“Fede Galizia. Mirabile pittoressa”; la mostra al Castello del Buonconsiglio (Tn) oltre i luoghi comuni, svela la genialità di una grande protagonista

di Consuelo LOLLOBRIGIDA

Questa estate di green-pass e varianti, G20 della cultura e riforme varie, rischia di far passare inosservata un’importante mostra dedicata a Fede Galizia, che ha il merito di ripensare nel suo complesso il profilo dell’artista finora nota per essere una delle fondatrici e delle prime protagoniste della natura morta italiana.

Ad ospitare l’esposizione “Fede Galizia. Mirabile pittoressa” (3 luglio – 24 ottobre 2021) è l’incantevole cornice del Castello del Buonconsiglio di Trento, città dove nacque Nunzio, il padre di Fede che la tradizione vuole aver dipinto la raffigurazione di una delle riunioni che si svolgevano nella chiesa di Santa Maria Maggiore durante lo svolgimento dei lavori del Concilio.

Artista era Nunzio; artista erano anche Alessandro, suo zio, e Giacomo Antonio, suo nonno. La famiglia Galizia era di origini cremonesi, quella stessa città che aveva dato i natali anche agli Anguissola, di cui Sofonisba, pittrice alla corte di Filippo II, ottenne, prima tra le donne, gloria e fama artistica internazionale, a cui il Prado ha dedicato una mostra lo scorso anno per celebrare i 200 della fondazione del museo madrileno.

Fede non fu da meno. Lo dimostra molto bene il lavoro svolto dai curatori Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa che ricostruisce in nove ampie e documentate sezioni la carriera della pittrice, affrontandone per la prima volta in modo globale la sua varia e articolata produzione.

Documentata a Milano a partire almeno dal 1587 e fino alla morte, avvenuta dopo il 1630, Fede apprese probabilmente dal padre, miniaturista, disegnatore di costumi, di accessori e cartografo, i primi rudimenti dell’arte, confermando un cliché, letterario e non solo, sulla formazione delle artiste tra Rinascimento e Barocco. Così come appartiene alla mitologia dell’arte femminile, la dedizione e predisposizione delle donne ad occuparsi di ritratti e di nature morte.

Gli studi novecenteschi hanno dato infatti particolare risalto all’attività di Fede come autrice di nature morte, di cui rimangono, in tal senso, memorabili le pagine a lei dedicate da Anna Banti nel suo pionieristico “Quando le donne si misero a dipingere”. A questa affermazione, che porta in sé il sovvertimento della tradizione storiografica, è dedicata la sezione d’apertura dell’esposizione, in cui si affronta l’affermarsi delle donne pittrici nell’epoca della Controriforma. Si incontrano la domenicana Plautilla Nelli, a cui Firenze ha dedicato una mostra e molti convegni negli ultimi anni a cura della Fondazione Advancing Women Artists; le sorelle Anguissola; Lavinia Fontana e Barbara Longhi: quel primo piccolo gruppo di artiste che nel Cinquecento, grazie anche alle riforme pedagogiche nate sulla scorta del pensiero umanista e rinascimentale, produssero le basi di un rinnovato approccio delle donne alla professione artistica.

Plautilla, Sofonisba, Lavinia e Barbara si confrontano con temi e generi diversi, alternandosi tra dipinti devozionali destinati a una clientela privata e quelli di committenze pubbliche. I ritratti dei reali di Spagna di Sofonisba o la pala per i domenicani di Santa Sabina a Roma di Lavinia ne sono esempi paradigmatici. Una strada che percorrerà anche Fede e che la porterà già prima del 1593, tramite la mediazione di Giuseppe Arcimboldi, suo sostenitore della prima ora, alla corte imperiale di Rodolfo II d’Asburgo.

Fede Galizia, attiva sulla scena milanese già nel 1587, allorché le sue doti sono celebrate a stampa, s’impegna fin dagli esordi nella copia di opere rinascimentali e nella produzione in serie di alcune composizioni, a cui la mostra dedica due distinte sezioni.

Nel suo testamento redatto a Milano, assediata dalla peste, il 21 giugno 1630, Fede elenca sei dipinti da lasciare in eredità alla chiesa teatina di Sant’Antonio Abate, accanto a cui abitava. Ben tre di questi sono derivati dal Correggio:

«Una Cingarina che vien dal Corez. Un Xto all’Horto che vien dal Corez. Una Madonina del Cavagnal che vien dal Chorez».

La pittura di Correggio, morto nel 1534, è riferimento prioritario per Fede, che ne studia le opere, a partire da quelle presenti nel contesto milanese. In particolare l’Orazione nell’Orto, oggi ad Apsley House, a Londra, ma che tra Cinque e Seicento è a Milano nelle ricche raccolte del marchese Pirro Visconti Borromeo. Ma Fede non si limita a riprodurre l’Orazione nell’Orto: copia anche la Zingarella (Capodimonte) e la Madonna della cesta (National Gallery, Londra).

Il tema della Giuditta le sarà particolarmente caro, tanto da riprodurne, quasi in serie, tante versioni.

Al centro della mostra spicca la Giuditta del museo di Sarasota, firmata e datata 1596, l’esemplare più antico con una rappresentazione del tema, di Giuditta e della sua serva Abra all’indomani della decapitazione del generale assiro Oloferne.

La giovane vedova ebrea offre a Fede il pretesto per rappresentare vesti sontuose e gioielli preziosi, sulla scia di quanto aveva fatto in Veneto Paolo Veronese. Le figure assecondano lo stile del pittore del momento a Milano: il bolognese Camillo Procaccini. Ogni composizione presenta piccole varianti negli accessori, nei colori e nell’inquadratura. L’invenzione deve aver goduto subito di grande fortuna: le attestazioni inventariali più antiche testimoniano Giuditte nel Palazzo di San Giovanni a Torino, al tempo di Vittorio Amedeo I di Savoia e della madama reale Cristina di Francia, dai Farnese e a Roma dai Borghese, datata 1601.

La settima sezione è dedicata ai ritratti, tema grazie al quale l’artista raggiunse fama e successo internazionali: il Ritratto del gesuato Paolo Morigia; Ludovico Settala, il medico della peste manzoniana; Federico Zuccari, il pittore dell’Idea; Ippolita Trivulzio, principessa di Monaco; Margherita d’Austria, moglie di Filippo II e regina di Spagna; l’infanta Isabella Clara Eugenia d’Aburgo (questi ultimi due citati dalle fonti ma non rintracciati); ma anche Pietro Martire Mascheroni, un semplice negoziante milanese di cui la famiglia di Fede era affittuaria, nei pressi della chiesa di Sant’Antonio abate, a lei tanto cara.

Fede Galizia è una delle prime pittrici a cimentarsi con le pale d’altare, e non solo a Milano.

Il Noli me tangere, ora alla Pinacoteca di Brera, è tra i dipinti rimasti della produzione sacra di Fede Galizia il più ammirato dai viaggiatori del passato, ma, curiosamente, quello forse più lontano dal gusto moderno. La minuzia con cui sono descritti i fiori in primissimo piano, che rimandano alla contemporanea produzione di nature morte, i gesti calibrati e la preziosità esecutiva delle vesti, visti con il cannocchiale del tempo, devono restituire la fama di Fede nella Milano a cavallo tra XVI e XVII secolo. Una sua opera è richiesta dal bergamasco Pietro Cortone nel 1611 per una chiesa di Napoli, città nella quale, probabilmente nell’antica Sant’Anna dei Lombardi, si trovava già dall’anno precedente una sua Adorazione dei Magi.

Il numero più grande di dipinti realizzati da Fede per una chiesa era conservato in Sant’Antonio abate, la chiesa vicina alla sua abitazione e a cui destinerà anche le sue ultime volontà. Da lì viene il San Carlo in processione con il Santo Chiodo che è stato spesso usato per documentare lo stato di avanzamento dei lavori sulla facciata del Duomo, ma che registra anche l’aspetto del Palazzo Ducale in mezzo a vivaci scenette di genere.

La mostra si chiude con la sezione dedicata alla natura morta, genere per il quale Fede è tra le prime a misurarsi. Genere nuovo, introdotto forse a Milano, intorno alla metà dell’ultimo decennio del Cinquecento, da un pittore di tradizione latamente leonardesca come Giovanni Ambrogio Figino, la natura morta conquistò presto sia i gusti della committenza borghese che alcune necessità pauperistiche della spiritualità post-tridentina, come dimostra la Canestra del Caravaggio appartenuta al cardinale Federico Borromeo.

L’opera di natura morta nota più antica dovrebbe risalire al 1602, mentre un’attestazione letteraria di naturamortista è, prima del 1633, nella Dignità et nobiltà delle donne di Cristofano Bronzini:

«Famosa e celebre (anzi eccellentissima) nell’arte della pittura fu anco Fede Galizia fanciulla milanese, la quale nel pinger del naturale et particolarmente frutti et piante, riuscì tanto rara».

E’ forse lei l’autrice dei Frutti di mano d’una Donna, celebrati da Giovanni Battista Marino nel 1620. Ed è lei la «mirabile pittoressa» per Carlo Torre, autore della prima guida di Milano, che reca la data del 1674.

In mostra ci sono un’ottantina di opere tra dipinti, disegni, incisioni, medaglie e libri antichi. Oltre a opere di Fede Galizia, Plautilla Nelli, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Barbara Longhi, ci saranno lavori di Arcimboldi, Bartholomeus Spranger, Giovanni Ambrogio Figino, Jan Brueghel e Daniele Crespi, provenienti dai più importanti musei italiani, come la Pinacoteca di Brera e il Castello Sforzesco di Milano, gli Uffizi di Firenze, l’Accademia Carrara di Bergamo, Palazzo Rosso di Genova, la Fondazione Cini di Venezia, la Galleria Borghese di Roma, oltre ad alcuni prestiti internazionali: dal Muzeum Narodowe di Varsavia, dal Ringling Museum of Art di Sarasota, dal Palacio Real de la Granja di San Ildefonso, oltre che da alcuni collezionisti privati.

Green pass permettendo: da non perdere.

Consuelo LOLLOBRIGIDA  Roma 1 agosto 2021