Caravaggio e Van Gogh, dove le tenebre corrispondono al male e dove invece corrispondono alla luce

di Sergio ROSSI

L’immagine che Caravaggio offre di sé stesso nei suoi numerosi autoritratti, anche se resa in modo particolarmente originale, eterodosso ed a volte addirittura sconvolgente, si inserisce pur sempre all’interno di una consolidata tradizione figurativa, da Dürer a Raffaello, da Pontormo a Michelangelo, fino al Lomazzo ed a Federico Zuccari, tanto per rimanere in un ambito di stretta osservanza accademica e cronologicamente più vicino a quello caravaggesco. E questa tradizione poi continuerà, sempre rinnovandosi, da Artemisia Gentileschi a Van Gogh, da Frida Kahlo a Francis Bacon.

D’altro canto il Merisi era animato da una sorta di vera e propria ossessione autobiografica che egli ha estrinsecato sostanzialmente secondo tre tipologie: gli autoritratti veri e propri, nei quali il pittore si raffigura come era realmente, senza abbellimenti o forzature espressive; le immagini idealizzate, a volte auto raffigurazioni più che autoritratti veri e propri; e infine i dipinti in cui l’artista esaspera espressionisticamente i propri lineamenti, presentandosi addirittura come reprobo o carnefice in una sorta di auto espiazione catartica dei propri peccati.

Al primo gruppo appartengono in definitiva quattro dipinti: Il Bacchino malato della Galleria Borghese; la figura che compare tra gli astanti che fuggono, nel fondo della scena, nel Martirio di San Matteo in San Luigi dei Francesi; l’uomo di profilo sull’estrema destra della Cattura di Cristo di collezione privata romana (ex Sannini) del 1602 (da confrontarsi con quella già citata di San Luigi dei Francesi) e che viene riproposta, quasi identica e appena più invecchiata nell’uomo subito alle spalle di Sant’Orsola nel dipinto con il martirio della Santa ora a Napoli, Palazzo Zevallos, forse l’ultimo in assoluto ad essere dipinto dal Merisi.

Quanto alle immagini idealizzate, ossia autoidentificazioni più che autoritratti veri e propri, esse comprendono il ragazzo rivolto verso gli spettatori nel Concerto ora al Metropolitan Museum di New York; il San Francesco in preghiera del Museo Civico di Cremona e il S. Francesco in contemplazione della collezione ex Cecconi, entrambi del 1603, quest’ultimo ripreso poi a tre anni di distanza nell’opera di medesimo soggetto ora in deposito presso la Galleria d’Arte Antica di Palazzo Barberini.

Alla terza tipologia appartengono il Ragazzo morso da una “lucerta” di collezione privata romana, databile intorno al 1594; la Testa della Medusa degli Uffizi, del 1596/7; il Golia del David trionfante su Golia del Kunsthistorisches Museum di Vienna, del 1607. Infine, il David e Golia della Galleria Borghese, del 1610, che comprende e racchiude tutte e tre le tipologie da me individuate.

fig 1 Caravaggio, Bacchino malato, 1594 (?), Galleria Borghese, Roma

Il primo dipinto da prendere in considerazione per un’analisi ulteriore è il cosiddetto Bacchino malato della Galleria Borghese (1594 circa): si tratta in effetti di un’immagine semanticamente ambigua, [fig.1] sospesa tra il sacro e il profano e nella quale l’artista si raffigura contemporaneamente come Bacco, come “nato sotto Saturno” e come Gesù Cristo, come già sostenuto a suo tempo da Maurizio Calvesi e da Kristina Herrmann Fiore[1] e come io stesso ho ribadito e precisato, con nuove considerazioni, sul saggio di recente apparso proprio su About Art dal titolo Correggio, Caravaggio, Damien Hirst e i nati sotto Saturno,( Cfr. https://www.aboutartonline.com/correggio-caravaggio-hirst-ed-i-nati-sotto-saturno-temi-alchemici-ed-esoterico-erotici-in-alcune-opere-dei-tre-artisti/ ) al quale rimando per  un’indagine approfondita sulla tela.[2]

Quanto all’obiezione, che sicuramente potrebbe essere avanzata, che inglobando in una sola immagine le iconografie per qualche verso antitetiche dell’artista “saturnino”, del Bacco e del Cristo sofferente e poi trionfante Caravaggio compirebbe un’inammissibile confusione tematica, essa non mi sembra determinante. Innanzi tutto perché il Merisi è un artista nel pieno della sua originalità creativa e non uno scolaro di Panofsky che intende applicare meccanicamente le ricette iconologiche apprese a lezione; in secondo luogo perché proprio quella che ho prima definito “ambiguità semantica” è una delle caratteristiche più pregnanti dell’arte caravaggesca; in terzo luogo perché siamo indubbiamente di fronte ad un messaggio pur sempre criptico e cifrato e non di fronte ad una allegoria esplicita.

Ciò che intendo dire è che se Caravaggio avesse voluto raffigurarsi, sic et simpliciter, come Cristo avrebbe indubbiamente scelto altre strade, mentre il messaggio che egli intende inviare è molto più complesso e dialettico ed è inoltre un messaggio che non tutti, ovviamente, dovevano intendere. Ciò nonostante i riferimenti ermetici e cristologici contenuti nel dipinto sono tali e tanti che negarne l’esistenza mi sembra francamente difficile e frutto di una visione “purovisibilista” o estetizzante dell’opera d’arte certo rispettabile e che oggi sta tornando prepotentemente di moda, ma nella quale assolutamente non mi riconosco.

fig 2 Caravaggio, The Musician (part.), The Metropolitan Museum of Art
Copyright: Image © The Metropolitan Museum of Art

Solo poco tempo più tardi, come accennavo in precedenza, il Merisi riproduce il proprio volto, anch’esso ripreso “allo specchio” come il Bacchino della Borghese, cui è molto somigliante, nel ragazzo rivolto verso gli spettatori del Concerto del Metropolitan [fig.2], solo che qui egli addolcisce i propri lineamenti, ravviva gli incarnati del volto e trasforma un giovane convalescente in uno di quasi efebica bellezza, attenuando di molto il connotato autobiografico del soggetto.

Ancora al periodo giovanile appartiene il Ragazzo morso da una lucertola di collezione privata romana [fig.3]

fig 3 Caravaggio, Ragazzo morso da una lucertola, Roma, coll. privata

da me recentemente individuato come il prototipo autografo[3] rispetto al medesimo soggetto ora alla National Gallery di Londra [fig.4], probabilmente una replica di poco posteriore, ed a quello della Collezione Longhi di Firenze [fig.5] da ritenere una replica coeva ma eseguita da un altro artista vicino alla manfrediana methodus e da collocarsi intorno al secondo decennio del Seicento, come sostenuto di recente da Alessandro Zuccari.[4]

Ragazzo morso da un ramarro (sx, Londra fig 4; dx, Firenze fig 5)

Anche in questo caso non siamo però in presenza di un autoritratto vero e proprio, come pensa ad esempio Mina Gregori, ma piuttosto ad un’autoidentificazione: infatti,

«il giovane, che somiglia a Caravaggio ma simboleggia anche l’intera umanità, sta per perdersi, attratto dai piacerei terreni, ma punto dalla lucertola si ritira sconvolto, proprio come se avesse visto in faccia la morte o, il che è lo stesso, stesse già per cadere nell’abisso del peccato. Del resto la lucertola rappresenta proprio la conquista della luce, cioè della grazia, attraverso la “morte”, cioè la rinuncia ai beni terreni ed al dominio dei sensi. Ed il contrasto tra la rosa ancora fresca che il giovane tiene tra i capelli e quella recisa contenuta nel vaso acuisce questa contrapposizione».[5]
fig 6 Caravaggio, Testa di Medusa, 1596 -97 ca, Firenze, Uffizi

Che anche la Testa della Medusa [fig.6] degli Uffizi (1596/7) contenga dei riferimenti autobiografici sono stato io il primo (e finora l’unico, a quanto mi risulti) a sostenerlo, eppure la cosa mi appare piuttosto evidente. Infatti il volto raffigurato somiglia al Bacchino malato ed al Concerto del Metropolitan Museum e soprattutto al Ragazzo morso da una lucertola, solo che questa Gorgone è un’immagine dipinta a memoria e per di più volutamente esasperata. Secondo Rodolfo Papa, del resto, «La Medusa è un richiamo a stare armati contro le tentazioni del mondo, che pietrificano e rendono impossibili le azioni virtuose»[6] e dunque, a mio parere, essa potrebbe leggersi nell’ottica di una sorta di ulteriore sviluppo del tema dell’artista calunniato e del trionfo della virtù che abbiamo visto essere una delle chiavi di lettura del Bacchino Borghese. Inoltre, l’espressione sconvolta della Medusa acquista un valore sorprendente di quasi tragica premonizione se la si confronta con il volto di Golia del capolavoro tardo anch’esso alla Galleria Borghese; o più semplicemente nel dipingere quest’ultimo, Caravaggio si è ricordato, come spesso faceva, della sua opera giovanile e ne ha riproposto alcuni elementi.

Tornando agli autoritratti veri e propri sicuramente il più drammatico e coinvolgente, insieme al capolavoro tardo appena citato, è quello del Martirio di San Matteo di San Luigi dei Francesi [fig.7].

fig 7 Caravaggio, Il Martirio di San Matteo, Roma, San Luigi dei Francesi

Anche a questo dipinto ho dedicato numerosi approfondimenti ai quali rimando per una sua analisi più esaustiva[7]. Ora mi preme solo sottolineare come sia molto probabile che nel concepimento e nella realizzazione dell’opera abbia influito l’imminenza dell’anno giubilare del 1600 e la conseguente determinazione ad insistere su due temi cruciali della religione cattolica quali la vocazione ed il martirio, che si contrappongono in maniera esplicita alla teoria luterana della predestinazione, affermando invece il valore delle opere per la salvezza dei credenti.

E cosa è in effetti il martirio se non la più sublime delle opere? Il compimento estremo di esse in quanto il martire conferma e convalida la propria vocazione attraverso il sacrificio stesso della propria vita terrena, passo fondamentale per accedere alla vita eterna? È altrettanto risaputo che è stato per primo Michelangelo nella Cappella Paolina a caricare di queste valenze universali, ma anche a conferire precise connotazioni autobiografiche, alla Vocazione di Paolo ed al Martirio di Pietro, raffigurati in reciproca connessione in due affreschi che hanno influenzato tutta la pittura italiana a partire dal secondo Cinquecento.

Certo, una simile interpretazione, cosi innovativa e personale, non è riconducibile a nessuna fonte scritta o a semplici indicazioni della committenza. Per­tanto chi ritiene che i pittori siano per lo più dei meri esecutori, o traduttori in immagi­ni, dei dettami altrui, sprovvisti insomma di ogni autentica capacità inventiva, a mio parere compie un grave errore. Per me, infatti i grandi artisti, e Michelangelo e Caravaggio erano certo tra questi, pur partendo spesso da precisi dettami della committenza poi li reinterpretano in chiave personale e li piegano al proprio genio creativo, come aveva fatto ad esempio Raffaello quando, nella Scuola d’Atene aveva raffigurato il Buonarroti nei panni di Eraclito, unico personaggio vestito alla moderna in un contesto di protagonisti atteggiati tutti all’antica. O come aveva fatto lo stesso Michelangelo nel Giudizio Universale sistino, raffigurando il proprio volto sofferente addirittura nella pelle scorticata di San Bartolomeo; e nella Cappella Paolina, attribuendo al giovane Saulo in atto di convertirsi la propria immagine di settantenne.

Tornando al Martirio di San Matteo abbiamo in primo piano l’immagine del carnefice del santo che si è confuso con gli altri neofiti per poter meglio compiere il suo gesto omicida, ed infatti egli è nudo, come se si dovesse battezzare, ma invece si avventa su Matteo che viene raffigurato già a terra sanguinante, ai bordi della vasca lustrale, ma ancora vivo e sul punto di ricevere il colpo di grazia dal suo assassino. Al verificarsi di questo tragico evento è come se la scena si aprisse in due parti, orientandosi in due gruppi opposti tra loro, mentre sul fondo campeggiano i simboli della croce e del martirio. Il gruppo di sinistra, riccamente abbigliato, sembra quasi doversi confondere con le tenebre, con l’eccezione di due figure: una è quella del giovane che sta per snudare la spada e poi la rinfodera; l’altra è quella del Caravaggio stesso che si volge improvvisamente verso la luce con un’espressione come pervasa di dolente pietà verso il martire in procinto di essere colpito.

fig 8 Caravaggio, Il Martirio di San Matteo (part.)

Il nostro pittore appare coperto da un mantello bruno [fig.8] e la sua sagoma quasi si confonde con quella sottostante, di un altro uomo di cui si notano solo il risvolto scuro di una cappa, le terga e le gambe coperte da una calzamaglia color carne, con bene in evidenza le scarpe ai piedi. Il fatto che di questa figura non si veda il volto, ma piuttosto si noti quel suo gesto deciso della mano, come per ribadire il rifiuto della grazia, ne accresce il valore simbolico, quasi incarnazione palpitante di coloro che si perdono letteralmente nelle tenebre per non essere stati sensibili alla chiamata divina: al contrario di Caravaggio, che alle tenebre si sottrae proprio in extremis volgendosi alla luce ed indirizzando la propria pietas verso il santo morente; e dunque egli si rappresenta come peccatore sì, ma ancora in grado di redimersi.

Di poco posteriore (1602) è l’altro autoritratto che compare sull’estrema destra della Presa di Cristo nell’Orto, il cui prototipo autografo non è quello ora conservato alla National Gallery of Ireland di Dublino [fig.9]

fig 9 La presa di Cristo nell’orto, versione Dublino

bensì quello di collezione privata romana [fig.10], ex Sannini,[8]

fig 10 La Presa di Cristo nell’orto, già coll. Sannini

e anche qui il pittore si raffigura come testimone di un tragico evento che probabilmente aveva una duplice valenza: autobiografica, perché secondo alcune fonti antiche egli era stato spettatore di un delitto e addirittura arrestato come testimone reticente a Milano, subito prima di trasferirsi a Roma; simbolica, perché così facendo egli tende a rendere assolutamente vivi e palpitanti eventi narrati nei Vangeli o nelle Vite dei Santi, attirandosi anche per questo motivo, la condanna decisa della critica idealistica seicentesca.

Un discorso a parte meritano le immagini in cui il nostro artista si identifica con la figura di S. Francesco: il San Francesco in preghiera del Museo Civico di Cremona [fig.11]

fig 12 Caravaggio, San Francesco in preghiera , 1603, Cremona, Museo Civico Ala Ponzone

e il S. Francesco in contemplazione della collezione ex Cecconi [fig.12],

fig 12 Caravaggio, S. Francesco in contemplazione, 1603, già coll. Cecconi
fig 13 Caravaggio, S. Francesco in contemplazione, 1606 ca, Roma, Galleria d’Arte Antica di Palazzo Barberini

entrambi del 1603, e quello ora presso la Galleria d’Arte Antica di Palazzo Barberini, del 1606 circa [fig.13].

Come già perfettamente analizzato da Alessandro Zuccari[9] infatti, il nostro pittore non solo aderisce in modo generico alle istanze della spiritualità francescana ma addirittura si identifica, o se si preferisce si auto raffigura nelle vesti del santo d’Assisi.

Si tratta comunque non di autoritratti veri e propri ma piuttosto, lo ripeto, di “autoidentificazioni” in cui il pittore, pur riprendendo nelle linee generali la propria immagine, ne muta di volta in volta alcuni particolari. E così, il dipinto in cui l’autoidentificazione ed l’autoritratto vero e proprio vengono quasi a coincidere è proprio il San Francesco in contemplazione ex Cecconi, molto vicino, seppure in controparte, all’autoritratto che compare nel fondo del Martirio di S. Matteo di S. Luigi dei Francesi, anche qui con lievi differenze: la barba appena più lunga, il volto appena più emaciato.

fig 14 Caravaggio, David con la testa di Golia, 1610, Roma, Galleria Borghese

Siamo così giunti all’estremo capolavoro caravaggesco, il David e Golia della Galleria Borghese [fig.14] che come ho già sostenuto in numerose mie pubblicazioni[10], può essere considerato un doppio autoritratto, anzi una doppia autoidentificazione, perché il sommo artista si raffigura non solo nella veste del reprobo per eccellenza, ossia Golia, ma anche in quella di David. Come in una sorta di flash back cinematografico, infatti, l’artista fa emergere dall’ombra la figura dolente del fanciullo che rievoca (anche nello stile volutamente retrodatato e consono alle sue opere giovanili) proprio sé stesso ancora non toccato dal peccato ma che quasi presagisce il proprio tragico destino, esemplificato al contrario dal viso sconvolto di Golia, ferito alla testa come lui stesso era stato ferito nel tragico duello del 1606. E così come nell’immagine di Golia, assolutamente in linea con quelle della produzione più tarda, Caravaggio quasi si compiace di evidenziare i segni del proprio precoce decadimento fisico, nel volto di David i tratti sono come addolciti ed a prima vista possono sfuggire i connotati autobiografici della figura.

Eppure, i lineamenti essenziali del viso, i capelli ricci e bruni, gli occhi neri e profondi, il naso dalle larghe narici, la bocca carnosa, sono gli stessi del Bacchino malato e soprattutto l’espressione e la posizione del volto leggermente reclinato verso destra, il movimento aggrottato delle sopracciglia (che è assolutamente identico), l’espressione della bocca coincidono in modo impressionante con l’autoritratto di San Luigi dei Francesi, proprio quello in cui egli, prima di perdersi nelle tenebre insieme alla folla di peccatori che compare in fondo alla scena, si volta all’ultimo momento verso la luce della grazia. Identificandosi dunque, nel dipinto della Borghese, in entrambe le figure, del vinto e del vincitore, e quindi raffigurando in qualche modo nella propria personale vicenda il destino di tutta l’umanità peccatrice, l’artista compie un gesto di pentimento e insieme lancia un’ancora di speranza verso una possibile salvezza.

A quasi tre secoli di distanza da Caravaggio un altro artista ne riprenderà alcuni temi poetici ed esistenziali attuando però una sorta di rovesciamento romantico dell’estetica caravaggesca.

Si tratta di Vincent Van Gogh, la cui opera è caratterizzata, come quella del Merisi, da un rapporto totalizzante con il colore: solo che qui si passa dal troppo scuro delle prime opere, quasi impastate con la pece, ai bagliori esplosivi dell’ultimo periodo: come se Van Gogh, dopo aver saputo controllare la materia al nero, attraverso gli impasti densi e pieni che richiamano anche la pittura olandese del Seicento, dopo essersi impadronito di tutti i segreti delle mezze luci, dopo aver saputo ottenere la padronanza assoluta delle tenebre, novello Orfeo alla rovescia, abbia voluto guadagnare la luce del sole, inseguendo, fino all’autodistruzione, il sogno della luce assoluta, del giallo puro. E paradossalmente per lui le tenebre corrisposero alla vita e la luce alla morte, ribaltando, appunto, il messaggio caravaggesco che identificava le tenebre con il male e la luce con la salvezza; il viaggio di Vincent dal buio alla luce è un viaggio che porta alla morte.

Comunque, quest’accostamento con Caravaggio, per quanto possa apparire inconsueto, non è certo casuale. Tutta la pittura vangoghiana degli anni 1883-85, la più legata alle tematiche sociali, si riallaccia infatti esplicitamente ai caravaggeschi olandesi del ‘600 ed alle loro scene di interni.

È noto, del resto, l’interesse politico e religioso che il giovane Van Gogh nutriva per il mondo dei poveri e dei diseredati e la funzione sociale che egli voleva che avesse la sua pittura, una pittura nera e solida, terrigna, tutta immersa in un mondo senza luce, che però non è angoscioso, bensì ricco di una sua intima, ancorché dolorosa, dignità poetica. Capolavoro di questo periodo è senz’altro I mangiatori di patate del 1885 [fig.15], di cui esistono tra l’altro varie versioni preparatorie.

fig 15 Vincent van Gogh, I Mangiatori di patate, !885, Amsterdam, Museo van Gogh

E a proposito di quest’opera così Vincent scriveva al fratello Theo:

“potrà dimostrarsi un vero quadro contadino. So che lo è. Chi preferisce vedere il contadino col vestito della domenica faccia pure come vuole”.[11]

A Van Gogh interessava invece parlare del “lavoro manuale e di come essi (i contadini) si siano onestamente guadagnati il cibo“. E indubbiamente l’artista dimostra una assoluta capacità di far corrispondere forma e contenuto rendendo la semplicità e rozzezza della vita campestre attraverso una analoga semplicità e “rozzezza”, ovviamente solo apparente, dell’impianto cromatico e formale, attraverso l’essenzialità assoluta della resa pittorica. Essenzialità che tuttavia non poteva più essere sufficiente all’artista che ben presto si rese conto della reale impossibilità di aiutare in qualche modo le classi contadine attraverso la sua opera pittorica. Questo scacco esistenziale di fondo porterà Van Gogh a tentare altre vie, da Parigi alla Provenza, pur senza abbandonare mai del tutto le componenti utopistiche e populistiche della sua arte.

fig 16 Vincent van Gogh, Autoritratto con cappello grigio, 1887, Amsterdam, Rijksmuseum

A contatto con la pittura impressionistica prima e con i colori violenti della Provenza poi, si attuerà in Van Gogh una sorta di esplosione cromatica che porterà alle estreme conseguenze quello che ancora era solo implicito nei quadri olandesi. L’andamento stesso della pennellata, che prima era come compresso e centripeto, si fa espanso e centrifugo, secondo delle direttrici che dal centro si irradiano verso i lati e verso l’alto, come risulta ad esempio dall’Autoritratto con cappello grigio del 1887 [fig.16]: lo studio dei rapporti cromatici ne costituisce sempre la ragione di fondo, solo che ai bruni e grigi si sostituisce lo studio dei rossi e dei blu, che raggiungono la loro massima intensità in poche rapide pennellate intorno al colletto ed al bavero della giacca. O, come risulta ancora nel tragici e celebri autoritratti con l’orecchio mozzato del 1889. Così come Caravaggio si era raffigurato, con una sorta di atto espiativo, nella testa di Golia, ostentando la propria ferita alla fronte, così Van Gogh ostenta la ferita che egli stesso si è procurato, sempre nell’ottica di una simbolica offerta di sé che vuole anche significare il desiderio di sublimare e riscattare attraverso l’arte le proprie sofferenze interiori.

fig 17 Vincent van Gogh, Piatto di portata con patate, 1888, Kröller-Müller Museum, Otterlo

Intanto, il simbolismo solare come metafora insieme di vita e di morte aveva iniziato ad assumere per Van Gogh i toni dell’ossessione, come dimostra il Piatto di patate del 1888 [fig.17], in cui l’artista torna ad uno dei temi preferiti del suo primo periodo, ma sviluppandolo in un modo del tutto diverso: il piatto al centro della composizione, di un giallo vivo, altro non è che una specie di disco solare rinchiuso in un interno di cucina. Siamo in una fase in cui le esperienze si succedono alle esperienze in una accelerazione fatale. L’incontro-scontro con Gauguin, l’interesse per l’arte giapponese, l’aggravarsi ormai incontrollabile della malattia nervosa, il ritorno alle tematiche contadine del primo periodo.

Poche opere esprimono bene questa fase convulsa come il Seminatore al tramonto [fig.18] e il Campo di grano con mietitore del 1888-89 [fig.19], sorta di dittico-metafora sulla vita e sulla morte.

fig 18 Vincent van Gogh, Seminatore al tramonto, 1888, Museo Kröller-Müller, Otterlo
fig 19 Vincent van Gogh, Campo di grano con mietitore, 1888 – 89

Nel primo dipinto il sole, che è “giallo di cromo I con un po’ di bianco, mentre il resto del cielo è giallo di cromo I e II mischiati”, come scrive lo stesso artista, domina la parte superiore della tela ed è ancora il sole delle utopie socialiste, capace di produrre delle ombre (la figura del seminatore proietta appunto un’ombra, pur se appena percettibile) e di irrorare di luce i campi seminati, anche se i corvi sono già in agguato per mangiare i semi lanciati, prima che essi possano fruttare.

Nel secondo dipinto il sole avvolge ormai tutto di una luce uniforme e spietata, dolcemente mortuaria; scrive Vincent a Theo:

«Oh il mietitore è finito, penso che sia una di quelle tele che terrai a casa tua : è una immagine della morte come quella di cui parla il grande libro della natura, ma quella che ho cercato è quasi sorridente. È, a prescindere da una striscia di colline viola, tutta gialla, di un giallo pallido. È divertente che l’abbia vista così da dietro le sbarre di una cella».

Infine Campo di grano con corvi eseguito ad Auvers [fig.20] pochi giorni prima del suicidio ha il tono tragico e ultimativo dell’estremo canto funebre.

fig 20 Vincent van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890, Amsterdam, Museo van Gogh

Il ritmo delle pennellate, più che vorticoso è ormai incontrollato, autentiche sciabolate di colori puri inferte alle tela. Il cielo, plumbeo e minaccioso coi suoi toni di morte, schiaccia letteralmente il campo sottostante, facendolo come schizzare verso gli spettatori in un ultimo disperato sussulto di luce verso cui si protendono i corvi neri: e sarà proprio in questi campi che Vincent porrà fine alla sua tragica esistenza con un colpo di pistola al petto il 27 luglio del 1890, anche se la morte giungerà solo due giorni dopo. E vi sarà ancora una paradossale coincidenza con Caravaggio: così come il Merisi sarà infatti raggiunto dalla tanto sospirata grazia papale, che gli avrebbe consentito di tornare a Roma, solo in punto di morte, così Van Gogh riuscirà a vendere il suo primo quadro, testimonianza di un successo di pubblico e di critica che incominciava a delinearsi, solo pochi mesi prima di morire; anzi sarà forse proprio il “timore” di stare finalmente per raggiungere il tanto sospirato successo a determinare nell’artista il definitivo crollo psichico.

Sergio ROSSI   Roma  10 ottobre 2021

NOTE

[1] M. Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Torino 1990 e C. Hermann Fiore, Il “Bacchino malato” autoritratto del Caravaggio e altre figure bacchiche degli artisti, in “Quaderni di Palazzo Venezia”, VI, 1989, pp. 95-34.
[2]Cfr. https://www.aboutartonline.com/correggio-caravaggio-hirst-ed-i-nati-sotto-saturno-temi-alchemici-ed-esoterico-erotici-in-alcune-opere-dei-tre-artisti/
[3] Cfr  https://www.aboutartonline.com/caravaggio-e-il-ragazzo-che-da-una-lucerta-era-morso-riemerge-da-una-collezione-romana-la-versione-con-il-putto-che-piange/
[4] A. Zuccari, Le due versioni del Ragazzo morso da un ramarro attribuite a Caravaggio, Atti del Convegno “Sine ira et studio”. Per la cronologia del giovane Caravaggio, Roma, 2018, pp. 64-73.
[5] cfr. nota 3.
[6] R. Papa, Caravaggio. Lo stupore nell’arte, Verona 2009, p. 100.
[7]  Un doppio autoritratto del Caravaggio in «Quaderni di Palazzo Venezia», VI, 1989, pp. 149-155; L’autoritratto del Caravaggio in S. Luigi dei Francesi, in «Strenna dei Romanisti», LII, 1991, pp.14-21; Peccato e redenzione negli autoritratti del Caravaggio, in S. Macioce (a cura di), Michelangelo Merisi da Caravaggio: la vita e le opere attraverso i documenti, atti del convegno, Roma 1996, pp. 316-330; Il mistero della luce glauca. Verità dell’immagine e attesa del miracolo nella pittura del Seicento, in S. Rossi (a cura di), Scienza e miracoli nell’arte del ‘600. Alle origini della medicina moderna, Catalogo della mostra (Roma-Palazzo Venezia, 30 marzo-30 giugno 1998), Milano 1998, pp. 14-21; Sickness and Ealing in 16th and 17th Century Pictorial Culture in From Magic to Medicine. Science and belief in 16th to 18th Century Art, Catalogo della mostra, Helsinki, Museo Sinebrychoff (10 marzo-30 maggio2004); Arte come fatica di mente. Da Leonardo al Novecento, Roma 2012, pp. 107-118; Oltre il Giubileo I. Pittura e misericordia a Roma 1300-1675, Roma 2017, cap. VII, pp.117-140; Michelangelo e Caravaggio. Riflessioni su un volume di Marco Bussagli, “Theory and Criticism of Literature and Arts”, vol. 3, No. 1, April 2018, pp. 1-18; Caravaggio “allo specchio” tra perdono e dannazione, in Caravaggio alla fine del Rinascimento, a cura di C. Strinati, Roma 2017, pp.49-70; e da ultimo Caravaggio in bilico tra peccato e redenzione, in https://www.aboutartonline.com.
[8] Al proposito si veda il mio Novità su Caravaggio e i Mattei, in https:// www.aboutartonline.com.
[9] A. Zuccari, San Felice da Cantalice e i luoghi d’arte cappuccini: Dal convento di San Bonaventura ai tuguri dipinti dal Caravaggio (1990) ripubblicato in Caravaggio controluce. Ideali e capolavori, Ginevra-Milano 2011, pp. 121-143.
[10] Cfr. nota 6.
[11] Le lettere al fratello sono tratte da V. Van Gogh, Lettere a Theo sulla pittura, Parma 1984.