occidentale, ha sempre proceduto per via di grandi cicli progressivi. Per quanto ne sappiamo, la vicenda antica, per esempio, ci porta dalla civiltà cicladica ai kouroi, a Fidia, a Prassitele, fino alla perfezione dei secoli successivi, cui seguono – c’è poco da tergiversare – con il disgregarsi della civiltà imperiale romana e il ribaltamento della religione, e con l’avvento del primo Medioevo, la perdita di certi modelli, di certe tecniche, e si ricomincia a imparare, su su fino alla grande fioritura del secolo XI. Se partiamo poi dal XIII secolo romano, da Anagni agli affreschi del complesso dei Santi Quattro Coronati, fino a Torriti, Rusuti, Cavallini, seguiamo un progresso che in pratica arriva ininterrottamente fino a Leonardo, Raffaello, Michelangelo, per cui un qualsiasi degno pittore del ’400 è dal punto di vista tecnico comunque più compiuto di un grande artista di inizio ’300.

Ma dopo Leonardo, Raffaello e Michelangelo la misura sembra colma …

R: E non a caso Vasari ci scrive sopra le Vite; sembra impossibile che si riesca ad andare oltre. Il Manierismo ai miei studenti l’ho sempre spiegato non con lo sconcerto delle guerre d’Italia, con la discesa dei francesi, degli spagnoli, dei tedeschi e così via, ma in primo luogo con il fatto che davvero gli artisti credevano che non fosse possibile far di più davanti ai modelli di natura. Conseguenze di questo stato di cose sono, come ci ricordano i manuali, lo studio prevalente dei grandi modelli artistici (Donatello tra i primi!) e la tendenza a tralasciare la natura, fino a Caravaggio e ad Annibale Carracci, quando si riparte per arrivare fino all’Ottocento, forse il secolo più riuscito dell’intera storia delle antiche arti figurative occidentali.

-Beh, non l’avrei proprio detto!

R: Eppure, se ci rifletti, è il secolo più ampiamente popolato di grandi pittori e grandi scultori. Per tornare alla tua domanda, direi che la produzione artistica dell’Occidente è stata sempre mossa da un impulso di progresso, sia quando non ha guardato troppo lungamente indietro al proprio passato, sia quando ne è stata pienamente consapevole, fino al contemporaneo, che è un continuo operare per superare lo stato presente.

Ma per tornare a Donatello, occorre pure tener conto del giudizio espresso da Gentile de’ Becchi quando scrive ai Medici che il ‘nostro’ non era solito portare a termine le opere.

Donatello,David vittorioso, 1435 -40, Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Su concessione del Ministero della Cultura. Foto Bruno Bruchi

R: Sì, e questo ti dice quanto Donatello fosse oltre il suo tempo, che era a sua volta capace di ammirarlo infinitamente, ma nello stesso tempo era impreparato, anche ai suoi livelli più alti, a comprendere la svolta pionieristica del suo non-finito. Considera che Gentile de’ Becchi è l’autore delle epigrafi per le basi del David in bronzo e della Giuditta, e non dimenticare che i Medici veneravano Donatello, cui commissionarono di tutto. Il fatto è che Donatello aveva un’inventiva sterminata, incontenibile, ma non aveva il tempo materiale per dare compimento a tutto quello che la mente gli ispirava.

  • è quanto affermi in catalogo, in effetti. Dunque non si tratta di un non-finito come quello di Michelangelo?

R: Per entrambi si tratta sempre di un non-finito di necessità, dovuto agli ostacoli che il tempo frappone tra l’invenzione geniale e l’esecuzione perfetta. Ma mentre Donatello diventa assai presto cosciente di questa necessità, e la cavalca, persino la prepara, facendo diventare il non-finito una virtù, soprattutto al servizio dei bronzi, Michelangelo la subisce, e se ne lascia tormentare per tutta la vita: il che non impedisce che anche i suoi marmi incompiuti, fino alla Pietà Bandini o alla Pietà Rondanini, ci appaiano oggi, e da secoli, come dei capolavori non inferiori a quelli finitissimi, dalla Pietà vaticana al Mosè. È solo degli studi moderni di volervi leggere un intento filosofico, neoplatonico, mentre si tratta dei felicissimi ‘aborti’ di un maestro iper-dotato, “divino” come volevano i contemporanei, che per decenni non si rassegna al fatto che, per dirla con il proverbio, “l’arte è lunga e la vita breve”: e l’arte di Michelangelo era ovviamente lunghissima. Dunque, ciò che accomuna Donatello e Michelangelo, rispetto alla finitura delle opere, è che entrambi, come per una sorta di contrappasso, vengono puniti dai loro eccessi di bravura, nel senso che tutti vogliono i loro lavori, e loro promettono ma poi non riescono a mantenere, non sempre. Donatello se la cava assai di più perché, se è vero che lascia in asso molti committenti, se è vero che di grandi opere ne abbandona venti, è vero tuttavia che ne finisce duecento (Vasari scrive che «delle opere di costui restò così pieno il mondo che bene si può affermare con verità nessuno artefice aver mai lavorato più di lui»). Michelangelo scultore, invece, avendo deciso di lavorare quasi solo il marmo, è come se si fosse negato mille opportunità; in ogni caso, siccome poi il tempo galantuomo si diverte a ribaltare vecchi verdetti, oggi il non-finito è la parte del suo lascito che quasi quasi ci affascina di più. Donatello si fa aiutare da decine di allievi che generosamente a sua volta aiuta, mentre Michelangelo è un misantropo e vuole far tutto da solo e tutto in marmo, come dicevo. A differenza di lui, che rimane affezionato alla pietra per tutta la vita, Donatello prima dei sessant’anni si consacra interamente al bronzo, anche perché capisce che ormai ha bisogno di un lavoro di équipe, cosa che Michelangelo non ammette.

-E’ per questo che non lavorerà il bronzo?

R: Direi che è questa la ragione prevalente, perché lo avrebbe costretto a servirsi di collaboratori, a lavorare in compagnia, e lui non ne voleva sentir parlare.

Hai fatto cenno di sfuggita poco fa al contrappasso dantesco e allora una cosa vorrei che mi spiegassi precisamente riguardo a Dante Alighieri, che se è vero che per tutto un periodo venne ritenuto praticamente un traditore dai fiorentini, tuttavia nel XV secolo a Firenze era grandemente stimato come un grande intellettuale; eppure, a veder bene non mi pare che ce ne siano tracce in Donatello, né nella esposizione.

R: In effetti, per quanto si provi a indagare Donatello, non si trova un filo sia pur debole che lo congiunga a Dante.

Piuttosto curioso, non trovi? Ti sei chiesto il perché?

R: Il Quattrocento è un’epoca troppo precoce per cercarvi una fortuna visiva di Dante estesa alla scultura, addirittura a quella monumentale.

Volevo ora chiederti qualcosa relativamente al contesto in cui Donatello opera, per cercare di capire anche i motivi a monte delle sue numerose committenze e dello straordinario favore che conobbe presso i Medici. Occorre, credo, partire da un matrimonio, quello di Giovanni di Bicci e Tessa de’ Bardi che consentì ai Medici di aprirsi la strada per il potere; sappiamo in effetti che Giovanni e suo figlio Cosimo parteciparono al Concilio di Costanza (1414-1418), che mise fine al Grande Scisma grazie alla loro amicizia con Baldassarre Cossa, l’antipapa Giovanni XXIII, che fu persuaso dai due fiorentini a rinunciare al soglio pontificio dietro la promessa di aiuti economici, mentre di converso un loro stretto parente e fiduciario, Bartolomeo de’ Bardi, diveniva responsabile delle finanze pontificie su nomina del ‘vero’ ed ora unico papa, Martino V Colonna. Sarà proprio Cosimo a far erigere a Cossa il monumento funebre in Duomo a Firenze, ad opera di Donatello. Intanto vorrei sapere se sei d’accordo con questo sommario riassunto della vicenda che ovviamente diede grande prestigio alla famiglia dei Medici, ma che mi fa anche pensare che potessero essere intrecciati anche motivi di carattere politico ed economico nel grande rilievo assunto dall’artista presso la famiglia Medici.

Pontormo, Ritratto di Cosimo il Vecchio, 1519 – 20, Firenze, Uffizi

R: Seguo la tua ricostruzione solo a grandi linee, come si dice. Donatello ha avuto la fortuna di essere straordinariamente dotato, di aver incontrato Brunelleschi e quindi di aver incontrato i Medici. Devi considerare che nella storia infinita della committenza artistica occidentale, che include tanto Carlo Magno che Giulio II, tanto il Re Sole che Napoleone, nessuno, ma proprio nessuno, per quanto potente e dotato di mezzi, eguaglia Cosimo di Giovanni di Bicci, detto Cosimo il Vecchio. La sua è una storia unica, fuori da ogni schema, così come quella di Donatello. Cosimo si è impadronito di fatto dello Stato fiorentino, assicurando agli eredi il possesso della Toscana per tre secoli, attraverso la magnificenza artistica non meno che per mezzo della ricchezza e delle trame politiche; un banchiere, aggiungi pure spregiudicato e usuraio, che però insieme ai due figli fa costruire contemporaneamente San Lorenzo, la Badia fiesolana, San Marco, parti del complesso di Santa Croce e di quello dell’Annunziata, e Palazzo Medici (poi Riccardi) e numerose ville, per non dire dei lavori a Roma e a Gerusalemme, cose straordinarie che non si conoscono in nessun altro. è una storia che ha dell’inverosimile e che ci fa riflettere sull’attitudine che Cosimo ha poi tramandato a un’intera, vastissima discendenza, vale a dire che l’autorità si conquista attraverso la magnificenza artistica.

-Un’idea geniale, ma allo stesso tempo sconvolgente.

R: E, appunto, un progetto per il quale Cosimo aveva bisogno di maestri non meno straordinari, come Brunelleschi o Beato Angelico, ma soprattutto Donatello, con il quale è certo che furono molto amici, anche se purtroppo non abbiamo testimonianze di prima mano che ci dicano qualcosa di più sui loro rapporti quotidiani o sugli accordi intervenuti tra loro per le singole opere. Abbiamo i racconti delle fonti letterarie e, prima, qualche squarcio quasi casuale, come una lettera del patrizio bolognese Giovanni Ludovisi a Cosimo in cui si fa cenno all’artista (“Donatello torna a Firenze per amor vostro…”), oppure come quando gli operai del Duomo di Prato si rivolgono a Cosimo per far tornare presso di loro Donatello che si trova a Roma. Insomma, Donatello era una sorta di genio ribelle ma con Cosimo ebbe evidentemente un rapporto speciale, al punto che Cosimo riuscì a trasformarlo in una sorta di artista di corte. Donatello sarà morto convinto di non essere stato governato o condizionato da nessuno, ma in realtà c’è stata l’eccezione dei Medici, ai quali ha dato moltissimo. Pensiamo soltanto al David e alla Giuditta

-Al punto, se mi consenti parlando proprio dell’invenzione strepitosa del David, che ci si potrebbe chiedere dove inizia Cosimo e dove finisce Donatello.

R: Già, chi lo sa? Non lo sapremo mai; vorremmo tanto avere qualche eco delle loro conversazioni. Alcuni studiosi, che forse difettano del senso dei tempi della storia, si pongono davanti al David come davanti a un’opera contemporanea, come se non fosse costato centinaia di fiorini, come se non avesse richiesto sforzi e spese di gran rischio, e non provano neppure a chiedersi cosa volesse dire allora procurarsi il bronzo, e così via. Cosimo avrebbe dunque pagato un’opera come questa senza prendere parte al modo così singolare di affrontarne il soggetto? Torno a dire che è un vero peccato non poter disporre di tracce documentarie dirette sui rapporti intercorsi tra committente ed artista, ma spero che qualcosa possa ancora riemergere in futuro.

-Tu credi che ci potrebbero essere da qualche parte dei documenti giacenti in qualche fondo d’archivio in grado di far luce su questi aspetti e comunque di apportare significative novità?

R: E’ ben possibile, l’Italia è piena di antichi documenti ancora da esplorare, e non esiterei a dire che da questo punto di vista, nonostante le migliaia e migliaia di documenti vagliati e pubblicati finora, la storia dell’arte è appena agli inizi.

Allora se dovessi dare un consiglio a un giovane ricercatore, sulla base delle tue esperienze dove gli diresti di sondare?

Donatello, San Pietro, Firenze, Orsanmichele

R: Restando al Rinascimento, anche indipendentemente da Donatello, accenno per esempio ai fondi dei monasteri soppressi; sono stati studiati finora assai poco rispetto alle loro potenzialità, o addirittura pressoché per nulla, ma talvolta contengono anche carte private di famiglie i cui eredi hanno chiuso la loro vita in convento, portando con sé un intero patrimonio scritto confluito nell’archivio di quel luogo di vita comunitaria. Aggiungo un altro esempio completamente diverso, relativo a Donatello: Lorenz Boeninger, uno storico molto preparato e serio, pochi anni fa ha trovato nel fondo del Tribunale della Mercanzia a Firenze un documento estremamente significativo da cui si apprende che Donatello e Brunelleschi ebbero una compagnia di scultura agli inizi degli anni dieci del ’400, costituita per le statue di Orsanmichele; e infatti le fonti letterarie cinquecentesche dicono che le prime statue di Donatello per quel luogo, vale a dire il San Pietro e il San Marco, avrebbero dovuto essere anche di Brunelleschi, mentre poi le realizzò solo Donatello. E cos’altro si scopre? Che Brunelleschi fece anche incarcerare Donatello – quasi certamente per poche ore: qualcosa che per il nostro modo di pensare odierno è inammissibile, ma non così per la Firenze dei primi del Quattrocento, quando per un credito non onorato non ci voleva molto a far imprigionare il debitore anche se era un amico; era evidentemente per metterlo alle strette, tanto che non si finiva con i malfattori patentati, ma in una cella dello stesso Tribunale della Mercanzia.

Come a voler dire “così impari!”

R: Sì, era più o meno quello il senso del provvedimento, e infatti, nonostante ciò, Brunelleschi e Donatello rimasero amici e collaboratori per quasi altri trent’anni; però, non avendo ottenuto il saldato del proprio credito, Brunelleschi fece mandare l’amico in prigione. Cos’era accaduto? Quando si fa una compagnia a due, solitamente è prevista la metà degli introiti per ciascuno; accadde invece che avendo realizzato le prime due statue di Orsanmichele da solo, Donatello non si era evidentemente preoccupato di dividere il compenso con Brunelleschi. Quindi, per tornare al discorso di prima, come ti dicevo questo splendido documento è riemerso sei o sette anni fa verosimilmente per caso, perché Boeninger certamente non si è calato nelle carte del Tribunale della Mercanzia per cercarvi notizie su Brunelleschi e Donatello; da storico ad ampio spettro della società fiorentina del Rinascimento (diplomazia, umanesimo, editoria, mondo del lavoro), ha usato quel fondo anche in altre occasioni, ma incontrando quei due nomi avrà data immediatamente per scontata la novità del documento, consapevole che tra gli storici dell’arte quel fondo non lo frequenta nessuno. Insisto su questo perché immagino quante cose nuove potrebbero uscire di lì.

-Ci dicono le fonti (o quanto meno è quel che risulta a me) che quando Giovanni di Bicci morì lasciò ai figli un patrimonio di oltre 180 mila fiorini oro ed una rendita annuale di 10 mila, pari a più di 35 chili d’oro.

R: Non te lo posso confermare a memoria, forse è pure poco…

-In ogni caso è un bel patrimonio, mi viene allora di chiederti se questa superpotenza economica medicea non abbia in qualche modo attratto Donatello, Michelozzo e gli altri verso i Medici, richiamati dalla possibilità di un facile arricchimento.

Michelozzo

R: Non ti seguo perfettamente, o forse non capisco bene. Innanzitutto tra Donatello e Michelozzo c’è una grande differenza non solo come talento artistico, ma anche come capacità imprenditoriale, questa volta in senso inversamente proporzionale. Donatello è ritratto dalle fonti come un uomo di poche pretese al di fuori dell’arte, non interessato al denaro; si racconta che nella bottega avesse una cestella con delle monete per chiunque ne avesse bisogno. Al contrario Michelozzo sapeva fare molto bene di conto, e inoltre, a differenza di Donatello, mise su famiglia e i suoi figli furono uomini di prestigio, e ancora oltre i Michelozzi diventarono senatori a Firenze e furono i committenti del nuovo altar maggiore della basilica di Santo Spirito. Dunque, per tornare alla tua domanda, probabilmente Michelozzo sarà stato attirato e poi anche sostenuto dalla forza economica dei Medici, ma per Donatello lo escludo; sono stati tramandati vari aneddoti al riguardo, ad esempio che i Medici avrebbero voluto rivestirlo in modo più acconcio ma lui si rifiutò; si sa che gli offrirono un podere come sorta di compenso in natura, che però lui restituì adducendo che avrebbe sprecato troppo tempo e troppe energie a occuparsene e così via.

-Tu scrivi, a proposito della rivoluzione donatelliana, che si era realizzata – cito a senso – anche oltre la classicità romana; ecco, cosa volevi dire con quel “anche oltre”?

R: Allora: quando si parla di Rinascimento, cosa intendiamo soprattutto? Il rinascimento dell’antichità classica, greco-latina, e a considerare Donatello solo in questo senso, vale a dire a confronto con quello specifico evo antico, secondo me se ne riduce l’ampiezza di visione. Donatello ha guardato con uguale attenzione alle opere che attribuiamo all’età antonina e a quelle dell’età ottoniana; cosa voglio dire? Che le etichette che di solito accompagnano nei manuali il concetto di Rinascimento tendono a limitare la nostra ricerca. Non a caso, messo a confronto con il modello prevalente di Rinascimento, Donatello è parso di volta in volta non solo classico, ma anche anticlassico.

Donatello, Maddalena penitente, Firenze, Museo dell’opera del Duomo

-Vediamo allora se rientro anch’io nella manualistica che non ti piace se ti chiedo: la famosa Maddalena del Museo dell’Opera del Duomo è opera anticlassica?

R: Vedi? Ci sei cascato anche tu, io rifuggo da questi cartellini; cosa ti devo rispondere? Non è né l’una né l’altra cosa. Ma se insisti, ti rispondo che anticlassica proprio no, è una definizione che rigetto decisamente perché significherebbe opporsi a un’idea di classicismo che è quella nostra, e che Donatello non poteva avere. D’altra parte la nostra conoscenza della Maddalena è decisamente limitata dal fatto che non conosciamo più la Maddalena di Brunelleschi cui Donatello dovette certamente guardare, anche se immagino che la sua Maddalena stesse a quella di Brunelleschi così come il suo Crocifisso sta al Crocifisso brunelleschiano. La Maddalena di Brunelleschi sarà stata un’immagine molto veritiera ed efficace ma anche nobilissima, invecchiata ed emaciata ma senza aver perso la forza seduttiva della giovinezza; al contrario, la Maddalena di Donatello, di una struggente bellezza interiore, dovette sembrare a suo tempo decisamente spaventevole.

-A quanto si legge nel catalogo, sembrerebbe che questi esiti, questo tipo di figurazioni, si realizzano quando Donatello torna da Padova, cioè quando si sviluppa una sorta di temperie anche sentimentale che coinvolge i pittori fiorentini. Sei d’accordo?

Andrea del Castagno, Farinata degli Uberti, 1448 -49, Firenze, Uffizi, Gallerie delle Statue e delle Pitture,. Su concessione del Ministero della Cultura, Gabinetto fotografico delle Gallerie degli Uffizi

R: Quello che dici vale non per Donatello, ma per i pittori fanatici di lui: nel senso che Donatello aveva fatto opere come lo Zuccone del Campanile di Giotto e la Maddalena già prima di andarsene a Padova, ma il suo rientro in Toscana nel 1454 spinse i suoi ammiratori più giovani a guardare non solo ai suoi capolavori nuovi ma anche a quelli realizzati prima di Padova. Donatello, però, era una stella polare per i pittori fin dagli anni venti al più tardi. Masaccio ha avuto per primo la grande intelligenza di tradurre Donatello in pittura; nel corso di sei anni folgoranti, dal 1422 al ’28, quando poi scompare, abbiamo con lui una specie di condensato di idee donatelliane, dalla Cappella Brancacci al polittico di Pisa e alla Trinità di Santa Maria Novella; lo stesso vale poi per Domenico Veneziano, per Filippo Lippi, per Andrea del Castagno, per Piero della Francesca (un grande assente della mostra per difficoltà di prestiti), in parte anche per Beato Angelico e via dicendo. La fortuna di Donatello presso gli scultori comincia invece fin da subito. Pensa al cantiere della ‘Mandorla’: per la prima volta nella storia dell’arte Donatello vi fa entrare un Profeta bambino, cosa mai vista prima, e dopo di lui lo stesso fa Nanni di Banco, che non era un suo allievo, ma lo diventa di fatto. Poi Donatello realizza il David in marmo, concepito non più come un monarca salmista ma come un giovane pastore, un ragazzo trionfante, e Nanni di Banco, per emulazione, scolpisce un Isaia ragazzo. Insomma, Donatello assume importanza e valore esemplare già nei primissimi anni di attività e per oltre due secoli la sua fortuna non conosce limiti. Quando si parla di un suo revival nel ’500, si perde di vista una parte del Rinascimento, perché un revival comporta che ci sia stata una pausa, una fase di oscurità, cosa non verificabile nel nostro caso.

-Vorrei tornare brevemente sul contesto in cui Donatello e gli altri operarono, perché trovo piuttosto significativo che faccia gli ‘spiritelli’ – anche se non proprio agli inizi –, e mi chiedo se per caso non avesse un qualche riferimento in determinati circoli di studiosi o collezionisti fiorentini di cultura diciamo così eteroclita oltre che amanti anche della classicità.

R: Sappiamo che Donatello era amico di Niccolò Niccoli o di Ciriaco d’Ancona o di Poggio Bracciolini, ma non abbiamo documenti né lettere dell’uno o dell’altro che ci chiariscano se e come Donatello possa averne ottenuto suggerimenti.

Donatello, Spiritello, 1436 -38, Parigi, Istitute de France, Musee Jacquemard André. Photo Anne Chauvet
 Donatello, Spiritello, 1436 -38, Parigi, Istitute de France, Musee Jacquemard André. Photo Anne Chauvet

-E tuttavia il fatto che realizzi le figure degli spiritelli potrebbe far pensare che qualche contatto di carattere esoterico, posto che a Firenze in quegli anni qualcosa del genere ci sia stato, possa essersi determinato.

R: Io sono dell’idea che occorra provare a spiegare l’arte innanzitutto secondo il suo stesso linguaggio: il resto può e deve venire dopo, la letteratura, la filosofia, e così via. Lo spiritello è per Donatello l’essenza stessa del movimento; da sommo scultore qual è, egli capisce subito che la scultura è un’arte limitata rispetto alla pittura, che ai suoi tempi contiene ormai in sé, quasi per definizione, spazio, ambiente, azione, narrazione, mentre la scultura è terribilmente più povera rispetto a tutto ciò. Così gli spiritelli – che come accennavi tu arrivano però negli anni ’20, quando già Jacopo della Quercia ne aveva messi tutt’intorno al sarcofago di Ilaria del Carretto – divengono un modo per dare movimento alla scultura, conferirle azione, una sorta di argento vivo applicato al marmo o al bronzo.

D’accordo, ma come si spiega allora il senso del dio frigio Attis?

Donatello, Amore – Attis, 1435 – 40 ca., su concessione del Ministero della Cultura. Foto Bruno Bruchi

R: Anche qui occorre fare attenzione, perché noi lo chiamiamo Attis per convenzione ormai irrinunciabile, ma in realtà non è Attis, ma – come posso dire? – un super-spiritello; Attis non ha le ali, e il bambino donatelliano invece sì, e sono ali di Cupido, mentre le sue ali talari sono di Mercurio, la coda è quella di un fauno, il serpente viene da Ercole. Insomma, lo spiritello-super tiene insieme tante cose, né ci vedo nulla di esoterico in senso letterario, quanto piuttosto il concetto di uno scultore geniale e curioso che si mette in competizione con l’antico e vuole superarlo chiamandone a raccolta tutti gli spunti figurativi che può. Dopo di che cosa accade? Accade che arriva Vasari e si comincia a leggere quel putto secondo conoscenze antiquarie ormai ben più evolute ma anche costrittive. Vasari dice dunque che si tratta di un Mercurio, gli inventari della famiglia Doni nel ’600 ne parlano come di un Lucifero; e Giovan Battista Doni, letterato ed erudito dell’epoca, che è il proprietario della scultura, non sapendo cosa pensarne scrive a Giovan Pietro Bellori a Roma perché lo aiuti a identificarne il soggetto. Ed è cosa curiosa, dato che Doni doveva conosceva a memoria le Vite di Vasari, dove si dice chiaramente che nella casa degli avi di Giovan Battista c’era un Mercurio di Donatello; evidentemente Doni dava per scontato che tra il Mercurio citato da Vasari e il suo bronzo, una figura non solo di iconografia non propriamente ‘mercuriale’, ma creduta ormai antica, non potesse esserci nessun rapporto. In ogni caso Bellori – secondo la ricostruzione di Tomaso Montanari in un ottimo articolo di vent’anni fa – risponde a Doni che, pur avendo fatto ricerche in ogni direzione, non riesce a sciogliere l’enigma. Questa corrispondenza dovrebbe essere una sorta di caveat per noi studiosi, e invece da un secolo a questa parte capita che a scadenza costante qualcuno se ne esca con la sua personale e inedita soluzione iconografica, perlopiù costruita sui libri ma del tutto estranea al mondo di Donatello. Il quale Donatello, alla fine, elude tutti.

-Se posso riassumere, possiamo dire che si tratta di una sorta di riferimento convenzionale per quel tipo di immagine?

R: Sì, esatto: proprio come diciamo la Madonna del granduca per significare quella precisa Madonna di Raffaello, allo stesso modo diciamo Attis, ma – lo ripeto – non è affatto un Attis, e alla fine potremmo chiamarlo lo “Spiritello con le brache”. Donatello ha realizzato centinaia di altri spiritelli, ma sono tutti figure complementari, al servizio dell’arte monumentale, e non a caso li trovi nel pastorale del San Ludovico di Tolosa, nel cappello del Fonte battesimale di Siena, in cima all’altare dell’Annunciazione Cavalcanti, nella sella e nella corazza del Gattamelata, nel letto dell’Oloferne della Giuditta, e così via. Non c’è dunque da meravigliarsi se Donatello, dovendo realizzare un unico spiritello isolato, lo ha caricato di tutte le bizzarrie che lo hanno affascinato.

-Stiamo per chiudere questa nostra conversazione, e dunque ti chiedo se c’è qualcosa di questa straordinaria impresa che avresti voluto fare e che non ti è riuscito di fare; o magari, non so, qualche prestito non arrivato o rifiutato…

R: Ci sono stati evidentemente alcuni no, ma, non ti sembri un paradosso, ne sono infine contento, perché ci hanno permesso di dare spazio ad altri sì, e, come hai potuto constatare, nell’esposizione non c’è un momento vuoto; e dico ciò dopo l’arrivo dei bronzi del Fonte battesimale di Siena, della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, o del Duomo di Ferrara. Nel progetto originario erano previsti tre o quattro pezzi importanti del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore, ma sono perfettamente persuaso delle ragioni del loro esser rimasti dove stanno, perché quello è un museo nel quale non si può sostituire ciò che si manda in prestito con qualcosa dei depositi, e ciò che esce lascerebbe un buco. Se avessimo avuto quei prestiti, ora quel museo mostrerebbe delle lacune e noi magari non avremmo potuto ottenere le porte di San Lorenzo, i bronzi di Siena e così via. D’altra parte, i visitatori più interessati che sono giunti a Firenze in questi mesi sono potuti andare con gran vantaggio all’Opera del Duomo per farsi un’idea ancora più ampia del mondo di Donatello.

Non può mancare la domanda finale su cosa vedi per te, cosa c’è in cantiere per il prossimo futuro.

R: In breve: insegnamento e nuove ricerche.

P d L   agosto 2022

PS

–          La conversazione con Francesco Caglioti non ha affrontato, per volontà dello stesso studioso, una questione che però ci sta personalmente a cuore dirimere o comunque chiarire. Nel numero dello scorso 26 settembre 2021 di About Art abbiamo ospitato con piacere un articolo di Vittorio Sgarbi, amico e a volte nostro valoroso articolista, relativo alla mostra tenutasi al Mart di Rovereto, da lui ideata e curata da D. Del Bufalo e M. Horack dal titolo Il Falso nell’Arte. Alceo Dossena e la scultura italiana del Rinascimento (Cfr.). In questo articolo, che poi era il saggio iniziale a sua firma (Cfr. Alceo Dossena vive), riportato anche sul Giornale dell’Arte e su altri magazine, si sosteneva che la nota Madonna cosiddetta Piccolomini Collezione Chigi Saracini, Banca Monte dei Paschi di Siena – non sarebbe opera del maestro anonimo che da essa ha preso talvolta il nome – cioè il Maestro della Madonna Piccolomini – bensì un falso primo novecentesco opera di Alceo Dossena. In realtà, se la questione è ancora non del tutto chiarita, questo riguarda non l’antichità della scultura ma solo la mano del maestro che nell’epoca di Donatello l’aveva scolpita, certamente vicino alla cosiddetta Madonna del perdono realizzata per il Duomo di Siena e di sicura appartenenza a Donatello. Chi – come il prof. Caglioti ­– ha potuto studiare con attenzione la scultura sub judice ne conferma la piena genuinità, come rivela, tanto per cominciare, un’antica scritta nel cartiglio del Bambino, assorbita nella porosità del marmo nonostante che nei secoli si sia provato a rimuoverla; una cosa come questa evidentemente nulla ha a che fare con il supposto intervento di Dossena. Peraltro, la contestazione fatta da Sgarbi sul fatto che l’opera non sia documentata prima degli anni ’20 dello scorso secolo non è sufficiente a posticiparne la realizzazione, dal momento che moltissime opere d’arte di proprietà privata si è potuto documentarle solo dopo che sono apparse sul mercato antiquario. D’altra parte, la Madonna Piccolomini (o Saracini) non è mai stata attribuita a Donatello da nessuno, e non esiste neppure (come si credeva in passato) un Maestro della Madonna Piccolomini che ne realizza decine di simili. La Madonna Piccolomini è solo un esemplare tra tanti, di mani tutte diverse, copiati da un fortunato prototipo perduto di Donatello (probabilmente, secondo Caglioti, in bronzo), così come la Madonna di Via Pietrapiana, o la Madonna Pazzi oggi al Bode-Museum. Dossena, quindi, contrariamente al suo solito, avrebbe dovuto fare una copia letterale da un’opera anonima del Quattrocento, senza inventare nulla. Segnaliamo infine che non viene riconosciuta invece al prof. Caglioti la scoperta di un Donatello originale (il San Lorenzo già nel Museo Liechtenstein a Vienna) di cui si tratta nella seconda parte dell’articolo di Sgarbi (F. Caglioti, Donatello misconosciuto: il ‘San Lorenzo’ per la Pieve di Borgo San Lorenzo, «Prospettiva», 155-156, 2014, pp. 2-99).