“Cavalieri e cavalli a Palazzo”: Marino Marini a Bologna, Palazzo Boncompagni, fino al 15 maggio 2022,

di Beatrice BUSCAROLI

CAVALIERI E CAVALLI A PALAZZO, Bologna, Palazzo Boncompagni, fino al 15 maggio 2022, a cura della Fondazione Marino Marini, Pistoia

Talento precoce, a 16 anni, nel 1917, è allievo di Galileo Chini all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Ama Piero delle Francesca, la solidità plastica delle sue figure, la fermezza del disegno e della composizione. Vicino all’esperienza di Valori plastici, rivendica tuttavia un forte ascendente per quell’identità “toscana” che ritroviamo nello “strapaese” del “Selvaggio” e nelle prime esperienze plastiche a partire dal 1922 – anno in cui comincia a frequentare le lezioni di scultura di Domenico Trentacoste. Ma la vera svolta avviene nel 1927. Selezionato per la Mostra di Arti Decorative di Monza – su suggerimento del consiglio composto da Giò Ponti, Margherita Sarfatti, Carlo Carrà e Mario Sironi – Marini conosce Arturo Martini.  Grazie alla stima e all’amicizia di Martini, Marini succede al proprio mentore come insegnante di scultura  presso l’ISIA di Monza.

Trasferitosi a Milano, la grammatica plastica di Marini comincia ad attivare le declinazioni di un novecentismo tutto personale rimanendo fedele a pochi soggetti e temi cui l’artista resta fedele per tutta la sua esperienza: il ritratto, la figura e il gruppo equestre.

Cavalli e cavalieri costituiscono dunque uno degli spazi tematici decisivi per l’esperienza dell’artista toscano, dove il richiamo all’arcaismo della funeraria estrusca viene non di rado mitigata sia da ascendenze che richiamano i modi di Medardo Rosso, sia da un realismo dai contorni giocosi.

“L’idea di Cavalli e Cavalieri – confida Marini a Franco Simongini in un’intervista per la RAI del 1975 – nasce da un bisogno di una certa forma architettonica, che ad un certo momento ti soddisfa lo spirito e allora continui a cercare questa forma, dandogli una realtà sempre maggiore”.
Marino Marini, San Giorgio e il drago, Monza, Musei Civici

Tutto ha inizio verso il 1930-31, con il San Giorgio e il drago (realizzato a Monza e qui conservato), ma la visione del Bamberger Reiter, l’enigmatica sublime statua equestre collocata nella cattedrale di Bamberga, visitata da Marini nel 1934, costituisce un terminus a quo che modifica la sua investigazione sulla relazione spaziale e compositiva dei soggetti in campo. Figura archetipiche, di memoria etrusca certo, ma portate ad una progressiva compressione delle masse e dei volumi, fino alla scomposizione geometrica delle figure. Ed è il disegno che supporta e arricchisce questa processo originale, come viene ben evidenziato dall’impianto della mostra bolognese.

“Se si chiama pittura, se si chiama disegno, non so. Tutta questa preparazione pittorica viene sempre prima del fatto della scultura. Cioè, è un po’ un’eliminazione: c’è l’idea, anzi, tante idee sull’idea, e le elimini dipingendo, perché dipingendo crei una composizione”.

Le opere, diciotto sculture tutte di proprietà della Fondazione Marini, alcuni grandi dipinti e uno straordinario gesso di collezione privata, trovano oggi ospitalità in un palazzo tardo rinascimentale bolognese, Palazzo Boncompagni (Via del Monte, 8), da poco riaperto al pubblico e alle mostre, che fu la residenza in cui nacque e visse Papa Gregorio XIII, fino alla salita al soglio pontificio il 13 maggio 1572. Il Palazzo, nel suo nucleo originario, è opera dell’architetto Baldassarre Tommaso Peruzzi ma il suo completamento ed ornamento, sia per l’interno che per l’esterno, vanno attribuiti a Ottaviano Mascarino e, soprattutto a Jacopo Barozzi, il Vignola.

Gregorio XIII fu il geniale riformatore del calendario che rivoluzionò il tempo nel mondo, il calendario che ancora oggi utilizziamo. Il connubio tra le statue di Marini e le sale del palazzo creano uno straordinario riflesso tra l’arte antica più aulica e una sorta di cavalcata ideale, che trova, come in un magico riflesso, rapporti tra l’antico e il contemporaneo. Così è l’effetto che il San Giacomo a cavallo provoca sullo scenario delle teste del camino attribuito a Pellegrino Tibaldi, così è l’effetto di questa straordinaria cavalcata nei luoghi di un grande pontefice, cui poté assistere il giovane Boncompagni – non ancora Papa – nelle stanze che divennero sue: Carlo V e Clemente VII che attraversano la città a cavallo, dopo l’incoronazione dell’imperatore.

Arcaismo e modernità diventano la cifra di una libertà creativa che consente a Marini di replicare – senza ripetizioni e senza stanchezze – questo soggetto che sembra raccogliere in sé “tutta la storia dell’umanità e della natura nella figura del cavaliere e del cavallo, in ogni epoca. È il mio modo di raccontare la storia. È il personaggio di cui ho bisogno per dare forma alla  passione dell’uomo”.

Marino Marini, Pomone (da artlife.com)

Se le Pomone, dee della fertilità – cui Marini dedica negli anni Trenta una produzione assai vasta –, incarnano il mito di una femminilità edenica, di una sensualità naturale, i Cavalieri sono uomini di virtù, figure antiche, silenziose, fiere e oneste; una virtù che negli anni successivi al conflitto mondiale registra una sorta di turbamento evidenziato dalla riottosità del cavallo, così come della geometrizzazione delle masse che attraversano sia il vivente umano sia quello naturale.

“Le Pomone e i Cavalieri rappresentano la ricerca della forma – diceva Marino Marini – dell’architettura, la ricerca dell’espressione e la ricerca di una certa combinazione delle forma che possono diventare anche delle architetture”.

Così, tra il salto del tempo e la vicinanza di artisti e uomini straordinari, i cavalieri di Marini cavalcano, uscendo dalla loro immobilità, respirando quasi, e facendo sentire il loro impeto, in attesa.

Beatrice BUSCAROLI  Bologna 6 marzo 2022