di Stefania DE VINCENTIS
Una reale nostalgia.
«Courbet e al natura», Ferrara Palazzo dei Diamanti, fino al 6 gennaio 2019
“Un attaccamento sensuale gli è necessario per potersi distaccare dal motivo con un’immaginazione ingenua e sentimentale a un tempo. Se l’attaccamento sensuale viene meno, egli si abbandona all’abilità con frigidità spirituale. E l’arte non sgorga più. Questo è il limite e questa è la forza di Courbet. Più stretto è il limite e più è travolgente la sua potenza” Lionello Venturi, Pittori Moderni, Firenze 1946, pp. 143-161
Forse è per il suo scorrere lungo un confine che la retrospettiva ferrarese su Gustave Courbet evoca in maniera così prepotente le suggestioni di un viaggio. Un confine in primo luogo geografico che si apprende a partire dagli allestimenti, dove le pareti diventano una carta geografica che traccia i contorni dei luoghi cari all’artista e dove le opere, come puntine su una mappa, segnano i momenti essenziali di un itinerario storico e artistico. Fin dalle prime sale la produzione artistica viene narrata seguendo lo stile di un’istantanea fotografica, un’immagine rubata al momento, un selfie, come appare l’Autoritratto con cane nero (1842, Parigi, Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris) che apre il percorso espositivo e che, in linea con un certo narcisismo, è l’opera che rappresenterà l’artista al Salon del 1844 e ne introdurrà la fama. Lo sguardo scanzonato di un a quel tempo venticinquenne Courbet si fonde nei luoghi che si appresta con orgoglio a raccontare come di ritorno da una delle sue molte mete di viaggio.
Tra tutti, il più caro, quello in seno ai luoghi natii, a Ornans, cuore della Franca Contea, al confine- anche questo- con la Svizzera, i cui paesaggi traghetteranno l’arte del tempo dal romanticismo di Ingres e Delacroix, alla nuova corrente del realismo, e da cui prenderà le mosse, subito dopo, la riflessione impressionista.
Ma torniamo al viaggio. Lo stesso Courbet offre un paradigma della sua ricerca affermando che «per dipingere un paesaggio, bisogna conoscerlo. Io conosco il mio paese, lo dipingo» e dimostrando quanto questa ricerca si leghi profondamente ad un andare incessante e a un insistere sulla natura e sui suoi elementi. Le opere che si rincorrono lungo le sale altro non sono, infatti, che cartoline dai luoghi cari al pittore dove l’attenzione al bello della natura tradisce un sentimentalismo nostalgico stretto alle proprie radici.
La quercia di Flagey (1864, Ornans, Museé Gustave Courbet) par in tal senso esemplare dell’attaccamento ai luoghi natii. L’accuratezza nella riproduzione dei dettagli che legano il pittore al naturalismo mantiene visibili i tratti di una pulsione sentimentale, nostalgica, che ancora lo riporta a un idealità romantica, mentre la quercia, quale autoritratto in assenza, rappresenta la natura forte e vigorosa dell’autore. “Se Delacroix, il pittore del romanticismo, aveva un temperamento poco romantico, Courbet, il pittore del realismo, soffriva della mania egocentrica di un vero romantico” [1]. Il contrappunto letterario offerto da Julian Barnes riesce ritrarre fedelmente e in pochi tratti la personalità di Courbet.
La sua formazione di paesaggista si consolida attorno ai territori della sua Ornans, luoghi montani, ricchi di contrasti, ruvidi e spigolosi, dove la maestosità della natura emerge in maniera monumentale e che egli celebrerà in ogni veduta della sua successiva produzione, nel corso dei suoi numerosi spostamenti. Un paesaggio determinato dall’artista, “scolpito con la fatica delle gambe”[2], percorso e vissuto, testimone di un legame fisico oltre che sensoriale. La sua instancabile pulsione per il viaggio lo porterà a muoversi tra il nord e il sud della Francia, oltre che in Olanda, Belgio, Germania e Svizzera, preferendo l’amore per la campagna delle regioni del nord Europa all’allora più consueto tour di formazione in Italia.
Gli amati altopiani attorno a Ornans saranno il modello per ogni scorcio successivamente rappresentato, dalle marine alle scene di caccia, quali appunti su cui poi lavorare ulteriormente in studio, cartoline o talismani, indici di un pathos romantico o, ancora, di una nostalgia che tuttavia non devia dagli intenti di una rappresentazione realistica e sensuale. Le fotografia naturalistica, agli albori della sua resa tecnica, sarà un espediente di cui l’artista si doterà spesso nella realizzazione dei suoi scenari. Si servirà ad esempio di una fotografia per dipingere il nudo raffigurato nel quadro L’atelier del pittore (1854-1855, Parigi, Musée d’Orsay) e come lui altri artisti saranno debitori alla nuova tecnica che permetteva di beneficiare del “disegno tangibile della natura” secondo le parole di Eugène Delacroix in una lettera all’amico Durieu[3].
Individualità dei modi, contemporaneità del tema, concretezza, realismo e bellezza, quest’ultima propria della natura di per sé carica di quella espressività che all’artista era vietato di alterare. Lungo le sale, squarci di rocce calcaree si confondono in macchie di vegetazione, impastati all’interno di una pittura corposa e densa senza però diventare informe. Siamo ancora lontani dalle impressioni di Monet dello stagno di Giverny, dove per dipingere en plein air le sue ninfee l’artista ricostruirà quella cornice naturale artificialmente. La realtà rappresentata sulle tele di Courbet è ricostruita in studio, molte volte abbozzata all’aria aperta e poi ultimata nel proprio atelier, un ricostruire sulla base del ricordo[4].
Quali fotogrammi, all’artista del realismo spetterà il compito di ricomporre le scene catturate dalla natura rifuggendo la pura copia mimetica in favore di un logica compositiva che segue il particolare punto di vista dell’autore. Nuovamente appare visibile l’accostamento fotografico come se gli scorci paesaggistici, le figure, le nature morte fossero i dettagli di una più grande inquadratura fotografica. La natura rappresentata da Courbet è mutevole, metamorfica, non offre uno sfondo alle figure ma le immerge e le confonde in un’unica grande composizione paesaggistica. L’intimità con cui Courbet si accosta alla natura, l’intuizione con cui riesce a cogliere negli aspetti naturali quelli più vitali, nuovamente suggerisce l’immediatezza e la capacità di penetrazione attraverso lo sguardo proprie dei primi fotografi.
“Se la teoria fotografica si impara in un’ora…quello che non si impara è il senso della luce è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate… Quello che si impara ancora meno, è l’intelligenza morale del tuo soggetto- è quell’intuizione che ti mette in comunione col modello, te lo fa giudicare, ti guida verso le sue abitudini, le sue idee, il suo carattere, e ti permette di ottenere, non già, banalmente e a caso, una riproduzione plastica qualsiasi, alla portata dell’ultimo inserviente di laboratorio, bensì la somiglianza intima”[5].
Come la citazione di Nadar tradisce il suo profondo legame con i modelli da lui fotografati, così Courbet dimostra nei suoi brani di paesaggio la profonda conoscenza di quel modello di natura che si ripete anche nei corpi raffigurati al suo interno, quale ricerca linguistica che forza la percezione del reale. Non stupisce che Flavio De Marco, uno dei due artisti, insieme a Eva Jospin, chiamati a dialogare attraverso il proprio lavoro con l’opera del Maestro, dichiari che “guardare Courbet [per me] significa capire che un pittore di paesaggio dipinge un paesaggio anche quando dipinge un ritratto o una natura morta”[6].
L’immagine fotografica irrompe nel percorso espositivo – perché di un vero e proprio itinerario si tratta – ingannando lo sguardo del visitatore, al tempo stesso turista e viaggiatore, con le riproduzioni su light box di fotografie dell’epoca che, nello schermare le imponenti finestre di palazzo dei Diamanti, le aprono su panorami dalla luce ovattata, su boschi e marine.
Queste ultime soggetto dalla produzione prolifica, frutto sia del felice e ispirato periodo di soggiorno nel 1854 a Montpellier presso il mecenate e amico Alfred Bruyas, sia dei soggiorni sulla costa normanna. Se i primi evocano poemi del mare dai cieli liquidi, nei secondi gli orizzonti marini si caricano di aggressività tangibile nelle raffigurazioni, in oltre trenta varianti, di onde.
Un soggetto che egli trattò con una produzione industriale, che riscuoteva un forte successo di pubblico e le cui numerose repliche gli consentirono di far fronte, negli anni dell’esilio in Svizzera, ai debiti per il risarcimento della distrutta colonna di Place Vendôme in seguito alla sua adesione ai comunardi di Parigi. Di certo Courbet, oltre che alla resa realistica della natura, non è disinteressato al contatto con la realtà materiale del vivere umano, adottando volutamente un lato bifolco, arrogante e chiassoso del fare artistico, che per un artista di venticinque anni trasferitosi a Parigi da un villaggio di montagna era sicuramente un modo per mantenere viva su di sé l’attenzione. A questa astuzia si può imputare una certa moda nella scelta dei soggetti dei suoi quadri, influenzata anche dalla visione di opere provenienti dai paesi asiatici. Difficile non notare la somiglianza tra il moto congelato delle onde di Courbet, “muri vetrosi di acqua compatta sotto la schiuma” come li volle a sua volta dipingere Giuliano Briganti[7],
e i tratti formali di quel mondo fluttuante protagonista delle xilografie di Katsushika Hokusai (1760 – 1849),
le cui celebri Trentasei vedute del monte Fuji sono proprio in questi giorni protagoniste della mostra al Museo Civico Archeologico di Bologna.[8] Benché il debito della pittura di Courbet all’arte del maestro giapponese meriti ulteriori approfondimenti, si può ironicamente azzardare che egli abbia letteralmente cavalcato l’onda del successo legato alla fortuna dei quadri di soggetto marino scegliendo di dedicare una gran parte della sua produzione alla raffigurazione di paesaggi increspati da acque serene e profonde quanto violente e fragorose. Una produzione messa a frutto durante soggiorni rivieraschi sul mediterraneo o sulle coste della Normandia, dove Courbet esprime il suo forte sentire la realtà nel saper rappresentare con abilità plastica e con una qualità materica e scultorea la forza degli elementi. Soggetti poco complessi e immediati che gli permettevano di assecondare gli stati contemplativi che gli orizzonti marini suscitavano nell’osservatore e per il quale i dipinti di Courbet diventavano il miglior souvenir di una vacanza. Tema quello del souvenir che ritorna nel lavoro del già citato De Marco, e che egli esprime nei suoi studi sul paesaggio all’epoca del turismo di massa protagonisti del progetto letterario e pittorico Stella (2011-2013).
Dal dipinto frutto di una composizione di ricordi al quadro realizzato per ricordo. Un aspetto “ciarlatano” del fare pittura, come lo interpreta Flaubert, che racconta di un uomo attento non solo allo spettacolo della natura, ma anche al suo spettatore e che non esita a diventare promotore della propria arte sfruttando in maniera pubblicitaria il mezzo fotografico per realizzare copie delle proprie opere.
Il paesaggio di Courbet da archetipo del genere pittorico non disdegna di diventare lo stereotipo di una pittura di facile consenso, ma che non sminuisce la potenza e il genio di un artista che pare farsi beffe di ogni dottrinario criticismo.
NOTE