Caravaggio secondo la psicanalisi; il processo creativo del Genio: capp. V e VI (Dipingere suoni; Luce radente).

di Giuseppe RESCA

Capitolo quinto: dipingere suoni

Negli anni che precedono la fine del Secolo, l’opera di Caravaggio fa un salto di qualità.

Il suo Naturalismo, così speciale e diverso da qualunque altro interprete, ha fatto breccia nelle élites colte del pontificato romano, piene di eruditi che capivano di Arte.

La fortuna del pittore fu di capitare con l’esponente più in vista di quella corte, il Cardinale Francesco Maria del Monte, che gli fece da patrono. E non solo: gli permise di abitare nel suo stesso palazzo Madama, che aveva appena acquistato (1595). Dal momento che il Cardinale era appassionato di musica, musicologo e interprete egli stesso, e promotore del genere Madrigale nella cerchia di intellettuali che lo frequentavano, Caravaggio ebbe modo di partecipare alle esecuzioni musicali che si svolgevano in quella casa; e fu incaricato espressamente dal Del Monte di dipingere quei concerti cui assisteva. Quasi si trattasse di un cronista che redige un verbale.

Certo, il Cardinale sapeva il fatto suo e conosceva la capacità sovrumana del pittore di dare forme all’illusionismo: l’aveva già sperimentata nell’occasione della Medusa, da lui commissionata a Caravaggio per il Granduca. Un esemplare stupefacente, se non altro per la finzione ottica di trasformare uno scudo convesso (il supporto) in un bacile concavo, contenente la misera testa mozzata del mostro. Il Cardinale era noto per avere installato a palazzo una Camera delle Meraviglie, la Wunderkammer dei grandi collezionisti, e doveva dotarla di quanto di meglio valesse a stupire.

Ma lo straordinario effetto ottico della Medusa si rivelò un niente al confronto di quello che aveva in mente il pittore: dipingere non solo i concerti, ma i madrigali stessi che li componevano. In pratica, dipingere suoni, con testo poetico incluso, in un quadro che ha funzione di scenografia.

Caravaggio, I Musici ca. 1595  The Metropolitan Museum of Art, New York, Rogers Fund, 1952 (52.81) http://www.metmuseum.org/Collections/search-the-collections/435844

Il complesso di quei quadri giovanili di Caravaggio che presentano spartiti musicali (il Concerto di Musici, le due versioni del Suonatore di liuto, il Riposo al ritorno dalla Fuga in Egitto, l’Amor vincitore) ci segnala come il processo creativo del pittore si sviluppi, in questo preciso momento, in un pensar per suoni che caratterizzerà da qui in poi tutta la sua opera. Perché questo sviluppo sinestesico, pur costituendo solo una tappa del suo percorso artistico, si dimostra così significativo da proseguire anche in ogni fase successiva, musicale o meno che sia.

D’ora in poi la musica diventerà il filo conduttore di ogni creazione, anche quando gli spartiti verranno meno. L’opera di Caravaggio, infatti, il suo pensar sonoro, si manifesta in due modi distinti nella prima e nella seconda parte del suo sviluppo storico. Attraverso suoni, melodie e armonie prima; rumori, sonorità e silenzi poi. Ogni sua opera, come in un film, ha una colonna sonora, con la precisazione dovuta che il modo di metterla in musica presenta due registri diversi: nelle opere giovanili (prima del 1599) segue un registro lineare, ossia uno spartito; dal 1600 in poi agglomera i suoni (le note) in un coacervo dodecafonico sempre più astratto, che finisce col contare di più, per resa emozionale, della finitezza del brano pittorico.

Ma restiamo al contesto delle sole opere che contengono spartiti musicali. Si può ben dire che Caravaggio “pensi in musica” o, addirittura, che “renda visibile quello che sente”; che componga l’opera pittorica come se seguisse uno spartito; che esegua la sua opera come un direttore guida l’orchestra.

Non sono solo modi di dire: era il Cardinale a volere così. Quando aveva ospiti, non serviva impiantare il set musicale con tanto di sala, cantori e strumentisti. Bastava mettersi davanti al quadro, consultare lo spartito ivi iscritto e intonare la voce al madrigale corrispettivo. Che ovviamente tutti i suoi ospiti ben conoscevano.

Si dirà che è un modo molto barocco di procedere: ma questo è, e ci dobbiamo assuefare all’idea che Caravaggio e il Cardinale, suo complice e guida, sono gli inventori stessi del Barocco. E il procedimento non restò senza imitatori, perché lo sperimentò anche il Marchese Vincenzo Giustiniani, altro patrono di Caravaggio. Che gli diede commissione di quello straordinario dipinto che è il Riposo al ritorno dalla Fuga in Egitto.

Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto, 1597, Roma,Galleria Doria Pampilij

Quadro da cui si trae l’esatta lettura di quel che si è detto: un madrigale (un mottetto del compositore fiammingo Noel Balduwin, sul testo “o quam pulchra es”, tratto dal Cantico dei Cantici), uno spartito tenuto aperto dal volta pagina (il buon San Giuseppe, che si presta a ogni incombenza), il violinista che suona l’accompagnamento musicale (il meraviglioso Angelo musicante), e un adeguato pubblico, dolcemente addormentato (la Madonna col Bambino).

Era questo l’effetto sul pubblico che i madrigali facevano all’epoca? Magari sì, sui bambini, che però sono tutti uguali, ad ogni epoca. E si addormentano quando sentono musica.

Anche per gli altri madrigali dei quadri citati sono stati individuati tutti i pezzi e gli autori: per il Concerto di giovani “o felici occhi miei”, di Jacob Arcadelt; per il Suonatore di liuto all’Ermitage “chi può dir quanta dolcezza provo” dello stesso Arcadelt; per il Suonatore di liuto al Metropolitan “voi sapete ch’io v’amo anzi vi adoro”.

Caravaggio, Suonatore di liuto, San Pietroburgo, Ermitage

E si ha ragione di credere che i quadri stessi fungessero da immaginario set musicale per concertarli, in presenza di ospiti.

Quadri che valgono una composizione, quindi. Tanto uditiva che visiva, tanto quadro che madrigale, che esprime sia quel che Caravaggio pensa nel dare forma all’opera sia quel che sente nell’interpretarla. Una sinestesia. Come farebbe un moderno direttore d’orchestra, compositore e interprete all’unisono.

Il primo madrigale, quello del Concerto di musici, opera di Jacobus Arcadelt, non è scelto a caso: “O felici occhi miei”, messo in musica, esprime non solo la felicità del sentire, ma anche del guardare: il quadro appunto.

La musicalità della sua pittura si coglie appieno solo se la pensiamo costruita attorno ai versi. Così avviene nel Concerto di Giovani del Metropolitan, in cui i personaggi sono iscritti nel quadro al pari di note sui righi del pentagramma, con i ritmi che diventano spazi e le forme che ora intensificano, ora dilatano le emozioni del madrigale. E la struggente nostalgia di un amore, e il desiderio di rivivere- rivedere quegli attimi felici, danno forma musicale a un testo poetico: parole, e musica, che diventano immagini.

Dipingere madrigali: come fossero nature morte.

Questa è l’evoluzione del processo creativo di Caravaggio.


Capitolo sesto: luce radente.

Caravaggio è per antonomasia il pittore della Luce. Come lui nessun altro, se non forse il meraviglioso Vermeer. La luce, tuttavia, non è la matrice del processo creativo; ne è solo uno strumento, che permette di esteriorizzare il pathos da esso creato all’interno dell’opera. E siccome in Caravaggio è, di tutti gli strumenti, il più rappresentativo, non si contano gli interventi che la critica d’arte annovera, a partire dagli stessi contemporanei. Famosi restano i brani con cui, fin dall’inizio, parlarono della sua tecnica di illuminazione i vari Baglione, Bellori e altri.

Ma dato che noi oggi ci occupiamo di processo creativo, ci interessano le fonti tematiche più che le capacità tecniche, quei contenuti che discendono direttamente dall’universo psichico dell’autore, piuttosto che dalle sue conoscenze artistiche. Anche se, naturalmente, non intendiamo trascurare nulla di culturale, ma soltanto porre l’accento su quel che c’è di istintuale nel processo creativo.

Inoltre, bisogna sottolineare che la luce, in senso stretto, diventa per Caravaggio un contenuto solo a partire dall’anno 1600, in cui avviene in lui una sorta di conversione alla luce, esattamente identica a quella di San Paolo sulla strada di Damasco. Ma per quel che riguarda le pitture antecedenti quella data, le stesse che abbiamo finora prese in considerazione, la luce rimane principalmente uno strumento tecnico.

Certo, Caravaggio è sempre molto attento alla giusta illuminazione: ben diversamente dai contemporanei manieristi che le luci mettevano molto a casaccio. E non si preoccupavano affatto della coerenza delle fonti che impiegavano. Così facendo si servivano della luce, anziché porsi al suo servizio. Caravaggio, invece, nel dipingere i riflessi su una caraffa, si premurava che le fonti fossero sempre naturali e coerenti, e non artificiose. E tuttavia, una costante in tale corpus d’opera si può riscontrare con tutta frequenza: la fonte di luce è posta di lato, e l’illuminazione che ne deriva è di luce radente.

Perché usare questo artificio? Credo che Caravaggio si rendesse ben conto che le sue composizioni risultavano statiche, le figure parevano in posa, e che lui, anche strada facendo, non aveva trovato il segreto per renderle mobili, per dipingerle come in movimento. Quel segreto che possedevano i grandi Maestri veneti del Cinquecento, che lui tanto ammirava: Tiziano, Veronese, Tintoretto, Bassano. Nelle Nozze di Cana del Veronese, ad esempio (ora al Louvre, ma all’epoca ancora in situ), i mille e più personaggi, pur da seduti al banchetto, sembrano tutti muoversi indefessamente, al ritmo strabiliante dei colori che li imperlano.

Paolo Caliari, il Veronese, Nozze di Cana, Parigi, Louvre

Per Caravaggio, invece, i personaggi sono dipinti come se fossero, essi stessi, oggetti di una immaginaria Natura morta. Il che costituiva, a lungo andare, quello che in Biologia si definisce un fattore limitante la crescita. La luce radente dà un senso di moto alla composizione, come se scorresse veloce sulla superficie del quadro per passar oltre in un lampo, lasciando l’impressione dell’attimo. Per un pittore che fonda il suo processo creativo sulla rapidità dell’intuizione, che unisce l’autore ai suoi personaggi in un unico gesto, può essere questa la chiave di volta.

E per un soggetto che, come lui, vede la realtà per intuizioni, e l’irrealtà attraverso allucinazioni, il subitaneo transitare della luce crea l’illusione del moto perpetuo. Quell’effetto che i paesaggisti olandesi del Seicento, Vermeer compreso, avrebbero poi affidato ai grandi cieli percorsi da nubi, e ai contrasti imprevisti che l’ombra di esse produce sulla fissità della terra.

Un’altra coppia di quadri di Caravaggio ci può esser da guida: le due versioni de la Buona Ventura, l’una al Louvre, l’altra ai Capitolini. Sono questi tra i primissimi quadri (forse i primi in assoluto), in cui l’uso di costumi moderni, al posto del vestire all’antica, sottrae la composizione alla metastoria del mito (o del proverbio che dir si voglia) per consegnarla all’attualità. E quei costumi vivaci danno molta verve ai dipinti, ma non ad entrambe le versioni in egual misura.

Caravaggio, La Buona Ventura (Roma sx; Parigi dx)

Quel che rende la versione parigina più fascinosa, malgrado uno stato di conservazione non del tutto all’altezza, è proprio il fascio di luce che trascorre sul muro di sfondo. Ci dà il senso del giorno (o dell’ora o dell’anno), che potrebbe benissimo essere ieri, oggi, persino domani, se si comprasse il biglietto per il giorno a venire. L’altra, invece, ci racconta una storia senza tempo, indifferente alle circostanze che l’hanno generata, ma che non ha la forza dell’istantanea, cui siamo abituati a partire dall’invenzione della fotografia. Ecco: va bene dentro un museo, luogo che è difficile immaginare vivo (tranne rare eccezioni).

Un tempo i quadri erano concepiti in funzione del posto che avrebbero poi occupato. Soprattutto chiese, non quei musei dove ancora oggi si fatica a recepirne il significato originale. Per questo è tanto più significativa la Vocazione di Matteo in San Luigi dei Francesi.

Caravaggio, La Vocazione di San Matteo, Roma, San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli

Essa, pur presentando un manipolo di cambiavalute vestiti alla maniera moderna, alla stessa guisa dei personaggi di entrambe le tele de la Buona Ventura, fa un effetto ben diverso da quelle. Perché si costruisce sui contrasti del racconto evangelico che rendono l’episodio una sorta di apparizione (Vocazione appunto). A differenza degli esattori seduti, Cristo, e l’Apostolo che lo accompagna, sono in piedi e vestiti all’antica, come posti al di fuori del tempo. E con un semplice gesto il Cristo dà un ordine, una sola parola, che basta a determinare un destino. I suoi piedi già sono volti all’uscita, perché non ammette diniego: non ci si può sottrarre alla chiamata. Per questo la Vocazione sottende un imperativo, che è sì il fulcro della spiritualità cristiana, ma anche il segreto della predestinazione personale, che Caravaggio ha individuato come il proprio destino.

La Vocazione di Matteo non deve il suo fascino imperituro ai variopinti vestiti o al poderoso fascio di luce che trascorre sul muro, sorgente da un’immaginaria fonte che dall’alto piomba sullo squallore dello scantinato. Ma lo deve al fatto di essere collocata al centro dell’universalità della Chiesa (Cattolicesimo) e, al contempo, alla radice di quella predestinazione personale che Caravaggio ha individuato per sé. Che implicitamente vale anche per ognuno di noi (Riforma). E tutto ciò nell’apparire del quadro per quello che è: un’opera assolutamente laica, di forma e di spirito, che parla alle persone perché fatto di persone, e non di idee, di fedi o ideologie.

Anche altri quadri di Caravaggio del primo periodo vivono di luce radente: primo fra tutti il Ragazzo morso da un ramarro.

Caravaggio, Maddalena, Roma, Galleria Doria Pamphilij

Ma l’esemplare che resta indimenticabile è il quadro di Caravaggio più perfetto, sensuale, commovente che esista: la Maddalena della Galleria Doria Pamphilij. Una Madonna plebea, abbigliata da nobildonna, seduta in attesa all’angolo di una strada, come farebbe una prostituta: deposti a terra gli incassi di una vita, si addormenta sfinita.

Monsignor Sandro Corradini, infaticabile ricercatore di archivio, indispensabile a qualunque studioso caravaggesco, ha scoperto recentemente che la Lena famosa di cui si innamorò Caravaggio non è la prostituta, di nome Maddalena Antonelli, che tutti suppongono essere, ma una vicina di casa del pittore, di nome Elena, che quel mestiere non se lo sognava nemmeno.

Contro ogni evidenza voglio credere che sia proprio lei, e non l’altra, la donna di Caravaggio.

Sarà per la suggestione della luce radente sul muro?

Giuseppe RESCA  Roma 7 Maggio 2023