Caravaggio secondo la psicanalisi; il processo creativo del Genio: capp. III e IV (Natura in posa – Allucinazioni)

di Giuseppe RESCA

Capitolo terzo: Natura in posa

Ammetto che la Canestra di frutta dell’Ambrosiana mi è sembrata per lungo tempo la quintessenza della pittura. Di fronte a tanta meraviglia ci si dimentica che l’Arte è serva degli umani, e non viceversa. Ma a ogni sua apparizione (mi è successo mille volte) rimango senza parole, letteralmente annichilito dalla sua perfezione: come se si materializzasse non un’icona, ma la divinità in carne e ossa.

Caravaggio, Canestra di frutta, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

Eppure, adesso devo constatare che anche gli Dei hanno un limite (come ben sapevano i Greci), che non appartiene alla loro sostanza, ma al contesto in cui operano. Dal momento che quello nostro è il processo creativo di Caravaggio, devo riscontrare, controvoglia, che in esso quest’opera ha poco significato, per ragioni intuibili, e non. Intanto, perché è un unicum, anche nel corpus d’opera di Caravaggio: il che vuol dire che niente la precede (se non forme di altra specie), e niente la segue. E questo è incompatibile con il termine stesso di processo.

Ma soprattutto per le circostanze per cui fu concepita, ossia per un dono al Cardinal Borromeo (San Carlo, non uno qualunque), grande amante dell’Arte e dei suoi protagonisti fiamminghi in particolare. E proprio questa fu la ragione del suo fallimento: non si può sindacare sui gusti delle persone, e inferire che debba piacere loro questo o quello. Al Cardinale non piacque, e non gustò nemmeno uno dei suoi mille sapori (di frutti peraltro già ben maturi). Per inciso, è curioso che la stessa sorte capitò all’altrettanto grande El Greco, nell’occasione in cui presentò al sovrano Filippo II la Allegoria della Lega Santa, in cui era ritratto l’Imperatore: anche allora l’opera non fu capita, ed El Greco dovette riparare a Toledo, anziché a Madrid al Servizio del sovrano.

Ma c’è un’altra ragione, assai meno intuibile. Con la Canestra Caravaggio non inventava nulla, perché non faceva altro che perfezionare fino ai limiti dell’impossibile (e scusate se è poco) il modo e la forma di rappresentare gli oggetti che erano in voga nel Nord. Ricerca di verità lenticolare, attraverso una tecnica calligrafica e strumenti ottici particolari: specchio convesso, camera oscura o microscopio che sia. Certo, la verità di Caravaggio non è mai la stessa degli altri, ma ciò non toglie che qui si stia parlando di metodo, e non di risultati.

Ci sono invece altri due dipinti da cui si capisce cos’è la Natura Morta per Caravaggio: il Ragazzo morso da un ramarro nelle due versioni, in collezione Longhi e, a Londra, National Gallery.

Il Ragazzo morso dal ramarro (National Gallery sx; Fondazione Longhi, dx)

Se l’impianto è quello ormai collaudato del Bacchino e del Bacco, di un giovane personaggio alle prese con gli oggetti inanimati sul piano, assistiamo qui a un’inversione scenica inaspettata: sono gli oggetti che aggrediscono il protagonista.

Decisamente, una Natura non direi morta, ma vitalissima.

L’interazione dell’uomo con l’oggetto si estende con questo quadro molto oltre il registro dei sensi, in cui l’avevano relegato in precedenza tutti, o quasi, gli artisti. La stessa Sofonisba Anguissola, che aveva disegnato un bambino morso da un granchio, aveva rappresentato, al massimo, il dolore che, dei sensi, è l’imperatore.

Caravaggio invece introduce le emozioni: la sorpresa, l’incredulità, il rigetto. Qualunque particolare somatico fa riferimento a uno stato dell’animo: la mano sinistra in gestualità declamatoria, la destra che si ritrae, la spalla che si sporge in avanti quasi a fare scudo, la fronte corrugata, i capelli che orripilano, il moto a ritroso che scompiglia le vesti. Ma soprattutto la bocca, sensualissima, che esclama l’indicibile.

Qualunque interpretazione simbolica (e ne sono state proposte un’infinità, parecchie legittime) rischia di essere fuorviante. Non occorre aggiungere significati a un’immagine che si spiega da sé: la Natura è viva, misteriosa, e, soprattutto, pericolosa. Resta da intendere quale sia la Natura, se quella del cosmo o quella dell’anima.

Come la intendeva Caravaggio? Non ci sono indizi nel quadro, niente che sia dichiaratamente morale né esplicitamente sessuale.

Ragazzo morso dal ramarro (part.) Versione Longhi (Firenze)

Quel che è chiaro è il processo attraverso cui il pittore la indaga, guidato da una luce radente che sfiora rapidamente le cose per volar via velocissima, giusto il tempo di attraversarle. Luce che illumina, ma per un attimo; riflessi abbaglianti che rivelano quel che sta dietro. Come quel vano di finestra che appare sulla superficie convessa del cristallo, sottintendendo che si può rappresentare soltanto una parte del mondo reale, e quel che si perde è forse ciò che conta davvero.

E poi c’è quel fiore, la rosa che il ragazzo si è appuntata all’orecchio. Cosa stava facendo un attimo prima? Sembrerebbe che l’abbia colta dal vaso, dove permane la sua gemella che si abbevera al fondo, per adornarsene in un gesto di civetteria. Ma in attimo cambiano le cose, e il mondo ti appare ben diverso da prima. Perciò la Natura è cangiante, ed è l’attimo il suo manovratore.

Per esplorarla bisogna cogliere l’attimo, ed è quel che Caravaggio fa nella sua stessa esperienza sensoriale.Egli conosce il mondo sensualmente, ossia attraverso i sensi. Ma lo esplora attraverso il suo sensorio specifico, che è fatto di allucinazioni. Sono queste il corrispettivo sensoriale delle intuizioni, che gli illuminano la coscienza. E di allucinazione dobbiamo parlare.

——————————————————————-

Capitolo quarto: allucinazioni.

Di tutti i quadri di Caravaggio il più “magnetico” è la Testa di Medusa agli Uffizi. Scrive Baglione:

“Una testa di Medusa con capelli di vipere, assai spaventosa sopra una rotella rapportata, che dal Cardinale fu mandata in dono a Ferdinando gran Duca di Toscana”.
Caravaggio, Medusa, 1597 ca, Firenze, Uffizi

Questa “eccelsa” commissione fu certo per Caravaggio un banco di prova, ma lui era abituato a questi alti livelli (non scordiamo la Canestra, per il Cardinal Borromeo). A parte l’importanza, è difficile immaginare altro motivo attendibile a dare ragione dell’autoritratto che il pittore inserisce: come se lui stesso prendesse il posto della Gorgone, quale autore e vittima di uno dei più efficaci miti dell’antichità.

Tutto il resto è congruo alla leggenda: lo scudo che fa da supporto alla tela è quello stesso che permette a Perseo di guardare, senza finire impietrito; e l’immagine di quell’intreccio di serpenti sul deforme volto della testa decollata, conserva la minaccia allo spettatore di finire impietrito egli stesso.

Il gioco barocco per cui nell’opera si rivive la storia, come si svolgesse in tempo reale con spettatori reali, è perfetto. Unica contraddizione un volto maschile al posto di uno femminile. E questo va spiegato, perché contiene un anello essenziale del processo creativo di Caravaggio.

A posteriori, sapendo come finisce la sua storia personale, in un bieco assassinio con la minaccia di aver mozzata la testa in giro per il globo terraqueo, è facile pontificare sul perché sia suo il volto ritratto. Ma all’epoca (siamo a un dipresso nell’anno 1596, quando ancora la sua fedina penale è pressoché immacolata), come poteva passargli per la testa un tale futuro? Una premonizione? E perché mai, se erano tempi di grande successo, immaginare proprio questi sviluppi?

Una lettura in chiave neuropsichiatrica è l’unica che può dare una risposta, perlomeno attendibile. Caravaggio soffre di allucinazioni: già a quell’epoca patisce le prime avvisaglie, i primi presagi di un destino segnato, che lo vede capace di crimini orribili perché portatore di una innata mostruosità.

Caravaggio non fa vendetta. Caravaggio merita vendetta. Non è colpevole di niente, se non per la sua natura di mostro, che autogiustifica al mondo l’inevitabilità delle sue pulsioni omicide. D’altronde, non dicono tutti così gli assassini psicopatici? È la Natura che agisce, e l’uomo subisce.

Ma Caravaggio è un tipo particolare di personalità omicida: lui le cose le vede in anticipo, molto prima del tempo. Fiuta il destino; non è il protagonista della storia, ma lo strumento del Fato. Perché appunto, per il suo carattere particolarmente intuitivo, intravede il futuro esattamente come vede i più minuti riflessi delle cose dipinte. Una forma particolare di intuito: non immagina idee, ma cose reali; le vede, in forma di allucinazioni.

Il fenomeno allucinatorio si stampa negli occhi esattamente come la Testa di Medusa si stampa alla vista. E rimane lì per ore, senza staccarsene mai. Conosco persone che si sono finanche strappati gli occhi, pur di farla finita con quel che vedevano. E ricordo sequenze memorabili del film Arancia meccanica in cui il protagonista è vittima di un esperimento che lo costringe a vedere, senza poter chiudere gli occhi. Sebbene, nelle vere allucinazioni, gli occhi continuano a vedere anche da chiusi.

Non tedierò il lettore specificando che le visioni sono tutt’altra cosa rispetto alle allucinazioni. Le prime dipendono dall’atteggiamento mentale del portatore, che per molti versi acconsente alla loro formazione: come un interruttore della luce, può accenderle e spegnerle, non quando vuole magari, ma se lo vuole davvero. Le seconde no: decidono loro. E hanno il carattere di immobilità pietrificata che ha la Testa di Medusa.

Tra i pittori visionari, dunque, ce ne sono alcuni che soffrono di allucinazioni: Caravaggio è uno di loro. E queste compaiono spesso nelle sue pitture: una per tutte, la prima versione della Conversione di Saulo (Odescalchi), accecato da un Cristo concreto, vestito da Certosino.

Caravaggio, Conversione di Saulo, Roma, coll. Odescalchi

Diventano col tempo talmente frequenti da infondere addirittura un carattere visionario alle sue pitture, a partire dai quadri siciliani (Resurrezione di Lazzaro e Seppellimento di Santa Lucia), per finire negli estremi capolavori (Martirio di Sant’Orsola, Davide e Golia).

In quest’ultimo, il Davide e Golia tuttora Borghese, il volto stralunato del Gigante decollato costituisce il perfetto controcanto al volto di Medusa: come fossero in doppio, l’alfa e l’omega di un’identica storia.

Si può perciò sostenere che il processo creativo di Caravaggio non solo presenta allucinazioni in gran numero, ma è improntato al fenomeno allucinatorio come matrice della sua essenza pittorica e, contemporaneamente, madrina del suo destino di uomo.

Giuseppe RESCA Roma 30 Aprile 2023