Copyright a chi? Riflessioni a freddo sulle opere d’arte create dall’Intelligenza Artificiale.

di Gloria GATTI

Avvocato

Se negli anni ottanta ci chiedevamo come Rick, un cacciatore di replicanti, avesse potuto innamorarsi di ”un esperimento, niente di più” di nome Rachel[1], a “noi umani” è toccato addirittura domandarci se saremo stati capaci di provare un brivido d’emozione davanti ad un ritratto di Rembrandt[2] creato da una macchina e se la macchina che l’aveva creato potesse essere o meno considerata un autore.

Il Ritratto di Edmond Belamy (quadro venduto da Christie’s; da Quotidiano.net)

Il tema del copyright delle opere create da una Intelligenza Artificiale era parso estremamente intrigante e urgente dopo che il “Ritratto di Edmond Belamy”, un’esteticamente discutibile stampa a getto di inchiostro prodotta da un GAN (Generative Adversary Network) creato dal collettivo francese Obvious, nutrito con le immagini digitalizzate di circa quindicimila ritratti realizzati tra il quattordicesimo e il ventesimo secolo, era stato venduto a ottobre del 2018 da Christie’s a New York a 432.500,00 USD spese incluse[3].

Il dilemma filosofico su cosa è arte, invece, ci attanaglia, però, da ben prima di Blade Runner e della “nascita” della famiglia Belamy e si è imposto con prepotenza a partire dalla Fontana di Duchamp, ma  l’unica buona risposta al dilemma sulla tutela autoriale dell’opera d’arte creata da un’Intelligenza Artificiale potrebbe fornircelo ancora proprio il cartellino scritto da Duchamp per accompagnare l’orinatoio alla prima esposizione dell’opera alla Società Americana degli Artisti indipendenti, che si aprì a New York nell’aprile 1917:

«Che il signor Mutt abbia realizzato con le sue mani o meno la fontana non ha importanza. Egli l’ha scelta. Ha preso un oggetto della vita quotidiana, collocandolo in maniera tale che il suo significato scompare grazie al nuovo titolo e al punto di vista – ha creato un nuovo pensiero per questo oggetto»[4].

Come il ready made, così le opere di AI diventano degne di tutela se l’artista le sceglie e le fa proprie. In proposito Emilio Isgrò[5] sostiene:

L’artista si innamora delle mille possibilità suggestive che consente una macchina e sceglie se farle sue, perché il potere di riconoscere l’opera d’arte è sempre di un uomo”.

La distonia tra la massima espressione del genio umano e il freddo calcolo di un elaboratore di dati, si annulla se il prodotto cattura l’anima dell’artista che le attribuisce un nuovo significato, diventando forma espressiva di un’idea che l’artista fa propria.

In questo modo l’AI, al pari della macchina fotografica del pennello, resta solo il mezzo attraverso cui il processo creativo umano si realizza.

Questo era lo spirito che aveva animato Nanni Balestrini quando nel 1961 tramite il calcolatore elettronico IBM 7070 aveva composto l’opera Tape Mark I ossia, una “poesia combinatoria” pubblicata nell’ “Almanacco Letterario Bompiani” 1962, da considerarsi di fatto e, nonostante l’ingiustizia e l’ignoranza delle cronache, la prima opera di un’AI.

Come ha spiegato lo stesso Balestrini in una delle sue ultime interviste, (http://gammm.org/wp-content/uploads/2007/02/nanni-balestrini.-tape-mark-I.pdf, ove tutte le operazioni sono ben illustrate), partendo dai testi di tre opere letterarie altrui il Diario di Hiroshima di Michilito Hachiya, Il mistero dell’ascensore di Paul Goldwin e il Tao te King di Laotse e costituiti da sintagmi a loro volta formati da 2 o 3 unità metriche e contraddistinti da un codice di testa e uno di coda a indicare le possibilità sintattiche di legame è stata tratta dal calcolatore programmato da un ingegnere che su istruzioni di Balestrini ha realizzato l’algoritmo che ha “creato” una poesia di sei strofe di sei versi ciascuna con ogni verso di 4 unità metriche; ciascuna strofa risulta formata da una diversa combinazione parziale del testo.

L’elaboratore ha prodotto centinai di “poesie” e tra quelle Balestrini ha scelto le 6 che gli piacevano di più, la prima è quella di seguito riportata:

La testa premuta sulla spalla, trenta volte/ più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno./ finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine/ delle cose accade, alla sommità della nuvola/ esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono/ la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.”

Sul fatto che Balestrini non fosse l’autore dell’opera, benché le poesie fossero state create dal calcolatore elettronico, non vi è mai stato dubbio, come già prima di lui Tristan Tzara era stato ritenuto pacificamente autore della sua poesia dadaista estratta a caso negli anni ’20[6].

Del resto, il tema della presenza di una mente non umana nel processo di creazione di un’opera d’arte era già stato affrontato dalla giurisprudenza statunitense grazie a un bizzarro caso che ha avuto come protagonista un animale.

Nonostante l’ampio risalto ottenuto nelle cronache dai selfie della scimmia Naruto, il Copyright Office statunitense negò il riconoscimento del diritto d’autore al fotografo che aveva messo a disposizione la macchina fotografica all’animale[7] e negò, pure, che Naruto potesse, in base al Copyright Act, avere dei diritti in caso di copyright infringement in quanto animale[8].

Senza la scelta umana l’attuale assetto normativo contenuto nell’art. 6 l.d.a. che prevede cheil titolo originario dell’acquisto del diritto di autore è costituito dalla creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale“, non concede alcuna tutela autoriale autonoma alle opere generate da una AI.

La Baronne de la Belamy (Obvious Art & Art)

I deludenti risultati delle vendite delle altre opere del collettivo Obvious:la Baronne Belamy” è stata battuta da Sotheby’s il 15 novembre 2019 a soli 25.000,00 USD e  Memories Glacier è andata invenduta, sempre da Sotheby’s, il 14 maggio 2020 nonostante una stima di appena 9.000/13.000,00 euro, ci portano a pensare con sollievo che neppure il mercato dell’arte abbia mostrato un interesse durevole verso le stesse e che, quindi, non sia necessaria alcuna riforma legislativa per riconoscere tutela a una “creatività” non umana e che l’eclatante risultato d’asta del “Ritratto di Edmond Belamy” sia stato soltanto l’ennesimo prodotto di un’accattivante campagna marketing messa in essere da una casa d’aste per invogliare i collezionisti a possedere l’ultimo vitello d’oro.

A riprova di ciò, alcuni artisti contemporanei hanno iniziato a lavorare con l’Intelligenza Artificiale in modo critico. È il caso di Hito Steyerl che alla Biennale d’Arte 2019 di Venezia ha usato l’AI in moro irrisorio e facendo rispondere l’algoritmo in maniera falsa o inconferente rispetto alla domanda che gli veniva posta.

Anche l’artista nipponico Aaajaio, che in realtà non è il suo vero nome ma quello del suo avatar, che ha esposto dalla galleria House of Egorn l’opera vincitrice del premio Illy per la sezione Present Future ad Artissima 2019 ha presentato un’opera ove un algoritmo creava immagini che ricordavano a quelle dei videogames degli anni ‘80 ma che davano l’impressione di perdere i pixel, per rappresentare il concetto che i troppi ausili alla creatività umana in primis l’AI provocavano la perdita della stessa.

Resta, quindi, buono ancora oggi il principio di Piola Caselli quando afferma che

“il contenuto intellettuale di un’opera tutelabile si presenti come il risultato di un lavoro di creazione, cioè di una attività mentale che abbia posto in essere elementi che prima non c’erano”

e per ridare un po’ di giustizia al dimenticato Balestrini, perché solo l’uomo è capace di quel “vogliamo tutto” che gli permette con ogni mezzo di trasformare qualsiasi materia in arte.

Gloria GATTI  Milano 10 gennaio 2021

NOTE

[1] Blade Runner, Ridley Scott, 1982
[2] https://www.nextrembrandt.com/ The Next Rembrandt è un falso più perfetto, sviluppato da Microsoft e sponsorizzato da ING, in collaborazione con il Rembrandt House Museum. Il team di programmazione ha individuato il tipo di soggetto da ritrarre e le sue relative caratteristiche (maschio caucasico, sulla trentina, con abiti seicenteschi) e immesso nel programma un database con tutte le opere create dell’artista. La macchina è stata così in grado di “plagiare” Rembrandt producendo tramite l’autonoma elaborazione dei vari input forniti dai programmatori, un ritratto stampato in 3D[2] ossia un output finale che non è frutto di un percorso guidato passo a passo dall’uomo.
[3] https://www.christies.com/features/A-collaboration-between-two-artists-one-human-one-a-machine-9332-1.aspx
[4] Di esso rimane una testimonianza nella fotografia che Alfred Stieglitz realizzò all’epoca della sua temporanea presenza nei locali della galleria (si può intravedere infatti a sinistra il cartellino d’ingresso), fotografia che comparve su «The Blind Man», una rivistina dada dove la polemica fu presentata con il titolo di The Richard Mutt case
[5] Intervista inedita rilasciata direttamente all’autrice.
[6] PER FARE UNA POESIA DADAISTA
Prendete un giornale.
Prendete un paio di forbici.
Scegliete nel giornale un articolo che abbia lunghezza
che voi dare alla vostra poesia.
Ritagliate l’articolo.
Tagliate ancora con cura ogni parola che forma tale articolo
E mettete tutte le parole in un sacchetto.
Agitate dolcemente.
Tirate fuori le parole una dopo l’altra, disponendole nel-
l’ordine con cui le estrarrete.
Copiatele coscienziosamente.
La poesia vi rassomiglierà.
Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e
fornito di una sensibilità incantevole, benché, s’intende, in-
compresa dalla gente volgare.
Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro letto a Parigi il 12 dicembre 1920 e pubblicato nel 1921
[7] Paul Lambert, Computer-generated works and copyright: selfies, traps, robots, AI and machine learning, in  European intellectual property review, 1, vol. 39 (2017), p. 15.
[8] Naruto V. Slater 888 F.3d 418 (9th Cir. 2018).