Con Caravaggio non si “Bara”. Un volume di Richard Spear ripercorre la vicenda artistica e processuale dei famosi “Bari – Mahon”

di Massimo FRANCUCCI

I Bari di Caravaggio a processo

Ricordo bene il clamore che ha accompagnato la presentazione da parte di Sir Denis Mahon di una versione dei Bari di Caravaggio quale autografo del pittore lombardo.

I Bari, versione Mahon
I Bari, Kimbell Art Museum

Il dipinto, infatti, era passato quasi inosservato ad un’asta Sotheby’s, assurgendo agli onori delle cronache al momento del suo riferimento al maestro lombardo, avallato quasi immediatamente da altri esperti caravaggisti quali Mina Gregori e Maurizio Marini. L’opera aveva presenziato a una mostra allestita a Trapani Caravaggio e l’immagine del divino, in seguito era stata esposta a Cento, patria del Guercino e, adottiva, di Mahon stesso che tanto si è speso per la riscoperta internazionale del pittore emiliano, per passare infine a Forlì, in occasione della memorabile rassegna dedicata a Guido Cagnacci, nella quale si indagavano in maniera peculiare i contatti tra la pittura emilianoromagnola ed il naturalismo romano e dove forte era la presenza di Caravaggio e i suoi seguaci [1].

In quell’occasione fu approntato un catalogo dedicato al dipinto [2], in cui la parte da padrone la faceva l’intervento di Mina Gregori, Un altro autografo dei Bari di Caravaggio [3], in cui si portavano numerosi punti a sostegno dell’autografia, tra i quali l’alta qualità e alcuni elementi suggeriti dalle indagini scientifiche.

Tra questi spiccava la presenza dell’occhio del vecchio baro, dipinto e poi coperto dal cappello del giovane truffato, un modus operandi che sarebbe stato impossibile da giustificare in una copia. Dal vivo questa sensazione era forte, quasi che fossimo tutti colti da una suggestione collettiva, peccato che le radiografie sembrino smentire il tutto: nel resto del quadro la sclera è sempre dipinta con colori radiopachi, dunque si sarebbe dovuto distinguerla agevolmente anche sotto al cappello, ma questa cosa invece non si verifica. Oltre a ciò, la tela mostrava qua e là qualche caduta di qualità, pur reggendo bene il palcoscenico che le era stato allestito.

Perché dunque tornare a parlare del dipinto scoperto da Mahon a quasi tre lustri di distanza? Per la ragione che il precedente proprietario della tela, Lancelot Twaytes, ha deciso di portare in giudizio Sotheby’s, ritenendo a suo parere la casa d’aste colpevole di negligenza, per non aver valorizzato il dipinto, per non aver effettuato una riflettografia a infrarossi, per non essersi avvalsa del giudizio esterno di un conoscitore caravaggesco e dunque, come sarebbe venuto fuori nel corso delle udienze, non aver sfruttato il ‘potenziale’ Caravaggio (Caravaggio Potential) di un dipinto che appariva sempre di più una delle tante copie, sebbene forse la migliore, dell’originale gelosamente custodito in Texas, a Fort Worth.

I due contendenti avevano nominato degli esperti per favorire la discussione in aula e Sotheby’s si era rivolta a Richard E. Spear, che ha deciso di raccontare in un libro Caravaggio’s Cardsharps on Trial[4], questa vicenda in qualche modo singolare anche per uno storico dell’arte affermato e di esperienza come lui.

Immancabile premessa per tutta la questione è senza dubbio l’esplosione della “Caravaggio Mania” che negli ultimi settant’anni ha visto il pittore lombardo assurgere all’empireo dei pittori ‘venerati’ e conosciuti dal grande pubblico, con le sue opere entrate nell’immaginario generale e ricercate per mostre e sfruttate nel merchandising, anche il più bizzarro, una metamorfosi incredibile solo pensando a quale fosse la situazione all’inizio del Novecento prima degli studi aurorali di Roberto Longhi (con Pietro Toesca) e Lionello Venturi. Sarà la grande mostra milanese del 1951, curata dallo studioso di Alba, a lanciare definitivamente il pittore, portando ad una proliferazione di studi, pubblicazioni e mostre che non conosce ancora soluzione di continuità.

A quanto detto si aggiunga la scarsità di opere autografe in mano privata, al momento, credo che solo la Conversione di San Paolo Balbi/Odescalchi veda convergere il giudizio degli studiosi di riferimento, e che poche opere del Caravaggio sono transitate sul mercato dell’arte negli ultimi decenni: queste premesse giustificano il clamore che accompagna ogni nuova scoperta o presunta tale. Tra gli ultimi dipinti posti in vendita sarà necessario nominarne un paio poiché in qualche implicati nella questione, i Musici del Metropolitan Museum of Art di New York, ceduti nel 1952, subito dopo la mostra milanese, al museo americano perché posseduti dallo stesso Surgeon Captain W. G. Thwaytes che, da appassionato collezionista di Caravaggio, aveva acquistato i Bari poi ‘Mahon’[5]; l’altro è il quadro di medesimo soggetto comprato nel 1987 dal Kimbell Art Museum di Fort Worth.

Oltre alla qualità stupefacente a provare l’autografia dei Bari di Fort Worth c’era il pedigree della sicura provenienza dalla collezione del Cardinal Del Monte, il primo grande protettore di Caravaggio, il cui marchio si trova impresso sul retro della tela, il medesimo che si riscontra sul verso della Buona Fortuna della Pinacoteca Capitolina di Roma, nonché sul dorso del San Sebastiano di Guido Reni della stessa raccolta.

Dunque il processo tenutosi all’alta corte di Londra doveva dirimere alcune questioni molto importanti, ossia le responsabilità di una casa d’aste prestigiosa come Sotheby’s quando un’opera le viene consegnata, i limiti della connoisseurship e, implicitamente, la possibilità che Caravaggio abbia dipinto repliche autografe, ipotesi che al momento rimane a dire il vero sub iudice. L’autore infatti non lo esclude a priori, ma sostiene che non ve ne sia un solo caso accertato o per lo meno convincente. In effetti si concorda con Spear, con l’eccezione del Ragazzo morso da un ramarro della Fondazione Longhi, che rimane ancora difficile degradare a mera copia[6]. Anche sulla questione dei due San Francesco romani ci sembra di dissentire perché a dire il vero, se uno dei due è autografo, lo sarà quello di Carpineto, esposto a Palazzo Barberini[7].

Molti sostengono inoltre che la pulitura avesse in qualche modo conferito al dipinto scoperto da Sir Denis l’aspetto della copia, che non aveva al momento del passaggio in asta, quando le vernici ossidate giocavano evidentemente a suo favore. Leggendo il resoconto del processo sembra in effetti che la vera questione riguardasse più che l’autografia tout court del dipinto, sempre più traballante, il suo ‘potenziale Caravaggio’ non sfruttato (Caravaggio Potential). Secondo il ricorrente, in parole povere, a seguito del parere di Mahon, Gregori e Marini, anche se ‘sbagliato’, il dipinto avrebbe potuto strappare una valutazione ed un prezzo ben maggiori delle 42.000 sterline (50.400 con i diritti) effettivamente battute in asta.

Si tratta di tre nomi molto autorevoli, anche se Sir Denis all’epoca aveva superato i novant’anni da un po’ e solo l’anno prima aveva proposto come Caravaggio un San Pietro penitente che lascia particolarmente interdetti e poteva, come afferma l’autore, far dubitare delle sue capacità di connoisseurs, un tempo infallibili [8]. Oltre a questo i Bari sembravano per lui la possibilità di coronare un sogno espresso poco tempo prima, ossia porre rimedio al rammarico di non possedere un dipinto del Caravaggio e chissà che come sostiene Spear questo non lo abbia spinto ulteriormente a credere nell’autografia e nella scoperta.

Purtroppo, al momento del processo, Mahon era scomparso, così come pochi mesi dopo di lui era venuto a mancare Maurizio Marini che, sebbene molto più giovane, aveva speso un’intera vita nello studio del pittore milanese. Egli è stato forse il massimo ‘espansionista’ del corpus caravaggesco, avendovi incluso molte seconde versioni, alcune delle quali ipotizzava fossero state realizzate in collaborazione con altri pittori. La professoressa Gregori rimaneva dunque sola a spendere la sua autorità a supporto dell’attribuzione, mentre si levava più di una voce contraria tra gli altri studiosi[9].

Come afferma giustamente Spear, è impossibile distinguere tra i materiali e le tecniche usate da Caravaggio e quelle dei suoi contemporanei

“one cannot differentiate with any certainty between the materials and tecniques used by Caravaggio and those used by his contemporaries[10].

Quindi, come affermato da Peter Sutton a proposito di Rembrandt, ma con valenza universale, le analisi scientifiche possono escludere l’autografia, in caso di materiali incompatibili con l’epoca di esecuzione, ma mai confermarla, né assegnare un’opera rigettata a un allievo o un seguace[11].

Unica eccezione potrebbe essere un pentimento non giustificabile nell’opera di un copista, come ad esempio poteva essere l’occhio dipinto sotto il cappello del giovane truffato, ma come si è detto la sua presenza non è stata certificata dalle indagini radiografiche. Allo stesso modo non hanno portato a niente di definitivo la presenza di una striscia aggiunta in passato alla tela in Texas, che faceva combaciare le misure con il dipinto Mahon, così come la presenza di una ‘massa scura’ alle spalle del giovane che potrebbe corrispondere con quello che si vede in una stampa del dipinto realizzata da Giovanni Volpato nel 1772.

Altro elemento importante era la presenza di una riproduzione fotografica della fine dell’Ottocento quando il dipinto si trovava in collezione Sciarra/Barberini – il Cardinale Antonio Barberini lo aveva acquistato nel 1628 dagli eredi Del Monte – che però, nella tecnica aurorale, riesce in maniera singolare a mostrare elementi che farebbero pensare qui alla tela Kimbell, là al quadro Mahon. Dunque anche le indagini diagnostiche avevano fallito, eppure tra le mancanze di cui la casa d’aste veniva accusata c’era la non effettuazione di una riflettografia a infrarossi, dopo che la radiografia non aveva scalfito la convinzione condivisa da tutti gli esperti di Sotheby’s, che l’opera fosse una copia realizzata da un bravo seguace. D’altra parte queste indagini sono molto costose – Mahon vi ha speso quasi la stessa cifra sborsata per il quadro – ed è impossibile pensare che vi vengano sottoposti tutti i dipinti proposti in vendita.

Alla fine il giudice ha rigettato tutte le accuse, aggiungendo a riguardo del mancato ‘potenziale’ Caravaggio (Caravaggio Potential) che non è la corte la sede per stabilire se Thwaytes avrebbe potuto guadagnare più soldi grazie al parere ‘sbagliato’ di alcuni studiosi.

Il libro è condotto con estremo rigore metodologico e un’aspirazione alla completezza che, trattandosi di Caravaggio, espande a dismisura le dimensioni dello scritto. La prima parte è svolta come un lungo saggio sulla questione del dipinto e delle copie di Caravaggio, oltre che sui limiti della connosseurship e delle indagini diagnostiche, mentre la fase più corposa è dedicata al processo e, per correttezza, si fa molto riferimento ai verbali rendendo in alcuni momenti la lettura non così rapida, anche se sempre appassionante. Un lavoro imponente se solo si pensa che, come afferma Spear, si sarebbe potuto condensarlo tutto affermando, semplicemente, che il dipinto è il miglior testimone di se stesso[12].

Massimo FRANCUCCI    Roma 24 gennaio 2021

NOTE

[1] Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni, a cura di D. Benati, A. Paolucci, Forlì, 2007.
[2] Caravaggio. I Bari della collezione Mahon, a cura di D. Benati, A. Paolucci, Cinisello Balsamo, 2008.
[3] Ibidem, pp. 46-83.
[4] R.E. Spear, Caravaggio’s Cardsharps on Trial. Twaytes v. Sotheby’s, London, The Burlington Press, 2020, 384 pagine.
[5] Per la precisione aveva comprato il dipinto nel 1962, quindi molto dopo la cessione dei Musici.
[6] Il primo a porre dei dubbi sulla versione fiorentina è stato Sebastian Schütze, Caravaggio. Das vollständige Werk, Colonia, 2009, n. 3a.
[7] Mentre Spear ritiene autografa la versione dei Cappuccini. Nel libro non viene citato il problema della Crocifissione di Sant’Andrea “Back-Vega”, che d’altra parte non rientra nella questione essendo una pala d’altare, cui l’autore ha d’altra parte dedicato un articolo sul Burlington Magazine: Caravaggio’s “Crucifixion of St Andrew” and the problem of autograph replicas, in “The Burlington Magazine”, 1383, 2018, pp. 454-461, pubblicato a breve distanza dal libro di G. Papi, La Crocifissione di Sant’Andrea Back-Vega, Milano, 2016.
[8] Caravaggio. San Pietro penitente con il gallo. Il restauro, a cura di D. Mahon, Venezia, 2005.
[9] Come riporta Spear, oltre a lui hanno pubblicato la tela come copia Sebastian Schütze, Sybille Ebert-Schifferer e John Gash, e menziona un parere per email di Francesca Cappelletti che conviene con questo giudizio.
[10] R.E. Spear, Caravaggio’s Cardsharps on Trial. Twaytes v. Sotheby’s, London, The Burlington Press, 2020, p. 124.
[11] P.C. Sutton, Rembrandt and a brief history of connoisseurship, in R.D. Spencer, The expert versus the object: judging fakes and false attributions in the visual arts, Oxford, 2004, pp. 29-38, in part. p. 30. Tra le analisi scientifiche non va ovviamente compresa la pulitura.
[12] Così come aveva affermato Edward Steichen al momento di testimoniare in favore di Costantin Brancusi, il cui Bird in the space non era stato considerato arte al momento della sua importazione negli Stati Uniti, venendo sottoposto alla tassazione prevista per gli utensili da cucina “Table, Household, Kitchen and Hospital Utensil” per la precisione.