Caravaggio secondo la Psicanalisi, il processo creativo del Genio. Cap. XIX: l’Anabasi; Cap. XX: Ritorno a Medusa.

di Giuseppe RESCA

Capitolo diciannovesimo: l’Anabasi

Il ritorno di Caravaggio alla pittura, dopo averne decretato la morte con dichiarazione lapidaria e definitiva (l’epitaffio inzuppato nel sangue della Decollazione, che mette fine e firma alla propria professione pittorica), può essere spiegato con motivi anche semplici, senza bisogno di appellarsi a rigurgiti di processo creativo. La pittura era il suo pane e, tramontata la spada, non restava che il pennello a dargli da vivere.

Caravaggio, Decollazione del Battista, (part.) Malta

fece Michelangelo”, come sembra vergato nella Decollazione, può voler dire tante cose, se si dà lettura psicoanalitica. Ma per restare nell’ambito della pratica pittorica significa: questo quadro l’ho dipinto io. Ma perché Caravaggio dovrebbe dirlo per un’unica volta?

Nella Deposizione, Caravaggio compendia tutta l’opera sua, e ne decreta la morte. Poi prosegue il suo tragitto di relitto umano, come in un ritorno a dove era partito. Sembra l’Anabasi di Senofonte, più che l’Odissea di Omero.

A Siracusa, sua prima tappa, gli danno commissione per un Seppellimento di Santa Lucia, ed egli non trova contraddizione nel dare sepoltura alla morta: Lucia può benissimo rappresentare la sua pittura. Non è forse lei la martire cui furono cavati gli occhi? E non è ad essi che si rivolge la pittura?

2 Caravaggio, Il Seppellimento di Santa Lucia, 1608, Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro, Siracusa.

La visione è il tema del quadro, anche se il soggetto è un cadavere, che ha in luce le arcate sopraciliari, e le orbite vuote. E la visione è completamente mentale, come nel meccanismo di un sogno: è la mente che vede, non gli occhi. Tutto appare sfocato, persino i becchini del primo piano; sembra il regno dei morti.

Ancora una volta il processo creativo ha avuto la meglio sull’uomo, che non ha resistito a dar sepoltura alla sua arte, morta, ma ancora insepolta. Come sempre, lo ha fatto sottolineando le sue visioni, che diventano ora incubi notturni.

In Sicilia diranno i biografi che il suo “cervello è completamente stravolto”, ma, a guardare a uno a uno i significati del quadro, non pare proprio. Caravaggio è giunto al culmine delle sue facoltà di rappresentazione illusoria, non più illusionistica, perché ora non dipinge visioni, ma le fa vivere agli altri, come le vede lui.

E se proprio si vuol parlare dell’uomo, il pazzo, passiamo a Messina, dove riceve l’incarico per una Resurrezione di Lazzaro. In realtà l’incarico proveniva sì da un mercante di nome Giovan Battista Lazzari, ma doveva avere come soggetto un quadro con la Madonna, San Giovanni Battista e altri santi. Fu il pittore stesso, secondo il Susinno, a stornare il soggetto originale in quello definitivo, Resurrezione di Lazzaro, prendendo a pretesto il combaciare del nome dei protagonisti.

Caravaggio Resurrezione di Lazzaro 1609, Museo Interdisciplinare Regionale di Messina.

E quando qualcuno si trovò a obiettare qualcosa in proposito, il pittore reagì in questo modo:

“portatasi alfine dal Caravaggio la gran tela…., opera così sospirata da coloro che l’avevano commessa, sempre tenuta secreta dall’autore nell’andarla perfezionando, ammirossene il compimento. E perché della facoltà pittrice ognuno ardisce e presume discorrere secondo il costume, tra la comitiva vi fu chi ne facesse qualche picciolo motivo, non già per criticare la perizia del Caravaggio, ma per così parergli. Michelagnolo con la solita impazienza sguainò il pugnale che in ogni tempo portar nel fianco soleva; gli die’ tanti infuriati colpi che ne restò miseramente squarciata quell’ammirabile pittura”.

C’è da credergli: è proprio lui quello che vediamo in azione. E la follia deriva dal suo voler a tutti i costi dipingere quel che sentiva, che coincideva questa volta con la sua Resurrezione.

Ora cosa significa che Caravaggio vuole risorgere? Da che cosa, perché, in che modo?

Dal mondo di morti in cui si sente abitare, lui vivo.

Caravaggio, Vocazione di San Matteo, Roma, chiesa di San Luigi dei Francesi

Lo avevamo già detto, e ce lo conferma nel quadro del Seppellimento: quello è il regno dei morti, nessun alito di vita, nessuno spiraglio di speranza. E qui, nella Resurrezione, si vive lo stesso clima: forme larvali, come nell’Ade di Ulisse nell’Odissea. E tutte le forme che aveva dipinto nelle sue opere precedenti le ritroviamo anche qui, in questo quadro. Soltanto che ora non son più vitali. A partire dal Cristo, che è esattamente identico a quello della Vocazione di San Matteo: ora, però, anche lui sembra morto, e nessuno pare seguirlo.

Nessuno lo guarda, tranne un volto, che sembra quello dell’autore, ma non quello che appariva nella Cattura di Cristo, semmai lo stesso che apparirà nel successivo Martirio di Sant’Orsola.

Le donne in ambasce sono invece le stesse della Morte della Vergine: morta ella stessa anche allora, come morta appariva Maddalena.

Va a finire che la creatura più viva è proprio Lazzaro, che invece deve risorgere. Lui perlomeno innalza il braccio, anche se solo nel gesto di voler arrestare l’evento. La Resurrezione è un fenomeno complesso, lungo, faticoso, improponibile, così per Lazzaro come per Caravaggio. Entrambi si riconoscono nel cranio (un suo autoritratto, ai tempi del San Girolamo scrivente in galleria Borghese), che sembra morto anch’esso, come una cosa gettata e dimenticata in un angolo. E per quanto era chiaro il suo messaggio di allora, è oscuro in questo dipinto di ora.

Mi chiedo: è più irreale immaginare un vivo che entra nel regno dei morti (Eneide, Odissea) o uno zombie che appare tra i vivi? E dei due, qual è Caravaggio?

La domanda non è oziosa. Nella mia professione di psicoterapeuta ho visto casi di vivi che si immaginano morti, e di morti nell’anima che si impongono vivere. Caravaggio si impone morire: è questo che lo rende diverso. Risorgere, non da un mondo di morti ma in un mondo di morti, gli suona come bestemmia. È proprio quello che vuole evitare.

Fantasmi, nella mente malata; creature, nel processo creativo.

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Capitolo ventesimo: ritorno a Medusa

Come visto finora, il processo creativo di Caravaggio è la trascrizione in pittura, arte mimetica per sua natura, di una verità immaginaria che si affaccia alla coscienza già a partire dal Bacchino malato. Al suo apparire sembra chiarissima, tanto da delinearsi in modo netto.

È il sentore di un male oscuro, che permea di sé tutte le cose: la malattia misteriosa, l’inattesa sorpresa di una natura bacata e velenosa, un Eros satanico che distrugge le arti (finirà col distruggere anche la sua pittura, che dichiarerà morta nella Decollazione).

Caravaggio Scudo con testa di Medusa 1598 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze

Ma dove appare nella sua forma più pura e simbolica è nella Medusa, non solo perché il soggetto parla di morte, ma per il modo in cui Caravaggio inquadra la questione.

Sappiamo che Perseo deve uccidere la Gorgone, ma per riuscirci non deve guardarla, altrimenti rimarrebbe impietrito. Si serve perciò di uno scudo come specchio nella cui concavità vedere riflessa l’immagine della bellissima donna, che lo paralizzerebbe se guardata dal vero. Così facendo, la priva del suo potere (una delle pochissime rappresentazioni dell’uccisione di Medusa, e non della sua decapitazione, si ritrova in questo dipinto di Giulio Mazzoni, in collezione dell’autore. Significativo anche perché la figura di Perseo, desunta da un disegno di Perin del Vaga, servirà a Caravaggio come modello del carnefice di Matteo, nella sinopia del Martirio, visibile in radiografia  e poi da lui stesso modificato).

Giulio Mazzoni, Perseo uccide Medusa, Roma, coll. Resca

È evidente che lo scudo simboleggia la pittura, che tutto può rappresentare senza fare impazzire. E Caravaggio dipinge Medusa riflessa proprio su uno scudo di legno di fico (che è anche emblema del Granduca cui è destinata). Ma perché dipingerla sul lato sbagliato, quello convesso? Non può procedere altrimenti, se non ottenendo illusionisticamente che la testa mozzata sia come posata su un bacile, che naturalmente si immagina concavo.

Siamo già al finale della storia, quando Perseo, mozzata la testa la deporrà proprio lì, su un bacile. Ma Caravaggio non si accontenta di dare l’illusione della cosa rappresentata: ci mostra che anche Medusa, così come è vista allo specchio, altrettanto vede lui nello specchio. E questa volta nel lato giusto (anche se non può approfittarne).

Perciò si autoritrae nel volto di Medusa, perché tanto lui che Medusa devono apparire l’un l’altro in forme mostruose. Deforma, quindi, i propri lineamenti, gli zigomi prominenti, come quando ci si riflette in uno specchio non piano.

E ho l’impressione che creda davvero che quando si guarda allo specchio anche l’altro ricambi: sarà l’intensità dello sguardo con cui un pittore si autoritrae che induce a pensarlo. Ne ho visti parecchi di artisti che curiosamente sostengono questo. Ma Caravaggio li batte tutti, perché pensa di essere osservato da presenze che sorgono dal fondo dell’animo. E in questo sta un principio di follia: il sonno della ragione genera mostri, sostiene Francisco Goya.

Ora sappiamo che i due si guardano, ma il volto che vede Perseo-Caravaggio è in mostra, perché dipinto nel quadro. Sarebbe da chiedersi che volto vede Medusa in procinto di essere uccisa. Si ritrova impotente, perché la sua unica arma, la suprema bellezza paralizzante, è ormai spuntata. Per questo il suo sguardo è carico di orrore e di angoscia, alle prese com’è di un assassino fanatico, che sta per decapitarla. Così assume i lineamenti di lui, l’eversore, quasi a confondere carnefice e vittima.

Chi è il mostro dei due, pare chiedere Caravaggio: lui stesso o Medusa?

Lo specchio, lo scudo, la pittura daranno il responso: da qui inizia il processo creativo di Caravaggio. Sarà punteggiato di autoritratti, perché ognuno di essi segnala un punto di svolta dell’indagine che lo riguarda. Con il problema che quanto più avanza tanto più la verità immaginata si fa misteriosa, sfuggente, indecifrabile. E per questo i suoi autoritratti diventano sempre più oscuri, slabbrati, indefiniti, come di brace.

Può esistere verità che, indagata, si perde per strada?

Il fatto è che la verità che Caravaggio ha intravisto per sé, e che poi ha riconosciuto riflessa nelle Storie da lui dipinte, non è vera del tutto, anzi, per niente. Parla di morte, di impulso a dare morte. Come per la povera Medusa. E confligge con la commozione che la sua natura gli impone e che prova verso coloro che si prestano al sacrificio di sé: la Maddalena, Matteo che accetta il martirio, Pietro che sfida la paura, la Vergine morta. Non riesce a identificarsi con loro, ma si immedesima, e li rispetta.

Come può coesistere un simile istinto con la pulsione a dare morte? Caravaggio non può riconoscersi umano, ma soltanto pittore. E soltanto nel ricevere-morte ritroverà in sé qualcosa di umano. Lo vedremo di lì a poco nei suoi ultimi due autoritratti, Martirio di Sant’Orsola e Davide e Golia tuttora Borghese, estrema testimonianza di sé nell’atto di processarsi.

Un processo appunto, che conclude il processo creativo.

Giuseppe  RESCA  Roma 6 Agosto 2023