Dall’orto dei Feaci al giardino dell’Eden. I frutti della terra alla base della dieta mediterranea

di Monica LA TORRE

Dall’orto dei Feaci al giardino dell’Eden. I frutti della terra alla base della dieta mediterranea

Banchetto greco
 «Alte vi crescon verdeggianti piante,
Il pero, e il melagrano, e di vermigli
Pomi carico il melo, e col soave
Fico nettareo la canuta oliva.
Nè il frutto qui, regni la state, o il verno,
Pere, o non esce fuor: quando sì dolce
D’ogni stagione un zeffiretto spira,
Che mentre spunta l’un, l’altro matura.
Sovra la pera giovane, e su l’uva
L’uva, e la pera invecchia, e i pomi, e i fichi
Presso ai fichi, ed ai pomi. Abbarbicata
Vi lussureggia una feconda vigna,
De’ cui grappoli il Sol parte dissecca
Nel più aereo, ed aprico, e parte altrove
La man dispicca dai fogliosi tralci,
O calca il piè ne’ larghi tini: acerbe
Qua buttan l’uve i ridolenti fiori,
E di porpora là tingonsi, e d’oro».

Odissea, Canto VII, (Il giardino dei Feaci, trad. Ippolito Pindemonte)

La seconda parte del nostro excursus sul cibo arcaico, nell’Italia Magnogreca, e sull’origine del nostro rapporto più intimo col cibo, affronta i prodotti di origine vegetale. Il loro consumo non va disgiunto dall’anelito a luoghi paradisiaci, dove una natura generosa regala frutti e prodotti a piene mani.

L’archetipo potentissimo, mito fondante delle religioni tanto politeiste quanto monoteiste, vagheggianti  è il ricongiungimento ad un Eden rappresentato come giardino di delizie e di abbondanza.  Segno del ruolo vitale del nutrirsi e godere dei frutti di madre Natura nell’appagamento, oltreché nella sopravvivenza, dell’uomo: la frutta, il formaggio, i prodotti della terra sono carichi di simbologie fortissime. L’archeologa Silvana Iannelli, già protagonista del primo contributo sul rapporto tra cibo e mito, dedicato al legame tra consumo di carne, sacrifici e ritualità, affronta in questa sezione il nesso tra cultura tavola greca, agricoltura, allevamento e pastorizia.

Il Giardino delle Esperidi. Particolare di vaso greco

I prodotti della terra

«Non c’è dubbio che la base dell’alimentazione magno-greca fosse costituita essenzialmente da prodotti di origine vegetale, frutto di coltivazione agricola. Cereali, legumi, frutta: quella mediterranea era, ed è tutt’oggi, seppure con tutti i dovuti distinguo, un’alimentazione prevalentemente vegetariana. Potremmo definirla di ridotto apporto calorico, ma sufficiente dal punto di vista nutrizionale». Non a caso, la cittadina di Nicotera (VV) è culla della dieta Mediterranea, sede della sua accademia Internazionale.

I cereali

Tabella di Bronzo (Immagine tratta da G. Incorpora, Locri Antica e Gerace, Ponte Nuovo Editrice, Bologna 1980)

A far la parte del leone, indubbiamente i cereali. «La diffusione dei cereali è ben documentata in tutto il territorio della Magna Grecia – prosegue l’archeologa-: abbiamo innumerevoli testimonianze. Tra le più importanti, le tabelle Locresi, che documentano la vendita di granaglie miste e di orzo da parte del tempio alla città. – (Si tratta di 39 tavolette incise in bronzo, ora esposte al Museo Archeologico di Reggio Calabria, che costituiscono l’archivio contabile del Santuario di Zeus Olimpio sito in località Pirettina: risalenti ad un periodo compreso tra il IV ed il III secolo a.C., riportano in sostanza i prestiti in danaro fatti dai sacerdoti del Santuario di Zeus Olimpio alla città di Locri Epizefiri, ndr.)-.

Pinakes di Locri – Persefone con spighe di grano

Sempre a Locri, emblematici i pinakes locresi: tavolette di terracotta offerte alla divinità, con riprodotto il mito del matrimonio di Kore-Persefone con Ade il Dio degli Inferi, dove Persefone è raffigurata recante spighe di grano. Più in generale, il consumo di cereali è testimoniato dalla presenza di macine in quasi tutte le colonie, usate per triturare i chicchi ed ottenerne farina; mentre altre testimonianze attestano la preparazione ed il consumo diffusissimo di confezionare focacce e dolci offerte agli Dei in diverse occasioni».

Giove nutrito da Melissa
«Pasta al sesamo, fiocchi di grano, pizze dolci, miele chiaro fra tante leccornie… »–

Stesicoro, VII sec. a.C.

«Sento arrivare la primavera/ ornata di fiori./ Su presto mescete vino/ dolce come il miele/ Una coppa»

– Alceo, VII  -VI sec. a.C.

«Se non ci fosse il miele giallognolo, parrebbero tanto più dolci i fichi»

Senofane, VI sec. a.C.

I dolci

«Il miele era l’unico dolcificante a disposizione: i greci lo utilizzavano nella preparazione dei dolci come legante della farina e del grano. Il dolce più noto della pasticceria greca era la pyramis o pyramous, grano abbrustolito impregnato di miele. Lo troviamo spesso riprodotto nei pinakes e più volte citato da Ateneo ed Esichio; Ateneo in particolare definisce lo indica anche col nome di  sesamis, mentre nell’Etymologicum Magnum è descritta la variante a base di miele e sesamo. Altre varianti della pyramis presentano sulla superficie del dolce la presenza di sesamo o semi di papavero.

I mostaccioli di Soriano

Sempre sui pinakes locresi sono stati riconosciuti alcuni dolci antropomorfi simili in tutto e per tutto a quelli che ancora oggi si producono in alcune zone della Calabria, e attestano il fortissimo legame in essere con la pasticceria tradizionale della regione. È il caso dei “mustaccioli” di  Soriano Calabro, centro montano delle Serre vibonesi.

Le ciambelle

Ma anche le ciambelle, tutt’oggi frequenti nella pasticceria regionale, trovano riscontro nei pinakes, spesso accanto a grappoli d’uva e favi di miele. Parliamo del dolce circolare con una specie di umbone centrale (simili in tutto e per tutto alle nostre brioches), che Polibio (VI, 25) chiama “onfalatà pòmana” altrimenti detti placountes (cibo del quale si ciba il vorace Eracle ne Le Rane di Aristofane, 507 e ssgg.). Il termine placountes deriva dall’aggettivo placòeis, e secondo alcuni alluderebbe alla forma larga e piatta che veniva data a questa specialità (Ateneo Deipnosofisti XIV, 644); un placous ricoperto di formaggio è consacrato ad Apollo in un epigramma dell’Anthologia Palatina (VI,155). Altro tipo di dolce molto diffuso, i pemmata selenes: un “dolce a crescente lunare” a base di frumento, citato da numerose fonti (Alcifrone II, 4 e Euripide fr. 350 Noach) e spesso paragonato con l’analoga specialità alla quale veniva data spesso la forma delle corna di un bue.

Odnerni placountes di Rodi

Il pane

Donna che impasta il pane, c. 500–475 a.C., Museo archeologico nazionale di Atene

Oltre che per i dolci il frumento macinato si utilizzava anche per il pane: cibo per antonomasia, diffuso sin dagli albori della civiltà, e che ha caratterizzato le abitudini alimentari dei popoli del Mediterraneo. Tra le testimonianze più emblematiche, quella del poeta Alcmane, che menziona dei pani ricoperti di grani di papavero, e  ci ricorda come l’uso di decorare sia il pane che i dolci, ancora vivissimo nell’Italia meridionale, sia d’origine arcaica. In particolar modo, le capsule di papavero venivano utilizzate per estrarre l’oppium, il succo che si formava all’interno della capsula stessa, e che veniva utilizzato in farmacologia, come sedativo ed analgesico. I chicchi erano  invece utilizzati come alimento.

La frutta

Il Giardino delle Esperidi. Particolare di vaso greco

Con la Iannelli proseguiamo il viaggio nell’alimentazione magnogreca affrontando il consumo di frutta, altro cibo centrale, per simbologia e frequenza, nella tavola arcaica. «Grande era il consumo della frutta – specifica la studiosa –  sia durante i pasti quotidiani che nelle cerimonie sacre e nei riti funebri; da ricordare, i piccoli pomi col nome scientifico di malus silvestris, menzionati da Catone; varietà attestata  in Calabria fino all’inizio del secolo scorso, e che oggi ha lasciato il posto ad altre essenze che rispondono meglio alle esigenze del mercato. Comuni anche le pere i fichi, l’uva sacra a Dioniso (la vite era parte integrante, insieme all’ulivo, del paesaggio agrario magno greco): e ancora le melagrane, frutto sacro alla  dea Persefone».

I legumi e gli ortaggi

Cucumis melo flexuosus moderno

Molto diffuse anche le leguminose. «La ricerca archeologica sul territorio di Crotone e nel metapontino – specifica la iannelli – ha documentato la coltivazione di ben cinque varietà di leguminose, mentre quella delle fave è testimoniata dalle già citate tavolette bronzee di Locri, che documentano un debito contratto dalla città di Locri per comprare frumento e fave. Noto tra l’altro anche il dettato pitagorico che vietava l’uso delle fave. Fonti antiche documentano anche la coltivazione e l’uso alimentare del cavolo. Noti i “cavoli bruttini” cioè calabresi, dotati di grandi foglie, fusto sottile e sapore molto acuto. La frequenza di altre specie vegetali è attestata anche  dalla coroplastica rinvenuta (basti pensare ai tortarelli verdi, varietà di melone diffuso in tutta la Magna Grecia il cui  nome scientifico è Cucumis melo flexsuosus, e il cui gusto ricorda quello del cocomero, ma è meno indigesto; quando la sua maturazione è molto inoltrata il suo gusto varia avvicinandosi a quello del melone, così come cambia il colore che passa dal verde all’arancio pallido. Ma una menzione va fatta anche per le capsule di papavero).

Il latte, il formaggio: la purezza

Quanto ai latticini, costituiscono forse la fonte di nutrimento più importante, insieme ai cereali. «Trattando infine dei latticini, va specificato che i formaggi erano considerati alimenti con forte pregnanza religiosa, cibi intermediari tra gli dei e gli uomini: per i greci erano alimenti puri e mistici destinati ad alcune divinità dell’Olimpo (Zeus, Demetra, Artemide ecc). Innumerevoli le citazioni, le testimonianze e i riscontri sul ruolo primario che allevamento e pastorizia detenevano nell’economia complessiva della società e nella sua organizzazione.

«Basterà ricordare Omero: La pastorizia è largamente citata nell’Odissea, soprattutto nel Libro IX a proposito di Polifemo, un Ciclope di un popolo che non coltiva la terra (vv. 109-110) e non pratica il mare (vv. 125-129) ma che esercita la pastorizia con pecore e capre (v. 184) e ne trasforma il latte in formaggi secondo le tecniche in uso nel mediterraneo nel periodo omerico, tra il 600 e l’800 a. C.». (da: Il Formaggio di Polifemo, Giovanni Ballarini, Ruminantia).

Piatto di ceramica a figure rosse, c. 350–325 a.C., Louvre

La pesca, marginale

«Nonostante il mare sia ricordato dagli autori antichi come molto pescoso, sembra tuttavia che la pesca non sia stata un’attività economica rilevante  – prosegue l’archeologa-. Ciononostante, il pesce veniva comunque consumato in misura maggiore della carne. Già nell’antichità lo Stretto di Messina era noto per la pesca del pesce spada; sempre in Magna Grecia è documentata la pesca del tonno, e sono stati rinvenuti stabilimenti per la lavorazione di questo pesce in tutta la costa. Frequente anche il consumo dei molluschi (patelle, lamellibranche ecc.) ed ampiamente attestato negli abitati magno greci il rinvenimento di conchiglie; emblematico il caso di Locri, dov’è stato rinvenuto uno scarico di conchiglie di molluschi, alcune delle quali addirittura rimaste attaccate al fondo di una pentola».

La cucina greca: impossibile da replicare

«Lo studio dell’alimentazione greca e magno greca si basa su testi di autori che hanno scritto di cibo – conclude la Iannelli -. Testi di riferimento per tutto il mondo antico; tra questi, il trattato più importante, purtroppo andato perduto, è la Gastronomia di Archèstrato di Gela, del quale per fortuna rimangono alcune testimonianze indirette grazie ad un’altra grande opera:  i Deipnosofisti, “I sapienti in gastronomia”, scritta da Ateneo. Costui, nel suo trattato, esplora sia la cucina greca,  sia quella in uso presso altri popoli del Mediterraneo». Tuttavia, «Nonostante gli studi e le sperimentazioni, non è possibile riprodurre la versione originale delle pietanze e dei dolci greci (ma questo vale per tutta l’arte culinaria antica). Le fonti molto rare (la maggior parte delle opere di questo genere sono andate perse), sono avare di notizie culinarie e tutt’al più citano gli ingredienti e null’altro ci dicono del modo di aggregarli e cucinarli.  Di nessun aiuto a questo fine è quello che noi archeologi chiamiamo il dato materiale, cioè gli oggetti che ci sono pervenuti. Fermo restando che ovviamente sono passati millenni dalle versioni originali e sono cambiate i prodotti e il modo di produrre i cibi. Insomma dobbiamo accontentarci di versioni molto vicine all’originale ma non di più». Per nostra fortuna, però, le tradizioni popolari, dalla Sicilia alla Calabria, passando per la Puglia, conservano un’eco vivissima di tantissimi cibi rituali. Il Vibonese, a questo proposito, rappresenta una vera e propria isola fuori da tempo, il cui isolamento rurale ha permesso alle tradizioni millenarie di sopravvivere con straordinaria brillantezza.

Approfondimento

Il vibonese, dove il sacro ed il rito sopravvivono nel pane e nei dolci

E proprio sul pane e sui dolci d’origine arcaica, l’archeologa Anna Rotella da tempo porta avanti studi specifici, che indagano le preparazioni dolciarie ed in generale da forno della Calabria. «Molti dolci e pani tradizionali nelle aree magnogreche, specialmente quelle calabresi, hanno una fortissima connotazione sacra –specifica-. Uno degli elementi arcaici più forti è ad esempio l’utilizzo del sambuco, albero noto tanto ai greci quanto ai celti, legato al mondo dei morti, e connesso, anche nella tradizione cristiana, al momento del trapasso. Pensiamo ad esempio al pane col “Cucco”, o alla pitta filata che a Conidoni, nel vibonese, segna la festa di San Giacomo, il 25 luglio. Una pasta di pane stesa molto bene dove viene messo olio sale e fiori di sambuco secchi. Anche in questo caso l’utilizzo di questa essenza esprime il legame presente con il sacro. E non è un caso che proprio san Giacomo nella tradizione popolare calabrese sia il protettore del passaggio dal mondo dei vivi all’Aldilà: si vedano a tale proposito gli studi dell’antropologo Luigi Lombardi Satriani nel suo “Il ponte di San Giacomo”».

Il sambuco ed il passaggio dalla vita alla morte

Sambuco

L’associazione tra sambuco e riti di passaggio è frequente anche in altri pani rituali calabresi. Ed è una testimonianza viva del legame antichissimo tra arcaico, magico e tradizioni popolari ancora vitale nelle aree interne dei territori magnogreci. «Interessante in quest’ottica la combinazione di Conidoni: se si riuscisse a studiare la diffusione del sambuco nelle aree sacre potrebbero emergere dati interessanti. Così come, a mio avviso, è indispensabile tutelare queste nicchie di sapere pratico, legate agli usi popolari, che la tradizione calabrese mantiene. Un patrimonio immateriale da studiare ed approfondire».

Stefanaconi, il pane antropizzato

Pane di san Nicola

Spostandoci di pochi chilometri, a Stefanaconi, troviamo un’altra usanza radicatissima legata ai prodotti da forno: il pane di san Nicola. Un impasto lievitato e cotto a forma di pupazzo, cucinato il giorno del santo, a forma umana. «Antropizzare il pane è usanza mutuata direttamente dagli ex-voto pagani, greci – specifica la Rotella-. Si usava difatti raffigurare la parte del corpo per la quale si chiedeva l’intervento divino, a suo risanamento». Ancora oggi, il pane di san Nicola viene offerto e consumato nel piccolo centro del vibonese, proprio il 6 dicembre. Ed ogni famiglia ha la sua forma particolare, il suo modo di modellare l’impasto.

I mostaccioli di Soriano, l’arcaico che sopravvive

Ma la pratica dell’antropizzazione dell’impasto riecheggia anche nei mostaccioli di Soriano. «Siamo sempre nel vibonese, e quei biscotti a base di miele a forma di cornucopia, pesce, sirena, cavallo, uomo o donna, pescano nell’antico. Le forme, sono quelle quelle degli ex-voto presenti in tutte le feste popolari, sostanzialmente simili a quelle pagane. Sono biscotti tradizionali che mantengono un rapporto con il Sacro molto forte: e pur perdendo la funzionalità originaria, conservano intatta la forma originaria, il collegamento con la ritualità, seppure reinterpretata. In loro, sopravvive tutto l’apparato simbolico pagano. Il pesce, la cornucopia, i pezzettini di carta stagnola per travestire di preziosità l’offerta alla divinità: sono uno dei dolci che maggiormente ricordano l’origine rituale dei dolci della Grecia antica: ad iniziare dagli ingredienti base, che sono appunto il miele e la frutta secca e che rimandano ad un periodo in cui lo zucchero era ben lontano dall’arrivare».

Monica LA TORRE    Foligno 7 giugno 2020