Caravaggio davvero “Sine ira et studio”? Una lettura non compiacente del volume con gli Atti del Convegno (English text and italian translation)

di Clovis WHITFIELD

Il volume da poco pubblicato “Il giovane Caravaggio ‘Sine ira et studio’

a cura di Alessandro Zuccari, De Luca editori, Roma 2018, segue la “Giornata di studi” tenutasi con identico titolo, a cura dello stesso Zuccari e di M. Cristina Terzaghi, alla Sapienza Università di Roma il 1 marzo 2017. Anche se nel volume molto è scritto su Caravaggio non altrettanto spesso vengono alla luce nuove informazioni importanti, anche se tra questa serie di saggi vi è un’anticipazione della Vita di Caravaggio di Gaspare Celio (dal MS del 1614) riemersa grazie alle ricerche di Riccardo Gandolfi, in attesa della pubblicazione del testo per intero. Come accadde con la scoperta che il primo avvistamento dell’artista a Roma avvenne durante la Quaresima del 1596, (si veda il catalogo della mostra all‘Archivio di Stato nel 2011 cfr Caravaggio a Roma. Una vita dal vero. Catalogo della mostra (Roma, 11 febbraio-15 maggio) a cura di M. Di Sivo , O. Verdi, De Luca  editori) ci vorrà ancora un pò di tempo perché le nuove informazioni si diffondano e in ogni caso occorre ancora una certa cautela a prendere come prova definitiva la testimonianza di un semplice barbiere probabilmente resa sotto costrizione nel 1597, e questo vale anche riguardo al al saggio Caravaggio in viaggio da Milano a Roma di Giacomo Berra (cfr. Il Caravaggio da Milano a Roma: problemi e ipotesi.): il quale propone, nel frattempo, diversi itinerari (via le bellezze di Venezia, Padova, Bologna, Firenze, se non forse Ancona o Genova) .

Va detto che la maggior parte degli scritti del volume prendono in considerazione la nuova datazione (1596) dell’arrivo del Merisi a Roma, in parte perché le sue prime opere sembrano corrispondere bene a un inizio nella bottega di Carli ‘il siciliano’ nel 1596. Significa però che non possiamo più parlare, come fa il titolo di questo volume, del ‘giovane Caravaggio‘ –oltre al fatto che quegli anni dal 1592 al 1596 sono diventati un mistero – visto che aveva già 25 anni cioè più della metà del corso della sua vita, quando è associato al suo primo (?) scalo a Roma. E comunque, dato quello che apprendiamo riguardo ad una travagliata partenza da Milano, è difficile immaginare che non sarebbe stato notato a Roma se fosse arrivato davvero nel 1592, visto che la sua vita finì da subito inevitabilmente sotto gli occhi del pubblico.

Gaspare Celio

Nella biografia di Celio, di cui ci viene data un’anticipazione da Gandolfi (Cfr. “Notizie sul giovane Caravaggio dall’inedita biografia di Gaspare Celio“) le circostanze del coinvolgimento del Merisi con il cardinale Del Monte ci dicono alcune cose importanti che prima non sapevamo. Probabilmente avremmo anche potuto immaginare che fosse stato Prospero Orsi colui che avvicinò Caravaggio a Del Monte, ma Celio è il primo a dirlo. In quel frangente l’artista era ancora apparentemente senzatetto, come lo era stato quando aveva lavorato inizialmente per Carli e dormiva in un rifugio di fortuna accanto alla statua di Pasquino (dietro Piazza Navona). Ma la cosa più interessante di tutte, è che ci dice che Orsi portò Caravaggio a dipingere alcune copie per il Cardinale. Gandolfi finora non ha fatto molta attenzione a questo dettaglio, che invece appare di grande rilevanza per la carriera dell’artista e per la specialità per la quale aveva evidentemente guadagnato una reputazione tale per cui veniva deriso dall’establishment. ‘Dopo desiderando il cardinale del Monte un giovane, che li andasse copiando alcuna cosa, Prosperino vi accomodò esso Michelangelo’.

È affascinante l’idea che questo ragazzo godesse evidentemente già di un credito tale da essere ritenuto in grado di fare copie esatte,

e infatti Del Monte aveva bisogno di un simile specialista – molti se non la maggior parte della sua vasta collezione di dipinti era composta da copie, visto che non era certo il più ricco tra i mecenati del tempo.

Antiveduto Gramatica

Ma questo ci ricorda anche che l’attività di Caravaggio fino a quel momento era stata di lavorare in botteghe che producevano repliche, icone devozionali e i ritratti di uomini famosi. Lorenzo Carli, per il quale dipinse immagini e copie devozionali, come riporta il suo corregionale siciliano Susinno aveva venduto quadri a dozzine, e queste sono le opere grossolane di cui parla il Baglione. Le riproduzioni, sia per i negozianti locali che per se stessi, costituivano il duro lavoro che Van Mander (1604) descrive quando parla di come Caravaggio fosse faticosamente uscito dalla povertà tramite il lavoro assiduo.

Escludere questa attività di Caravaggio, consistente nel riprodurre e diffondere repliche e copie delle sue invenzioni, significa non comprendere la operosità con cui egli lavorava per i Mattei, i quali avevano bisogno di più versioni per comunicare le verità della nuova interpretazione dei Vangeli, e inoltre non si riuscirebbe a capire perché l’ambasciatore Béthune fosse soddisfatto di prendere le copie verosimilmente realizzate dal Turcomanno Prosperino,portate con soddisfazione a Parigi nel 1605. Anche a Napoli in seguito, Caravaggio si orientò verso una bottega, quella di Finson e Vinck in piazza della Carità, la cui attività consisteva proprio nel riprodurre in modo industriale copie e repliche.

Mancini, che evidentemente aveva una diversa fonte di informazioni, ha scritto che Caravaggio era rimasto con Pandolfo Pucci e fece per lui “copie di devotione” che furono inviate a Recanati. Bellori aggiunge che lavorò anche per Antiveduto Gramatica, il “gran cappocciante” –si trattava evidentemente di copie ripetitive di personaggi famosi (anche se nessuno di questi quadri, sia di Gramatica che di Caravaggio, è sopravvissuto).

Il saggio di Rossella Vodret sulla Buona Ventura dei Musei Capitolini va oltre lo studio molto prezioso che venne pubblicato a suo tempo dal compianto Giorgio Leone, per suggerire che la Madonna devozionale apparsa con la radiografia sotto il quadro

 

 

non soltanto è molto simile a quanto si vendeva nel laboratorio di Carli, ma anche che potrebbe essere stata dipinta dallo stesso Caravaggio – ed include anche una versione di una testa per la Buona Ventura Vittrice oggi al Louvre, il quadro che si dice sia stato fatto appunto per Gerolamo Vittrice. Ciò suggerisce che Del Monte abbia visto la Buona Ventura e che Caravaggio gliene abbia dipinto un’altra versione, forse originariamente della stessa scala, ma, avendo recuperata una tela più grande, fu in grado di dipingerla in scala più grande. Sembra insomma che la Madonna incompiuta, che è simile a quella prodotta dalla bottega siciliana del Carli, risalga al tempo in cui lo stesso Carli morì, nel marzo 1597, quando il suo laboratorio si chiuse. Ciò che è abbastanza chiaro è che il Merisi era pronto a ripetersi, e non ci sono dubbi che esistessero più versioni di opere come il Ragazzo che sbuccia un frutto, o del Ragazzo morso dal ramarro, e non ha senso ora passare troppo tempo in analisi interiori su quale di questi sia l’unico originale. Le numerose versioni del Ragazzo che sbuccia un frutto potrebbero appartenere al periodo in cui per la prima volta lavorava come pittore a un tanto al pezzo a Roma – e non dovremmo dimenticare che non gli venne data una sistemazione da Carli, ma lavorò per lui come lavorante a giornata, come dice Bellori‘vi dimorò senza recapito e senza provvedimento’.

Quello che emerge è un periodo in cui Caravaggio non aveva mezzi di sostentamento sicuri, e dipendeva dalla carità di un certo numero di individui come mons. Pucci, forse dopo un primo approdo nella Trinità dei Pellegrini, e gradualmente si fece strada vendendo le sue stesse invenzioni. Sembra un pò controcorrente il fatto che Alessandro Zuccari possa arguire quale sia l’originale delle versioni del Ragazzo morso dal ramarro (cfr. “Le due versioni del Ragazzo da un ramarro attribuito a Caravaggio”),

Il Ragazzo morso dal ramarro (National Gallery sx; Fondazione Longhi, dx)

quando invece potremmo considerare con un esame più approfondito la terza versione in una collezione privata romana che egli pubblica, soprattutto perché qui il Ragazzo ha le lacrime citate da Mancini, assenti nelle versioni della National Gallery e della Fondazione Longhi. In questo senso, l’esperienza di vedere ciò che è una copia e ciò che è una replica dell’artista rimane fino ad ora un giudizio soggettivo, ma le copie hanno evidenti debolezze e replicano – per quanto possono – ciò che è visibile sulla superficie delle opere che si hanno davanti. Anche se Caravaggio ha avuto un dono così straordinario nell’osservare e copiare, le repliche che ha fatto non sono mai completamente uguali a ciò che aveva ultimato. Inoltre, dato che queste prime opere erano vendute per una cifra irrisoria, e non avevano un gran valore come avvenne per i quadri più grandi, dovremmo guardare questi soggetti che Caravaggio dipingeva per “vendere” con ulteriore pazienza, perché nessuno ne avrebbe fatto delle copie. E mentre Zuccari si riferisce anche alle “copie” che Prospero Orsi vendette al Duca d’Altemps nel 1612, si dovrebbe notare –sine ira et studio- che queste non furono vendute, com’era solito per le sue copie, per 10-15 scudi, ma per la somma assai superiore di 155 scudi, il che indica che erano originali, e a dire il vero il Suonatore di Liuto aveva la stessa descrizione (‘Un quadro d’un putto che suona il liuto‘) nel 1619/21 -quando fu ulteriormente inventariato nella collezione Altemps– di quando Celio vide dipinto “un putto che sonava il leuto” nella casa di Orsi. Ed è sorprendente vedere la versione Wildenstein ancora illustrata come se fosse “la pittura di Del Monte”,

Il Suonatore di Liuto (Ermitage sx; versione Wildenstein dx)
Il Suonatore di Liuto ex Badminton

come pure è scorretto farlo senza menzionare la letteratura altamente critica su di essa (cfr David van Edwards, 1999,2015) e Claudio Strinati più recentemente su questo sito
(Cfr. https://www.aboutartonline.com/il-suonatore-di-liuto-di-caravaggio/),
che indica come sebbene provenisse dalla collezione del Cardinale, è un lavoro successivo e non corrisponde lontanamente alla famosa descrizione della Vita di Caravaggio di Baglione. Né si dovrebbe continuare a ignorare che la versione Wildenstein non fu venduta dagli eredi del Monte nel 1628 come opera di Caravaggio, come invece scrive Stefania Macioce nel suo articolo (cfr “Una musica di alcuni giovani ritratti dal naturale, assai bene“), a differenza delle altre due opere autentiche che Antonio Barberini comprò alla vendita all’incanto nel 1628, la Santa Caterina ora a Madrid e i Bari ora a Fort Worth.

Gli eredi avevano tutto l’interesse a dare alla loro proprietà la migliore opportunità con attribuzioni ottimistiche, ma la maggior parte delle opere del Cardinale erano copie o opera di mani anonime. Inoltre, in modo insolito, la studiosa ignora la riflettografia ad infrarossi che il Metropolitan Museum ha fatto nel 2014 dei Musici, che quanto meno chiarisce che le congetture sulla musica originale dipinta su parte dei libri sono impossibili a causa delle condizioni delle stesse immagini. Esageratissima poi l’omessione di qualsiasi cenno alla descrizione ancora più ampia dell’opera che il Baglione evidentemente considerava il suo compagno.

La zona della Scrofa (ora Via di Ripetta) era l’area in cui Caravaggio si guadagnava da vivere nella prima metà del 1596,

Giovanni Maggi, Pianta di Roma, 1625, particolare dell’area intorno a Palazzo Madama con l’indicazione dei palazzi, chiese, piazze, strade e botteghe artigiane in cui Merisi visse e che frequentò durante il soggiorno romano (elaborazione grafica di Michele Cuppone)
-1) Casa di Antiveduto Gramatica 2) Piazza della Scrofa 3) Via della Stelletta 4) Via della Scrofa 5) Bottega di Lorenzo Carli 6) Chiesa di Sant’Agostino 7) Palazzo Milesi 8) Bottega del pellaio Bonifacio Sinibaldi  9) Barberia di Marco Benni 10) Chiesa della Maddalena 11) Barberia dei fratelli Tanconi 12) Palazzo Aldobrandini 13) Palazzo Patrizi già Aldobrandini 14) Palazzo Giustiniani 15) Palazzo Crescenzi alla Rotonda 16) Chiesa di San Luigi dei Francesi 17) Bottega di Costantino Spada 18) Proprietà Cherubini 19) Palazzo Madama 20) Piazza della Dogana 21) Collegio della Sapienza 22) Corsia Agonale 23) Piazza Navona 24) Palazzo Bonadies-Bottega di Ottaviano Gabrielli 25) Casa di Lena 26) Chiesa di San Giovanni della Pigna 27) Palazzo Paravicini 28) Palazzo Rustici 29) Palazzo Cavalletti 30) Casa di Antonio Valentini 31) Palazzo Massimi 32) Chiesa di San Pantaleo 33) Piazza di Pasquino 34) Palazzo Sannesi già Cesari
Da Michele Cuppone, «Tre salti» sulle orme di Caravaggio intorno a Palazzo Madama, in P. di Loreto (a cura di),  L’Arte di vivere l’Arte. Scritti in onore di Claudio Strinati, Etgraphiae, Roma, 2018

ma la sua vera zona famigliare presto fu intorno alla Trinità dei Pellegrini, alla Via dei Giubbonari e al Palazzo Petrignani. Come ho scritto in un lungo articolo ‘Caravaggio bisognoso’ pubblicato su questo sito, il soggiorno con la famiglia Cesari (Cavalier d’Arpino) molto probabilmente fu proprio nel loro palazzo all’angolo tra Via dei Chiavari e Via dei Giubbonari, e posto che egli lavorò sul dipinto del Suonatore di Liuto ora all’Hermitage, per Prospero Orsi, si trovava nella sua casa sopra una taverna al largo di Piazza Salvatore in Campo (l’attuale chiesa è a due piazze di distanza, Orsi abitava in Via dei Pettinari, che porta da Palazzo Barberini alla Trinità dei Pellegrini), accanto al vecchio Palazzo Barberini. La recente pulitura del dipinto dell‘Hermitage, che rivela oltre alla sua bravura le parti non finite, ha portato alcuni a datare l’opera più tarda. Non mi sembra  che quando Celio dice che ‘si pose in casa di esso Prospero a fare alcuna cosa dal naturale’ , si possa interpretare che sia andato ad abitarvi, come invece Gandolfi (e Massimo Moretti nel suo saggio “Caravaggio in casa di Monsignor Fantino e alcuni documenti sui Petrignani e Ferdinando de ‘Medici”) presumono, così come l’accordo con mons. Petrignani non significava che vivesse nel suo palazzo. Sappiamo che la casa di Cesari è a un centinaio di metri; Mancini dice che questi ebbe notizia che la Buona Ventura, la Fuga in Egitto e la Maddalena (realizzati per il cognato di Prospero) “e altro, erano dipinti nella stanza che Mons. Petrignani gli permetteva di usare”, dunque ha senso leggere che ciò fu durante gli otto mesi che come dice Mancini egli rimase in casa dei Cesari, visto che questo fu il primo periodo in cui ebbe una stabile residenza a Roma. Il che fa credere sempre più che ciò sia avvenuto durante il 1596;

Caravaggio, Il Suonatore di Liuto (Ermitage, part.)

Mancini ha maggior numero di informazioni su questo periodo, stranamente però non sembra averne seguito l’esistenza a Roma dopo che l’artista ebbe lasciato Del Monte per trasferirsi dai Mattei. Una linea di appunti di Mancini suggerisce che il Cesari lo tenesse quasi nascosto ‘dove non volevano che fusse visto‘ (cfr. Considerazioni, p.266), e anche se Bellori dice che gli fecero dipingere fiori, questa è evidentemente una proiezione che fa riferimento alla descrizione di Baglione del vaso di fiori dipinto nel Suonatore di Liuto, piuttosto che li abbia visti realmente.
Evidentemente Cesari lo considerava ancora un copista – come documentato dalla fraseologia di Mancini vuol che ritratti, mentre il passo successivo rimanda al desiderio frustrato di Caravaggio di fare dipinti di figura et fuga a ciò non figura e le opere che dipinse nella stanza di Palazzo Petrignani (sul sito del Monte di Pietà) non mostrano alcun input stilistico dal lavoro dei suoi ospiti.

Caravaggio, Buona Ventura, Musei Capitolini (sx) e Louvre (dx)

Il saggio di Rossella Vodret già richiamato (cfr. La Buona Ventura della Pinacoteca Capitolina: alcune riflessioni sulle analisi tecniche)  va oltre lo studio molto prezioso che è stato pubblicato dal compianto Giorgio Leone, per suggerire, come dicevamo, che la Madonna devozionale sotto il quadro non soltanto è molto simile a ciò che si vendeva nel laboratorio Carli, ma che potrebbe essere stata dipinta dallo stesso Caravaggio – ed include anche una versione di una testa per la Buona Ventura Vittrice oggi al Louvre, che secondo alcuni venne realizzata per Gerolamo Vittrice.

Come già si è detto, questo fa credere che Del Monte abbia visto la Buona Ventura Vittrice e che Caravaggio gliene abbia dipinto un’altra versione più ampia (forse perché aveva recuperato una tela più larga dal negozio di Carli ?). L’idea che Caravaggio possa aver dipinto la figura di Santa Maria Odigitria (un soggetto caro alla congregazione siciliana nella chiesa frequentata da Carli, in Via del Tritone) sotto la Buona Ventura Capitolina – a cui Giorgio Leone collegava il tipo di effigi che Lorenzo Carli vendeva al dettaglio – è la prova che il dipinto non data tanto lontano dal tempo in cui Caravaggio lavorava per lui. E l’idea che la testa del giovane nella versione Vittrice ora al Louvre sia anche nell’immagine della versione dei Musei Capitolini potrebbe far credere che egli abbia pensato di fare una semplice replica della prima versione, mentre poi dipinse una più grande immagine per l’opportunità offertagli dalla tela recuperata con la Madonna incompiuta. In un recente saggio (cfr. https://www.aboutartonline.com/a-proposito-di-un-dipinto-siglato-mmf-ancora-sui-doppi-e-le-copie-da-caravaggio-e-qualche-equivoco – su-prospero-orsi /) Nicosetta Roio fa riferimento ad una versione coeva della Buona Ventura, più piccola del dipinto dei Capitolini; inoltre in questo articolo riguardo a Mario Minniti avanza l’idea che l’amico del Caravaggio lavorasse con lui dai tempi della bottega siciliana del Carli ed ancora nel nuovo periodo più stabile, quello presso il Cesari. È certamente stilisticamente realistico considerare, come ha fatto ultimamente sempre la Roio, la versione del Suonatore di Liuto Lodi

Mario Minniti, Suonatore di liuto Lodi, Campione d’Italia

come un lavoro di mano di Minniti, e tuttavia non è per un ricordo del dipinto dell’Ermitage, perché include i riflessi nella caraffa descritta da Baglione nel dipinto Del Monte.

Maria Cristina Terzaghi ha fatto un’utile presentazione su prove documentali per il Cesto di frutta dell’Ambrosiana (cfr. Tracce per la Canestra e la natura morta al tempo di Caravaggio), ma è sempre difficile giustificare il legame preciso con la tradizione romana della natura morta, tanto più che il quadro non fu visto a Roma, come pure rapportare le nature morte che conosciamo ad un Prospero Orsi molto più maturo, ignorando implicitamente l’idea che il suo linguaggio decorativo possa aver preceduto gli slanci innovativi di Caravaggio. Il Cesto di frutta sembra essere un’opera appartenente al gruppo di dipinti realizzato nella stanza che Caravaggio usava in Palazzo Petrignani quando divenne una sorta di fenomeno, probabilmente mentre usava una camera oscura come risultato dell’incoraggiamento dei suoi sostenitori, accorgendosi – come lo stesso Del Monte – che egli era straordinario nel seguire e riprodurre ciò che gli era davanti.

Questo periodo senza travagli fu evidentemente molto importante per Caravaggio,

non turbato dalle pressioni per conformarsi ai soggetti e al decoro. Gianni Papi nel suo saggio (cfr “I primi ritratti di Caravaggio, Per la cronologia posticipata della Giuditta e del San Giovanni Battista Costa“) abbraccia un argomento con molto successo, tranne che mancano le opere stesse. Le fonti tramandano molti esempi di opere che egli avrebbe eseguito, ma non è possibile affermare con sicurezza che qualcuno di quelle fin qui proposte, come il “Cavalier Marino” pubblicato a suo tempo da Maurizio Marini, o recentemente il “Prospero Farinacci” proposto da Marco Cardinali e Wolfgang Prohaska, o come il più recente tentativo di convertire il “Ritratto di Marcello Provenzale” della Galleria Borghese, o ancora il Cardinale Baronio, dalla serie di ritratti di testa e spalle degli Uffizi, abbiano qualcosa a che fare con ciò che dovremmo cercare nella prima ritrattistica di Caravaggio. Anche la riscoperta sempre del Papi sul “Maffeo Barberini” di collezione Corsini ha bisogno di essere temprata con l’occhio dell’intenditore: le maniche rigide e il vaso di fiori non sono certo ciò che ci aspettiamo da Caravaggio in qualsiasi momento; sembra che Orsi abbia avuto un ruolo importante nel promuovere la sua ‘scoperta’ con il suo vicino di Palazzo Barberini come uno dei primi effigiati, ed abbia completato il suo progetto ambizioso, quando il suo pupillo non riusciva a catturare se non le sembianze essenziali.

In tutto questo dibattito c’è una singolare assenza dell’ingrediente vitale della lettura intuitiva della progressione dell’artista, passato ad essere da vagabondo coccolato a fuggiasco in fuga da tutti i tipi di demoni, e non aiuta il fatto che in realtà il soggetto non sia sempre trattato con la umiltà che suggerirebbe la frase di Tacito sine ira et studio.

Clovis WHITFIELD  Londra Gennaio 2019

© Clovis Whitfield

The London Clinic  January 2019

English version

New studies on Caravaggio

The volume of studies (Il giovane Caravaggio “Sine ira et studio” edited by Alessandro Zuccari, De Luca Roma) follows the ‘Giornata di studi’ held at the Sapienza on 1 March, 2017. Although there is much written on Caravaggio it is not often that important new information comes to light, and this series of essays includes a foretaste of Gaspare Celio’s Life of Caravaggio, from the 1614 MS discovered by Riccardo Gandolfi, which he will edit and publish. As with the discovery of the first sighting of the artist in Rome during Lent of 1596, (in the Archivio di Stato’s exhibition catalogue in 2011) it takes a while for the new information to percolate and there is still a certain reluctance to take the evidence a mere barber’s boy gave under duress in 1597, as still with Giacomo Berra ‘Il Caravaggio da Milano a Roma: problemi e ipotesi’ who would like to see more concrete information, and creates more than one itinerary for his trip to Rome including sightseeing in Venice, Padua, Bologna, Florence., or maybe Ancona, or Genoa.  But most contributors to this series of studies take the new dating into account, partly because the earliest works themselves seem to correspond well with a beginning in the Sicilian Carli’s shop in 1596.  It does mean that we can no longer talk, as the title of this volume does, of the ‘giovane Caravaggio’ as those years from 1592 to 1596 have become a mystery – he was already 25 when he is associated with his first (?) port of call in Rome, more than half-way through his short life.  And given what we learn of a troubled start in Milan, it is difficult to imagine how he could have not been noticed in Rome if he really got there in 1592, his subsequent life was also one that was inevitably in the public eye.

In Celio’s biography, of which we are given a foretaste by Gandolfi (‘Notizie sul giovane Caravaggio dall’inedita biografia di Gaspare Celio’) the circumstances of his being taken up by Cardinal Del Monte tells us several important things that we did not know before. We might have guessed that it was Prospero Orsi who was detailed to bring Caravaggio along to Del Monte, but Celio is the first to say so. Secondly, at this point the artist was still apparently homeless, as he had been when he first worked for Carli, and sleeping in an alcove next to the statue of Pasquino. But most interesting of all, he says that he brought Caravaggio to paint some copies for the Cardinal. Now while Gandolfi has so far glossed over this detail, it seems of great relevance to the artist’s career and the speciality for which he had evidently gained a reputation and for which he was derided by the establishment.  ‘Dopo desiderando il card.le del Monte un giovane, che li andasse copiando alcuna cosa, Prosperino vi accomodò esso Michelangelo’.

It is fascinating that this giovane evidently already had a reputation for being able to make exact copies, and indeed del Monte had need of such a specialist – many if not most of his vast collection of paintings was composed of copies, for he was not the wealthiest of patrons.  But it also is a reminder that Caravaggio’s activity so far had been one of working with workshops that produced replicas, devotional icons and the likenesses of famous men.  Lorenzo Carli, for whom he did alcune teste di santi, had a shop in a street apparently full of devotional images and copies, and is said by his fellow Sicilian Susinno to have sold quadri a dozzina, and these are the opere grossolane of which Baglione speaks. The repetitions, whether for local shopkeepers or for himself, constituted the sheer hard work that Van Mander (1604) describes when he speaks of how Caravaggio è faticosamente uscito dalla povertà mediante il lavoro assiduo.  To exclude Caravaggio’s activity in producing other versions of his inventions means losing sight of the industry with which he worked with the Mattei, who needed multiple versions in order to communicate the truth to life of this new interpretation of the Gospels, or failing to understand why the French Ambassador Béthune was content to take replicas of them made by Prosperino to Paris in 1605. Even in Naples Caravaggio was drawn to a workshop, that of Finson and Vinck at Piazza della Carità, that was a hub of activity in producing copies and and variants of his designs.

 Mancini, who evidently had a different source of information, said that he stayed with Pandolfo Pucci, and did for him ‘alcune copie di devotione’ that were sent to Recanati. Bellori adds that he also worked for that ‘gran cappocciante’ Antiveduto Gramatica – and these evidently were more repetitious copies of famous people (although none of these either by Gramatica or Caravaggio has survived). Rossella Vodret’s study on the Capitoline Fortune Teller goes beyond the very valuable study of it that was published by the late lamented Giorgio Leone, to suggest that the devotional Madonna under the picture is not only very like what the Carli workshop sold, but also that it might have been done by Caravaggio himself  – and that it includes a version of a head for the Paris Fortune Teller, the one said to have been done for Gerolamo Vittrice. It suggests that Del Monte saw the Vittrice Fortune Teller, and had Caravaggio paint him another version of the picture – perhaps originally to the same scale, but having a salvaged canvas that was larger he was able to paint it on a bigger scale.  It sounds as though the unfinished Madonna, which is similar to those that the Sicilian Carli produced, dates from the time when Carli himself died, in March 1597, and his workshop went out of business.  What is quite clear is that he was ready to repeat himself, and there can be little doubt that there were multiple versions of designs like the Boy Peeling Fruit, the Boy Bitten by a Lizard, and there is no point in going through a lot of soul-searching as to which of these designs is the only original. The numerous versions of the Boy Peeling Fruit might seem to belong in the period when he was first working as a jobbing painter in Rome – and we should not forget that he was not given accommodation by Carli, but worked for him as a day-worker – ‘vi dimorò senza recapito e senza provvedimento’ as Bellori puts it.  What emerges is a period when Caravaggio had no visible means of support, and depended on the charity of a number of individuals like Mgr Pucci, possibly through a first port of call in the Trinità dei Pellegrini, and gradually worked his way up by selling his own inventions. It seems a little against the current that Alessandro Zuccari should be arguing which of the Boy bitten by a Lizard (‘Le due versioni del Ragazzo morso da un ramarro attribuite a Caravaggio)  is the original, when we could be treated to a more in-depth examination of the third version he publishes in a Roman private collection, especially as it has the tears mentioned by Mancini, absent in the National Gallery and Longhi Foundation versions.  In this the experience of seeing what is a copy, and what is a replica by the artist is so far a subjective judgement, but copies do have manifest weaknesses and replicate – as far as they can – what is visible on the surface of the work in front of them.  Even as Caravaggio had such an extraordinary gift for observing and copying, the replicas he made are never entirely the same as the last one. Given that these early works were sold for a pittance, and did not appreciate in price anything like as much as the larger figure paintings, we should look at these subjects that Caravaggio painted ‘to sell’ with extra patience, for no-one would have been making copies yet.  And while Zuccari also refers to the ‘copies’ that Prospero Orsi sold to Duca d’Altemps in 1612, sine ira et studio  it should be noted that these were not sold at the usual 10 – 15 scudi for his copies, but for the large sum of 155 scudi that indicated they were original, and indeed the Lute Player had the same description (‘Un quadro d’un putto che suona il liuto’ in 1619/21 when it was further inventoried in the Altemps collection as when Celio saw it being painted in Orsi’s house ‘un putto che sonava il leuto’. While it is surprising to see the Wildenstein version still illustrated as if it is ‘the Del Monte painting’  it is disingenuous to do so without mentioning the highly critical literature on it (David van Edwards, 1999, 2015) and Strinati most recently on this site (June 26th 2017), that indicate that although it came from the Cardinal’s collection, it is a later work and does not remotely correspond with the famous description in Baglione’s Life of Caravaggio. Nor should it continue to be ignored that the Wildenstein version was not sold by the del Monte heirs in 1628 as a work by Caravaggio, as S. Macioce does in her article (‘Una musica di alcuni giovani ritratti dal naturale, assai bene’ ) in distinction from the other two authentic works Antonio Barberini bought at the Vendita all’ incanto in 1628, the St Catherine now in Madrid and the Cardsharps now in Fort Worth. The heirs had every incentive to give their property the best chance with optimistic attributions, but the majority of the Cardinal’s works were copies or by anonymous hands.  Also, uncharacteristically, she ignores the infrared reflectography that the Metropolitan museum did in 2014 of the Musicians, which at least makes clear that speculation about the original music painted on the part-books is impossible because of the state of the picture itself. And it is quite an achievement to omit any reference to the even more extensive description by Baglione of the work he evidently regarded as its companion.

 So the Scrofa (now Via di Ripetta) was the area where Caravaggio scraped a living, in the first half of 1596 but his real home turf was soon around the Trinità dei Pellegrini, the Via dei Giubbonari, and Palazzo Petrignani. As I have written in a long article ‘Caravaggio bisognoso’ published on this site, the stay with the Cesaris was most likely in their house at the corner of Via dei Chiavari and Via dei Giubbonari, and if he worked at Prospero Orsi’s on the painting the Hermitage Lute Player this was at his house above a tavern off Piazza Salvatore in Campo (the present church is two piazzas away; Orsi lived in Via dei Pettinari, which leads from Palazzo Barberini to the Trinità dei Pellegrini), next to the old Palazzo Barberini.The recent cleaning of the Hermitage painting, revealing its bravura and unfinished parts, have led some to date it later. I don’t think Celio’s words ‘si pose in casa di esso Prospero a fare alcuna cosa dal naturale’ amount to saying that Caravaggio stayed with Orsi as Gandolfi (and Massimo Moretti, in his essay on ‘Caravaggio in casa di Monsignor Fantino e alcuni documenti sui Petrignani e Ferdinando de’Medici) have assumed, just as the arrangement with Mgr Petrignani did not mean he lived at his palazzo. We know the Cesari house is just a hundred metres away.  Mancini says that he had a report that the Fortune Teller, the Flight into Egypt, and the Mary Magdalene (paintings done for Prospero’s brother-in-law)  ‘et altro,  were painted in the stanza that Monsignor Petrignani allowed him to use, it makes sense to read it that this was during the eight months that Mancini said he stayed in casa with the Cesaris; that this was the first period that the artist had a settled existence in Rome.  This increasingly looks to have been during 1596; Mancini has the most information on this period, strangely he does not appear to have followed his existence in Rome after he left Del Monte and transferred to the Mattei  A line of Mancini’s notes suggests that the Cesaris kept him under wraps: ‘dove non volevano che fusse visto’ (Considerazioni, p. 226), and although Bellori says that they had him paint flowers, this is evidently a projection – he relied on Baglione’s description of the vase of flowers he painted in the Lute Player, rather than actually seeing them. The Cesari evidently still considered him a copyist – as documented by Mancini’s phraseology vuol che ritratti, while the next passage refers to Caravaggio’s thwarted wish to do figure paintings et fuga a ciò non figure, and the works that he painted in the stanza in Palazzo Petrignani (on the site of the Monte di Pietà) show no stylistic input from his hosts’ work.

Rossella Vodret’s study in this volume (La Buona Ventura della Pinacoteca Capitolina: alcune riflessioni sulle analisi tecniche) on the Capitoline Fortune Teller goes beyond the very valuable study of it that was published by the late lamented Giorgio Leone, to suggest that the devotional Madonna under the picture is not only very like what the Carli workshop sold, but also that it might have been done by Caravaggio himself  – and that it includes a study of a head for the Paris version of the Fortune Teller, the one said to have been done for Gerolamo Vittrice. It suggests that Del Monte saw the Vittrice Fortune Teller, and had Caravaggio paint him another version of the picture, a larger composition – perhaps made possible because he had salvaged a canvas from Carli’s shop ? The idea that Caravaggio may have painted the figure of S. Maria Odigiatra (a subject dear to the Sicilian congregation in the church Carli attended in the Via del Tritone)  under the Capitoline Fortune Teller – which Giorgio Leone connected with the kind of icon that Lorenzo Carli retailed – is evidence that the painting is not remote from the time when Caravaggio worked for him. And the idea that the head of the young man in the Vittrice/Louvre version of the subject is also present under the Capitoline image probably suggests that he may have considered doing a straightforward replica of the first version, but then revised this to paint a larger picture because of the opportunity offered by the salvaged canvas with the unfinished Madonna. Nicosetta Roio’s recent  (https://www.aboutartonline.com/a-proposito-di-un-dipinto-siglato-m-m-f-ancora-sui-doppi-e-le-copie-da-caravaggio-e-qualche-equivoco-su-prospero-orsi/) mention of a contemporary version of the Fortune Teller, smaller than the Capitoline painting, in her article on Mario Minniti, points to the idea that Caravaggio’s friend from the Sicilian workshop days was again working alongside him in his new more settled period chez the Cesaris.  It is certainly stylistically realistic to regard the Lodi version of the Lute Player (as Roio has recently done) as a work done by Minniti, although it is not a recollection of the Hermitage painting because it includes the reflections in the carafe that Baglione described in the Del Monte painting.

Maria Cristina Terzaghi did a useful presentation on the documentary evidence for the Ambrosiana Basket of Fruit (Tracce per la Canestra e la natura morta al tempo di Caravaggio), but it is always difficult to justify the precise connection with the Roman still-life tradition, especially as the work was not seen in Rome, or even how it relates the still-lifes we know of the much older Prospero Orsi, implicitly ignoring the idea that his decorative idiom may have preceded Caravaggio’s innovative departures.  The Basket of Fruit does look to be a work that belongs with the group of paintings done in the stanza that Caravaggio used in Palazzo Petrignani, when he became something of a phenomenon, probably using a camera obscura as a result of the encouragement of his backers, who saw – like Del Monte himself – that he was extraordinary in following, and reproducing what was in front of him. This sheltered period was evidently highly important, when the was untroubled by pressures to conform to subjects and decorum.  Gianni Papi (‘I primi ritratti di Caravaggio, Per la cronologia posticipata della Giuditta e del San Giovanni Battista Costa’ ) embraces a subject with much going for it, except for the absence of the works themselves. Many early examples are described in the sources, but it is not possible to say with confidence that any of those recently proposed, like the ‘Cavalier Marino’ published by Maurizio Marini, or the ‘Prospero Farinacci’ advanced by Marco Cardinali and Wolfgang Prohaska, or the recent attempt to convert the ‘Portrait of Marcello Provenzale’ from the Galleria Borghese, or the Cardinal Baronius from the series of head and shoulders portraits in the Uffizi, have anything to do with what we should be looking for in the early Caravaggio portrait. Even dr Papi’s rediscovery of the Corsini ‘Maffeo Barberini’ needs tempering with the connoisseur’s eye: the stiff sleeves and vase of flowers are hardly what we expect from Caravaggio at any stage, and it look as though Orsi had a hand in promoting his ‘discovery’ with his neighbour in Palazzo Barberini as one of the first sitters, and completed the ambitious design, when his protégé had not progressed from capturing more than the essential likenesses. In all this debate there is a singular absence of the vital ingredient of intuitive reading of the artist’s progression from a cosseted vagrant to being a fugitive from all sorts of demons, and it does not help that in reality the subject is not always treated with the humility that Tacitus’s phrase sine ira et studio suggests.

© Clovis Whitfield

The London Clinic

January 2019