Bertel Thorvaldsen, novità da un inventario inedito. II parte

di Rita RANDOLFI

L’appartamento nella pensione Buti-Tomati. II parte*

*Pubblichiamo la SECONDA parte di un ampio saggio di Rita Randolfi che fa luce, sulla base di un’ importartante documentazione inedita, su aspetti di grande rilievo relativi alla figura e all’opera di Bertel Thorvaldsen, all’ambiente in cui visse e al mondo del Neoclassicismo. (I parte)

Esaminando l’inventario del 1844 si ha immediatamente conferma dello stile di vita decisamente “disordinato” di Thorvaldsen, che comunque godeva di un alloggio piuttosto ampio nella pensione di palazzo Buti-Tomati.
Thiele, che descrisse l’appartamento nel dettaglio,[1] parlava di sei ambienti più la cantina e ciò corrisponde con quanto riportato nel documento.[2]
Colpisce immediatamente il modo in cui questa residenza si presentava come un museo in nuce, dove gli oggetti di uso quotidiano quali le sedie o il letto convivevano accanto a gessi, bozzetti e armadi pieni di cartelle di disegni, stampe e documenti di vario genere e natura.
Il succinto ma efficace ritratto psicologico che Thiele fornisce dell’amico scultore coincide con l’impressione che si riceve leggendo l’inventario:

La prima stanza, come tutte le altre, ha il pavimento in cotto, e gli scuri alle finestre non servono soltanto a riparare dalla calura, ma qua e là rimediano anche all’assenza di qualche vetro, che il padrone di casa non si è premurato di far sostituire, per il semplice fatto che Thorvaldsen non ne ha fatto rilevare la mancanza. Tuttavia ancor prima di renderci conto di simili trivialità, avvertiamo chiaramente che non stiamo entrando nella casa di un cinico, ma in quella di un filosofo che dà poco peso a quello che per la massa costituisce l’essenziale

Nella prima sala, collocata al pianterreno, che Thiele stesso dichiarava utilizzata come atelier,[3] vi erano diversi armadi con cassetti, alcuni dei quali vuoti.   In una credenza color perla, Thorvaldsen custodiva gelosamente trentaquattro pezzi di arte egizia, di cui due in stato frammentario. Sicuramente alcuni di questi reperti, purtroppo non descritti in modo dettagliato, sono quelli oggi conservati nel Museo di Copenaghen.
Al n. 4 è menzionato un ritratto in cera del defunto, probabilmente la maschera approntata dal conte Antonio Savorelli, personalità tutta da indagare, del resto presente alla stesura dell’atto.[4] Nel Museo Thorvaldsen esiste un gesso, L645, che viene detto realizzato dal Savarelli, confondendo il nome del conte. Il gesso evidentemente fu tratto dalla maschera di cera, e nel sito web del museo è datato al 1810, infatti Bertel non era morto in Italia, e forse per ritrarlo si era utilizzata una maschera giovanile, che l’inventario afferma addirittura essere incorniciata.
In un’altra credenza vuota «ad uso di armario» si trovava il gesso di Ganimede con l’aquila, (n. 5) uno dei gruppi più famosi del maestro. I redattori dell’inventario non spesero una riga sulla postura di Ganimede, che potrebbe essere stato rappresentato stante, con l’aquila ai piedi o inginocchiato, ma la presenza di questo pezzo è molto importante, considerate le numerose repliche che ne derivarono, la prima delle quali posseduta dal bresciano Paolo Tosio.[5] Tuttavia   è probabile che quello dell’inventario fosse lo stesso gesso di piccole dimensioni, (cm 46,5 x 59,5) tali da essere posto su un armadio, risalente al 1815, oggi inventariato con il numero A733 dal Museo danese (Fig. 9).[6] Un altro Ganimede con l’aquila si trovava nello studio di via Colonnette 38, registrato nell’inventario al n. 255, che potrebbe identificarsi in quello oggi A45.
Il busto in gesso dello scultore ancora giovane n. 6 figurava collocato sopra un cavalletto al centro della stanza, in posizione decisamente auto celebrativa (oggi A223, Fig. 10).[7]

All’interno della stessa credenza si trovavano una cartella con centodieci disegni (n. 9) e numerosi raccoglitori di litografie, stampe ed elaborati grafici autografi e di altri artisti concernenti sia opere di Bertel, sia di reperti antichi, più la raccolta di venticinque incisioni, nel documento chiamate «Rami», di Raffaele Morghen, tutte al Museo di Copenaghen, un acquarello di Vernet (non rintracciato nel Museo e quindi forse alienato ad altro acquirente), e un foglio originale di «Witner», plausibilmente Johannes Wiedewelt.

A fronte di questo apparente caos emerge la personalità di un uomo che caparbiamente inseguiva il suo sogno, simbolo del desiderio di immortalità, testimoniato dalla raccolta dei diciotto fascicoli intitolati Le opere di Thorvaldsen (n. 8), forse l’edizione curata dall’editore Andrea Acquistapace,[8] nonché dalla presenza di incisioni con il Salvatore e i dodici Apostoli (n. 15), di libri dei conti, in cui lo scultore annotava scrupolosamente le opere già spedite in Danimarca, strumento prezioso per ricostruire l’attività dell’artista (n. 10). La descrizione di questo primo locale trova un puntuale riscontro in quella del Thiele:

In questa stanza l’artista tiene un armario pieno di bei vasi greci e due librerie per la sua biblioteca. Sopra questi tre armadi ha disposto in seguito una collezione di antichità egiziane acquistate qualche anno fa. Sulla destra c’è un armadio con monete greche, paste di vetro, pietre intagliate e simili e, sopra, un certo numero di squisite terracotte. Sotto la grande finestra dello studio che dà sulla strada, c’è un grande tavolo con frammenti di marmo, e nei cassetti è conservata una collezione di bronzi. In mezzo alla stanza c’è un tavolo, sotto il quale è disposta la sua collezione di acqueforti.[9]

Dunque i disegni e i rami che il biografo collocava nelle stanza contigua a sinistra erano stati trasferiti negli armadi di questo primo vano.[10] Inoltre si deduce che Thorvaldsen possedeva una sua personale collezione di antichità, costituita non solo di vasi greci e reperti egizi, ma anche da monete, alcune delle quali gli erano state rubate e restituite,[11] terracotte, paste di vetro, cammei, utilizzati come fonte di ispirazione per la sua produzione. Spesso gli studiosi si sono chiesti dove lo scultore conservasse queste raccolte, supponendo che si trovassero nei suoi atelier, e invece il maestro le custodiva gelosamente in casa propria, quasi non volesse mescolare le sue opere con quelle antiche, o con i disegni di altri colleghi.

Quattro giorni dopo l’inizio della redazione dell’atto, l’avvocato Filippo Ricci, Johan Bravo, definito nel Mercurio pittore di prospettiva, originario della Danimarca e residente in via Condotti n. 85,[12] uomo fidato di Thorvaldsen,   che il poeta Andersen nel 1861 ricordava come console della Danimarca, della Norvegia e della Svezia,[13] ed il conte Antonio Savorelli si recarono nuovamente in via Sistina per togliere le biffe agli ambienti del primo piano di palazzo Buti occupati da Bertel. Rispetto alla descrizione riportata dal Thiele il giro effettuato dai redattori dell’inventario sembra procedere in modo inverso. Le due testimonianze incrociate rivelano conferme e sorprese.

Nella prima stanza a sinistra si trovavano vari strumenti da lavoro, lavagne, scale, tavolini, cavalletti. Su uno di questi era posizionato il gruppo delle Tre Grazie (n. 20) in gesso realizzato dal Thorvaldsen stesso, in un retret erano stati sistemati i tredici bassorilievi sempre nello stesso materiale rappresentanti il Trionfo di Alessandro «in piccolo», (n. 26) e due copie del gruppo di Amore davanti a Giove e Giunone (n. 27).

Le Grazie furono certamente uno dei temi più trattati dagli scultori neoclassici, in quanto simbolo per eccellenza, insieme a Venere, del canone estetico di bellezza muliebre, e  Thorvaldsen voleva fornire la sua risposta alla versione dell’antagonista Canova. Nell’inventario del 1844 vengono citati ben cinque gessi ed un marmo con questo soggetto, mentre al Museo di Copenaghen si custodiscono quattro gessi e due marmi, diventa quindi complicato abbinare quel che ci è pervenuto con ciò che è registrato nel documento antico. Si può avanzare qualche supposizione: forse il modello di dimensioni inferiori era quello ospitato in casa dell’artista, e potrebbe individuarsi nell’unico esistente (A30, fig. 11) in cui le tre divinità sono rappresentate da sole senza la presenza di Amore, aggiunto successivamente.[14] Questo gesso, sicuramente il più imperfetto, per i motivi già esposti, le ridotte misure e la mancanza di Amore,   potrebbe aver trovato una collocazione meno visibile al pubblico rispetto alle altre realizzazioni, specie quelle sistemate nello studio di via delle Colonnette 38, di cui si dirà oltre.[15]

fig.11

I rilievi raffiguranti il Trionfo di Alessandro per il Quirinale di Napoleone ottennero un successo strepitoso tanto che ne vennero richieste numerose repliche, le più famose in marmo, commissionate da Giovan Battista Sommariva nel 1818, furono consegnate dieci anni più tardi, quando il mecenate era già morto.[16] Del fregio per il palazzo reale di Christiamsborg, di cui Pietro Galli eseguì una versione in formato ridotto, ne sopravvissero solo alcuni frammenti originali nel Thorvaldsens Museum di Copenaghen. Un esemplare in gesso fu collocato nel 1822 nel palazzo di Eugenio di Beauharnais a Monaco, due   si vedono nella sala di Alessandro di villa Torlonia sulla Nomentana a Roma e nell’appartamento delle Feste del palazzo Reale di Napoli, infine anche solo alcune scene vennero riprodotte singolarmente, come quella di Alessandro sul Carro nel palazzo dei Torlonia in Borgo. Una replica in formato ridotto ed in terracotta faceva bella mostra di sé nella casa di Luigi Bienaimè, collaboratore del maestro tra il terzo e quarto decennio dell’Ottocento, a Marina di Carrara.[17] Purtroppo è difficile collegare con certezza i gessi dell’inventario con quel che è rimasto a Copenaghen. Nel documento infatti oltre questi tredici rilievi piccoli in gesso nominati al n. 26, ce ne sono altri registrati ai nn. 192 e 193 di via delle Colonnette 38, di cui: «n. 192 Trentacinque bassirilievi del Trionfo di Alessandro trovati in marmo; 193) Sedici dello stesso bassorilievo piccoli in gesso». Gli unici gessi di piccole dimensioni attualmente presenti nel Museo danese sono l’A511 con l’episodio della Madre con il bambino ed il gregge di pecore e l’A712 con Alessandro sul carro, ma è impossibile porli in relazione con quelli dell’inventario.

Il rilievo con Amore Giove e Giunone raffigurava l’episodio di Amore che chiede al padre degli dei e alla sua consorte di dichiarare la rosa regina dei fiori. Nell’inventario al n. 27 sono menzionate due copie con questo soggetto senza la precisazione delle misure. A Copenaghen si trova l’originale in gesso A394, che servì per il marmo commissionato da Alessandro Torlonia per il suo palazzo, ora demolito, in piazza Venezia, e attualmente montato nel cortile del palazzo Giraud Torlonia, ed un calco dipinto che, secondo la Skiøthaug, potrebbe riferirsi ad un bozzetto sconosciuto, forse la prima versione dell’A394.[18] Date le modeste dimensioni di entrambi si può supporre che siano gli stessi menzionati nell’inventario ottocentesco.

L’arredo della camera confinante con la precedente rivela una destinazione privata, con poltrone, di cui una antica, un letto, un divano, la toeletta. Era sicuramente la camera da letto dell’artista descritta dal Thiele con dovizia di dettagli che lasciano trapelare sia lo spirito vanitoso dell’artista, il quale con orgoglio mostrava agli amici le onorificenze ricevute durante la carriera, sia l’impietoso disordine, riflesso dell’instabilità mentale del proprietario, che era solito accatastare i panni su una poltrona, ma contemporaneamente teneva in fila le scarpe. Così Thiele:

Sulla sinistra, una porta corrispondente conduce dal salone alla camera da letto del nostro artista. Una bassa brandina, una sedia su cui c’è una parte del guardaroba, e una fila di scarpe, ce lo rivelano. Sulle pareti troviamo tra i più eccellenti dei suoi pezzi da collezione, bei disegni di Koch e altri fatti da lui stesso sulla base di quelli di Casterns; al di sopra del letto, un piccolo disegno di Raffaello. In mezzo alla stanza Thorvaldsen ha posto in seguito una scrivania in cui si conserva la sua collezione di pietre incise, incastonate in oro, una raccolta di grande valore e perfetta bellezza. Successivamente ha aggiunto a questi tesori le più eccellenti sue monete, terracotte e bronzi. Presso la finestra ci sono alcune casse con calchi, a migliaia, di gemme lavorate, e nell’angolo un armadio di monete greche e romane; tutti oggetti dei suoi quotidiani studi. In un cassetto, che con una certa innocente fierezza gli piace mostrare ai visitatori, ha una raccolta di ordini cavallereschi, tabacchiere d’oro, anelli, diplomi e simili – omaggi del grande mondo all’altare del suo genio immortale.[19]

Rispetto al quadretto simpatico restituito dal biografo, nell’inventario mancano i disegni di autori importanti appesi sulle pareti, che nel 1844 saranno inventariati a parte e tutti insieme: i redattori del documento al termine della prima giornata di lavoro dichiararono che: «Le carte disegni e fascicoli superiormente descritti sono stati posti entro la credenza ad uso di armario».

Per entrare nella stanza successiva gli addetti ai lavori dovettero lacerare le biffe sulla porta che, come sembra dedursi, metteva in comunicazione con le sale più importanti.
L’ambiente preso in esame doveva essere il più ampio, tanto che lo stesso Thiele lo definiva salone. Qui si trovavano, oltre a sei sedie uguali alle due che stavano nella camera da letto, ben dieci casse già chiuse contenenti varie opere, lasciate «in deposito o pegno convenzionale» dal cavalier Broenfteth, da leggersi come Bernstorff, conte, statista e ministro degli esteri danese,[20] al quale Bertel doveva il viaggio verso Roma sulla nave da guerra Thetis.[21] Per omaggiarlo lo scultore gli aveva dedicato tre busti-ritratto, eseguiti nel 1795, nel 1797 e nel 1804.[22] Dietro il gesto dell’artista si nascondeva ovviamente la premura che tutto fosse eseguito secondo i suoi desideri, e che dunque l’immensa raccolta raggiungesse la sua patria.
In questo vano comparivano quattro bassorilievi realizzati nel 1818 per il fregio La vita di Cristo in terra, (n. 38) commissionato, per il tramite di Leo von Klenze, dal principe ereditario Ludovico di Baviera per la Apostelkirche di Monaco.[23] Il progetto non fu portato a termine, ma un disegno di mano di Thorvaldsen, C878,   ne attesta l’ideazione completa. I modelli originali in gesso, ora nel museo di Copenaghen, rappresentanti gli episodi dell’Annunciazione (A569), dell’Adorazione dei Pastori (A570),   del Battesimo di Cristo, (A573), della Fuga in Egitto (A571) della Disputa nel tempio (A 572) e dell’Entrata di Cristo in Gerusalemme, recano iscrizioni che ne dichiarano la realizzazione a Roma nel 1842, e dunque potrebbero essere gli stessi citati nell’inventario del 1844, che tuttavia nomina quattro rilievi insieme. Anche i nn. 47 e 161, quest’ultimo nello studio grande di piazza Barberini,   genericamente descritti come «Vita Umana», ed il bozzetto definito tale con l’Entrata di Cristo in Gerusalemme n. 52 corrispondente oggi all’A574 sono afferenti al medesimo ciclo. Va evidenziato come tra i ricordi tramandati dalla baronessa Stampe ci fosse quello relativo al fatto che Bertel avesse realizzato un calco di questi rilievi per ciascun amico con cui aveva trascorso la vigilia del Natale a partire dall’anno 1841, come documenta un curioso disegno di Constantin Hansen, nello stesso museo Thorvaldsen, che raffigura i ritratti di tutte le persone invitate ai festeggiamenti del 24 dicembre di quell’anno (Fig. 12).[24] Questo giustifica la presenza di così tante repliche.

fig.12

Il 20 aprile del 1840, per il compleanno della medesima baronessa, sua amica e mecenate, Thorvaldsen aveva eseguito il modello originale del rilievo con Diana e Giove (n. 39, A345), di cui esiste una replica in gesso colorato di marrone nella collezione di Nysø (cm 73 x 81. Inventario Nysø50).[25] Accanto a questi lavori tardivi vi erano anche produzioni giovanili.
Il medaglione con Minerva e Prometeo (n. 40) risaliva al 1807 ed era preparatorio per la decorazione della facciata del palazzo di Christiansborg a Copenhagen, commissionata al Thorvaldsen dall’architetto Hansen su sollecitazione della baronessa Charlotte Schimmelmann, committente della prima opera dello scultore per la Danimarca, il Fonte Battesimale per la chiesa di Fünen.   L’incarico giunse nel 1806, i medaglioni dovevano essere sovrapposti ad altrettante statue allegoriche raffiguranti la Giustizia, la Verità, la Saggezza e la Forza, eseguite più tardi. Il maestro si consultò con l’amico archeologo Zoega e, tra il 1807 ed il 1810, rese quei concetti ricorrendo a coppie mitologiche. Nel museo Thorvaldsen esistono due versioni del gruppo con Minerva, considerata l’allegoria della Saggezza, uno in gesso del maestro (A319), e l’altro in marmo di Johann Scholl del 1840, chiaramente ispirato al prototipo appena menzionato (A323). Thiele   nel 1824 ricordava di aver visto questi medaglioni nel primo settore dello studio grande di piazza Barberini, dove erano rimasti ancora nel 1844 segnati al n. 130.[26] La fortunata serie di medaglioni fu replicata numerose volte per il significato politico sotteso alla celebrazione delle virtù necessarie per il buon governo, ad esempio per Eugenio di Beauharnais, duca di Leuchtemberg, per il palazzo di Monaco, successivamente acquistata dal collezionista tedesco Franz Erwein von Schönborn, poi dispersa, o quella appartenuta ad Edoardo de Pecis, finita alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano.[27] I contemporanei apprezzarono l’abilità di Thorvaldsen nel saper combinare fonti figurative archeologiche, come l’Ara con l’Apoteosi di Ercole di Villa Albani, menzionata anche da Zoega ne Li bassorilievi antichi di Roma, e modelli contemporanei come i rilievi di Pacetti per Villa Borghese o l’immancabile citazione da Canova, in questo caso dall’Ebe, ma soprattutto dalla Minerva che infonde l’anima all’automa modellato da Prometeo che Camillo Pacetti aveva portato nel 1805 a Milano come saggio di scultura ideale esemplata sulla Pallade di Velletri, divenuta emblema della politica illuminata di Napoleone. Un’altra chiave di lettura importante ipotizzata da Grandesso riguardo il soggetto trattato riguarda il primato della scultura sulle altre arti, non solo a livello di tecnica, ma soprattutto di operazione intellettuale, in quanto Prometeo modella l’uomo, sotto la protezione di Minerva, dea della Saggezza.
Il medaglione con Ercole, citato insieme a quello con Minerva, va relazionato invece alla coppia Ercole che riceve da Ebe la bevanda dell’immortalità   allegoria della Forza , (A317) da cui Johann Scholl trasse il marmo (A321). Allo stesso ciclo appartiene il rilievo citato al n. 205 dell’inventario antico, nello studio di via delle Colonnette, dove il compilatore confuse Esculapio con Amore nel descrivere Igea che nutre il serpente del dio della Medicina Esculapio, inteso come Allegoria della Salute, di cui il Museo Thorvaldsen possiede il modello originale A318.[28]
Oltre che nel salone, molti sono i rilievi che hanno per soggetto la Vittoria ricordati nell’inventario del 1844 (n. 41, un medaglione; n. 53 tre bozzetti, n. 133 un bassorilievo; n. 152 altro bassorilievo).
Al Museo Thorvaldsen sono conservati due esemplari uno in marmo (A359) l’altro in gesso (A360)[29] in cui la Vittoria, intenta a scrivere su uno scudo,   appare all’interno di una sorta di medaglione circoscritto entro un rettangolo. Non si esclude pertanto l’eventualità che i redattori del documento antico possano aver commesso un’imprecisione, traditi dalla forma ovale in cui la personificazione è contenuta.
Complicato invece collegare ad opere concrete le citazioni di quattro bassorilievi con angeli, di cui due destinati alle porte di un cimitero (nn. 42,43), così come troppo generiche si rivelano le descrizioni dei bassorilievi con Amore dei nn. 44 e 45.
Il poeta Angelo Maria Ricci inviò una lettera al Thorvaldsen il 23 giugno del 1831, nella quale riportava un suo componimento poetico di sei versi, ognuno dei quali era dedicato ad un’Impresa d’Amore. Il primo verso iniziava proprio con «Giove detta le leggi, Amore le scrive», tradotto più sinteticamente dai redattori del documento come «Giove che detta legge ad Amore», del n. 48, corrispondente oggi ad A392.[30] Alla stessa lirica va collegato il n. 49 con Amore che naviga in mare, di cui esistono due versioni la A400 e la A401, nelle quali la posizione di Amore è completamente diversa.[31] Impossibile sapere quale delle due fosse ancora in casa dell’artista.
Il rilievo rappresentante l’Invenzione della stampa, (n. 50, A118) era stato modellato nel 1833 e serviva per la   decorazione del basamento del monumento a Johan Gutemberg, cui è da riferirsi il n. 242 dell’inventario antico, per la città di Mainz. In realtà i modelli ed il monumento furono eseguiti nel 1837 da Herman Wilelm Bisen, su disegno di Thorvaldsen.[32] Il medaglione con l’Angelo con la tromba,[33] da interpretarsi come l’angelo del Giudizio Universale (n. 51) è da mettere in connessione con L’Entrata in Gerusalemme (n. 52, A574),[34] risalente al 1839-40, come già accennato in precedenza, parte della serie con le storie della Vita di Cristo. L’unico medaglione con l’Angelo del Giudizio che corrisponde a quello oggi a Copenaghen è inventariato A593 e fu eseguito a Roma nel 1842 (Fig. 13).
Tra i dodici bozzetti considerati originali dai compilatori dell’inventario, quasi tutti databili alla metà degli anni Trenta dell’Ottocento spicca, come una perla preziosa, quello con Venere e Amore, una delle prime sperimentazioni del danese a Roma, realizzata intorno al 1800, riguardante la scultura d’invenzione ispirata alle tematiche suggeritegli dal suo primo maestro Abildgaard (oggi A13, fig. 14)[35].

Importante la registrazione nell’inventario   del bozzetto della statua di Friedrich Schiller, di cui in tal modo è certificata l’esistenza di due versioni originali, una posseduta dal marchese Ignazio Vigoni, e donata nel 1980 all’ambasciata di Danimarca e ora al Museo Thorvaldsen, e l’altra ancora nell’alloggio dell’artista oggi A138 del 1835 (Fig. 15).[36]
In una missiva al principe Christian Frederik datata 4 febbraio del 1827 Bertel affermava la volontà di voler realizzare in bronzo un monumento alla Vittoria su un carro trainato da cavalli (A48). Dopo la morte del maestro, Wilhelm Bissen eseguì la fusione dall’esemplare nello studio, forse uno dei tre qui ricordati, in quanto di misure simili a tutti gli altri bozzetti menzionati al n. 53, posto a ornamento dell’ingresso principale del Museo Thorvaldsen.[37] La commissione per il Massimiliano a cavallo era arrivata da Monaco, dove il “Fidia nordico” si trovava per l’inaugurazione del monumento del Beauharnais, da parte di Ludovico I, che intendeva in tal modo celebrare uno dei più prestigiosi antenati della sua dinastia. Thorvaldsen si ispirò all’imprescindibile prototipo classico del Marc’Aurelio, cui adattò la vera fisionomia dell’imperatore, desunta dal ritratto di Nicolaus Prucker, e riprodusse l’uniforme indossata da Massimiliano, conservata nell’armeria della città tedesca, fornitagli dal litografo Peter Lutz.[38] Il modello fu approntato tra il 1833 ed il 1835, le forme in gesso vennero inviate a Monaco, dove fu realizzata la fusione in bronzo ad opera di Johann Baptist Stiglmaier. Dei tre gessi conservati nel Museo Thorvaldsen l’unico che per le dimensioni poteva essere ospitato nel salone della casa di via Sistina è l’A127 (Fig. 16).

Viceversa il bozzetto del monumento a Lord Byron è individuabile in quello oggi corrispondente all’A133.
Le pareti del salone erano abbellite da numerosi dipinti, alcuni dei quali riconoscibili in quelli poi finiti nel Museo Thorvaldsen di Copenaghen. La baronessa Stampe ricordava quanto Thorvaldsen avesse a cuore i quadri e lo storico e diplomatico tedesco Alfred von Reumont affermava che la collezione del danese era la più completa a Roma per quanto riguardava l’arte moderna, e lo stesso proprietario ne era pienamente consapevole[39]. Anche Andersen in un articolo comparso sulla rivista Søndagsblad scrisse:

Ha adornato le sue stanze di una ricca collezione di opere di maestri contemporanei, che cresce ogni giorno di più, dato che da quasi tutti i giovani artisti egli compra qualche dipinto. “Quando morirò” mi disse “la Danimarca erediterà tutte queste tele”.[40]

Alcuni pittori presenti nella raccolta, come Koch, in contatto con i Nazareni, Wallis,[41] Reinhart, Schick furono   amici e, in alcune occasioni, collaboratori di Thorvaldsen, che coabitò con Koch, insieme al quale realizzò dei disegni ispirati alle cantiche della Divina Commedia.
Pare che nel 1838, quando Thorvaldsen ripartì per Copenaghen, in casa Buti fossero conservati ben duecentocinquanta dipinti.[42]
L’elenco inizia con L’Accoglienza di Thorvaldsen presso la Custom House il 17 settembre del 1838 oggi B453, di Fritz Westphal – il cui nome è storpiato in Wethaws nell’inventario – eseguito tra il 1839 ed il 1840 circa, in cui va individuato il «quadro di genere» segnato al n. 54, documento tangibile della fama riscossa dal danese accolto con i più solenni onori.
Segue Un giovane greco affila il pugnale sulla roccia (n. 55) del 1829, di Leopold Robert, oggi inventariato B93, tipica immagine romantica di esaltazione dell’orgoglio nazionale, nel periodo dei moti carbonari che portarono la Grecia all’indipendenza dall’impero ottomano.
In uno dei due dipinti citati come i Suonatori di violino (n. 56) e definiti in modo errato copie da Raffaello è invece da identificarsi una potente copia da Sebastiano del Piombo di Carl Eggers, capace di far emergere il volto del ragazzo di tre quarti dall’ombra, indagandone sottilmente il carattere ed evidenziando i sottili peli della pelliccia che indossa (B37, Fig. 17).

fig.17

Il «Sagristano di Noè» di Koch, (n. 59) è certamente l’olio su tavola intitolato Paesaggio con Noè che fa un’offerta di ringraziamento per lo scampato diluvio oggi B129, datato 1815. In primo piano la famiglia di Noè si appresta ad uccidere il capretto, mentre sullo sfondo di un tranquillo paesaggio costituito da montagne ed un sereno specchio d’acqua, gli animali, prima stipati nell’arca, scorrazzano incredibilmente insieme, prede e predatori.
La ciavara di Olevano potrebbe invece rappresentare il ritratto di Johann Heinrich Richter di Fortunata Segatori, famosa modella di Subiaco, cittadina evidentemente confusa con Olevano, madre del pittore paesaggista Enrico Colemann. La posizione della donna e il suo abbigliamento rinviano a numerosi ritratti femminili di Raffaello, concepito come punto di riferimento imprescindibile per i pittori dell’epoca.
Invece il «Carnevale» di August Krafft (detto Krof nel documento, n. 61) del 1828 si rintraccia al n. B242 dell’inventario del Museo, appartiene a quel filone “folkloristico”, dal quale gli stranieri erano così fortemente affascinati.
Johann Christian Reinhart risulta autore di diversi quadri con paesaggi italiani, eseguiti tra il 1823 ed il 1825, mentre la veduta di S. Pietro n. 62 di Heinrich Reinhold si riconosce facilmente nel quadro intitolato S. Pietro da villa Doria Pamphili (B147).
Le due scene di genere di Ernst Meyer, che proprio a Roma si divertì a ritrarre episodi di vita popolare descritti con sapiente ironia,   sono i due pendant n. 66,   in cui compare una ragazza che si fa leggere, sullo sfondo della chiesa di S. Angelo in Pescheria (B266, Fig. 18), e nell’altro che si fa scrivere una lettera, probabilmente d’amore (B267, Fig. 19), davanti l’Arco dei Pantani, risalenti rispettivamente al 1827 e 1828.

Da notare il particolare del nome di battesimo dell’autore nelle prime tre parole che compaiono sulla lettera che la ragazza analfabeta detta allo scrivano: un modo divertente di firmarsi. Il Museo Thorvaldsen possiede in tutto otto dipinti del Meyer, che rimase in Italia dal 1824 fino alla fine dei suoi giorni, ma gli altri sei sono ambientati a Napoli: uno di questi forse era ancora nello studio di Bertel, visto che l’inventario sembra far intendere che un altro suo quadro era appeso con gli altri, il n. 66.
Vernet dipinse nel 1833 il Ritratto di Thorvaldsen mentre scolpisce il busto di Vernet. All’epoca il pittore rivestiva l’incarico di direttore dell’Accademia di Francia e omaggiò l’amico ritraendolo con il tipico “palandrano” da scultore e ponendone l’abile mano in primissimo piano. Questo particolare non è di secondaria importanza, considerata la venerazione diffusasi all’epoca rispetto alla mano destra di Canova, che per volontà del Cignognara, fu staccata dalla salma e conservata a parte, come una reliquia, all’Accademia di Venezia. Ma la vanità del pittore, che voleva anche celebrare se stesso,   è scopertamente manifestata dalla presenza del proprio mezzo busto, che il danese a sua volta gli dedicò e che si trovava ancora nell’atelier di via delle Colonnette, registrato al n. 246, in una cassa in partenza da Roma.[43] L’inventario del 1844 ricorda due quadri con l’effigie di Thorvaldsen mentre scolpisce il busto del francese, un originale n. 68, ancora a Copenaghen (B95), e una copia, n. 69, dipinta su avorio, tuttora esistente realizzata dal pittore Galster (B439).
Tra quelli genericamente definiti «ritratti di familiari» vanno sicuramente riconosciuti Elisa Paulsen,[44] di Ferdinand Flor (n. 70? oggi B115) e il ritratto dell’intera Famiglia del colonnello Paulsen di Albert Küchler del 1838, inventariato B245 (Fig. 10), dove sullo sfondo di una stanza elegantemente arredata si vede una cassettiera con sopra il busto del Thorvaldsen stesso, quasi concepito come nume tutelare.[45]
Joseph Karl Stieler è l’autore del Ritratto di Ludwig I re di Baviera, come principe ereditario, n. 71, del 1822 (inv. B163), dove il volto del re, naturale e con i capelli scomposti, contrasta con la solennità delle spille appuntate orgogliosamente sul giubbino. Pare che questo quadro fosse stato un regalo per Thorvaldsen.[46]
Nel documento antico si rintraccia facilmente la Madonna in preghiera di Sassoferrato (n. 72, oggi B16), che era stata donata allo scultore da Pio VII, recatosi, secondo la testimonianza della poetessa Louise Seindler, in visita alla Casa Buti.[47] La Maddalena n. 73, corrisponde al dipinto inventariato B23 rimasto nell’anonimato, ma derivato da una copia di un dipinto di Annibale Carracci nella Galleria Doria Pamphilj di Roma (Inv. n. 203). Nel «disegno antico» n. 74 si potrebbe individuare il magnifico e dinamico elaborato del Guercino, eseguito nel 1621 circa come studio preparatorio per la celeberrima pala con Il ritrovamento del corpo di santa Petronilla, destinato alla basilica di San Pietro, ma oggi conservato nella Pinacoteca Capitolina di Roma.
Più difficile riconoscere i quadri che hanno genericamente come protagonista Roma, città evidentemente molto amata dal danese, e i suoi dintorni, visto il numero considerevole di tele che hanno per   soggetto strade, piazze, la campagna romana con i suoi abitanti proposti nei tipici abiti tradizionali. Tra essi sicuramente La Famiglia sul lago di Nemi di Küchler, B244 amico dell’artista, dove sullo sfondo del placido laghetto vulcanico si vedono due bellissime donne in costume tipico, una intenta a filare la lana e l’altra ad accudire il figlio neonato, la cui culla, una cesta di vimini accuratamente preparata per accoglierlo, è posta in primo piano a sinistra di un melograno, che pare casualmente caduto in terra dalla pianta, ma che allude al significato allegorico della fertilità. Da notare anche il vaso sulla destra, poggiato su un capitello antico, topos dei pittori dell’epoca, soprattutto stranieri, piacevolmente attratti dalla convivenza tra l’antico e il moderno.
Dunque Thorvaldsen amava particolarmente i paesaggi, le scene popolari, i ritratti, generi in voga nell’Ottocento, dimostrando anche interesse per i così detti antichi. Stride con la poetica dello scultore, che subì soprattutto il fascino dell’arte greca, la spiccata attenzione per un pittore come Guercino, sicuramente il meno “classico” tra i bolognesi, del quale il maestro possedeva non solo il disegno già citato, ma anche un dipinto con una Giovane donna che legge (B20) e una serie di incisioni tratte da sue opere eseguite da Giovan Battista Leonetti, Pietro Fontana, Pietro Antonio Leone Bettetelini,   Pietro Marchetti e Raffaele Morghen. Forse Thorvaldsen apprezzava la facilità narrativa del pittore di Cento, ma anche il disegno accurato e i panneggi dei ridondanti vestiti, che potevano ispirarlo per i suoi bassorilievi.
Ancora nel salone, all’interno di scatole, erano conservati numerosi   modelli in cera e bassorilievi in zolfo di busti da lui stesso scolpiti, nonché libri d’arte, uno sui musei fiorentini del 1840, stampe, miniature, medaglie commemorative e persino una tavola in mosaico minuto antico (n. 86). Spicca la presenza di un piedistallo di nero e porta santa, sorreggente una tazza di giallo antico a denunciare la passione per i marmi preziosi e colorati, diversi da quello bianco utilizzato per tutta la vita, secondo il gusto neoclassico.
In un mobile i compilatori dell’atto riunirono tutti i disegni e i documenti sparsi ovunque, che furono descritti al termine dell’inventario.
Dal 1824, secondo quanto riferiva Thiele, l’arredamento del salone non doveva essere mutato così tanto. Il biografo infatti affermava:

… si accede al salone, le cui pareti sono tappezzate di quadri. Tra le due finestre è appeso uno specchio, sotto al quale un ripiano di marmo sorregge un vecchio orologio da tavolo francese, adorno di dei e dee. Presso una delle pareti laterali c’è il divano, al di sopra del quale si può notare il ritratto dell’altro mecenate di Thorvaldsen, Sua Maestà re Ludovico di Baviera, dipinto da Stieler, un regalo di Sua Maestà in persona. Sulla parete di fronte c’è uno stipo in cui l’artista, oltre alle carte più importanti, conserva frammenti di bronzi antichi tra i più squisiti. Accanto a detti mobili, come pure accanto al camino della parete centrale, sono posti antichi busti marmorei di filosofi greci.[48]

Mancano   i bronzetti, i busti dei filosofi greci e il ritratto di Ludovico di Baviera che evidentemente avevano già raggiunto la Danimarca.
L’inventario del 1844 restituisce sicuramente una fotografia più dettagliata del salone rispetto alla testimonianza del primo biografo dell’artista: Thorvaldsen sembra qui rivelare un’attenzione espositiva di sapore museale, a meno che tale intenzione non debba riferirsi ai compilatori del documento, che tentarono di riunire l’immenso patrimonio dell’artista in base ad alcuni criteri prefissati. Va infatti sottolineato come i bassorilievi a forma di medaglione fossero ricordati insieme e accanto a quelli di forma rettangolare, così come i bozzetti, tutti quasi delle stesse misure, tra i quali quasi commuove la presenza di Venere e Amore, il più antico, che il maestro serbava accuratamente, come a ricordare la sua carriera e godere del successo raggiunto.
I dipinti sembrano classificati in base ai generi, i paesaggi, le scene di costume, i ritratti di se stesso e dei familiari, i cosiddetti primitivi. Inoltre nessun contemporaneo aveva mai descritto nel particolare la collezione dei quadri dell’artista, e l’inventario del 1844 si rivela quanto mai prezioso a riguardo.
Il divano, lo specchio, il tavolino di portovenere con l’orologio che Thiele aveva visto nel salone erano stati invece trasferiti nella camera confinante con affaccio su via Sistina. Qui si trovavano due gessi con Ebe e Ganimede, n. 101,[49] anche se il Museo ne conserva soltanto uno l’A351, risalente al 1833,[50] una statua di marmo di un Putto sopra una base di portovenere n. 102, e il busto n. 103 di un non meglio precisato poeta conterraneo e di quattro figure non identificate, e un bassorilievo n. 104.
Il perimetro della sala seguente era rivestito da scansie contenenti diversi frammenti di gesso, tra i quali parti del gruppo delle Grazie. Addirittura lungo la scala che conduceva alla cucina erano stati disposti alla meglio altri calchi, nonché casse con vetri e quadri.

Thiele descrisse così questo locale:

Una stanza, al medesimo piano, separata dalle anzidette soltanto da una scala è talmente piena di calchi in gesso e frammenti antichi che c’è giusto lo spazio per entrare. Qui tutte le pareti sono ricoperte di armadi e scaffali, nei quali è esposta una quantità di frammenti di marmo più piccoli e terrecotte. Il numero di tali oggetti che il nostro artista possiede, aumenta ogni settimana, o quando ritorna a casa dopo la visita dall’antiquario, in tal caso recando egli stesso una nuova aggiunta, oppure quando l’antiquario – come accade sovente la domenica mattina – viene a trovarlo per mostrargli una nuova scoperta e offrirla a lui prima che ad altri.

Da questa abitazione Thorvaldsen si recava ogni giorno agli studi di Piazza Barberni, e sulla scia di quanto raccontato con arguzia dal suo biografo non viene difficile immaginarlo mentre camminava lentamente e soprapensiero plasmando tra le mani un «tocchetto d’argilla».[51] Secondo la testimonianza di Rudolph Bay, risalente al 27 maggio del 1819, di solito l’artista modellava in casa i bozzetti delle sue opere, utilizzando la creta.[52] La traduzione in gesso invece veniva realizzata negli ateliers, di cui si tratterà nei prossimi paragrafi.

Note

[1] Una descrizione sommaria dell’appartamento è fornita anche dall’amica pittrice Louise Seidler in Jørnaes 1957, 129.

[2] Thiele in Di Majo et al. 1989, 330. Il biografo parlava anche di: «Una porta sulla sinistra del salone dà adito a una camera, abitata in precedenza da molti compatrioti di Thorwaldsen, e da ultimo, per una decina d’anni, dal più devoto dei suoi amici, lo scultore Herman Freund».

[3] Thiele in Di Majo et al. 1989 330.

[4] Winther 1938, 37-42.

[5] Grandesso 2010, 131; Skiøthaug 2010, 274, numero 136; 275, numero 172.

[6] Un altro Ganimede con l’aquila si trovava nello studio di via Colonnette 38, registrato nell’inventario al numero 255, che potrebbe anche identificarsi nella terracotta corrispondente al numero A733 dell’inventario del Museo di Copenaghen, e ricordato persino da Thiele, e ancora al numero 101 è citato un gesso di Ganimede.

[7] Si conosce un gesso con l’autoritratto di Thorvaldsen inventariato A223 del Museo Copenaghen, risalente al 1810.

[8] Meleo 2005, 105-114. Da ricordare che l’editore fu pagato dal maestro danese con alcune repliche delle sue opere, scrupolosamente registrate nell’inventario dei beni dell’Acquistapace. Cfr. anche Marini Clarelli 1989, 308-312.

[9] Thiele in Di Majo et al. 1989, 330.

[10] Ibid., 330: «A sinistra una porta si apre su una cameretta le cui pareti sono ornate di fogli della collezione Boiseerée, che egli via via incornicia. Su un tavolino d’abete sono ammucchiati diversi suoi schizzi, e in un angolo una vecchia cassa di carte buttate lì, dalle quali di tanto in tanto ripesca disegni e abbozzi a suo tempo abbandonati e che occasionalmente riemergono dalla polvere dell’umiltà per assurgere a imperitura gloria. In questa camera egli si rifugia durante le tacite visite di muse e grazie, e alle prime ore del mattino evoca dei ed eroi da una tinozza di argilla umida posta in un altro angolo».

[11] Sembra che il ladro fosse la stessa persona a cui Thorvaldsen aveva chiesto di riordinare i suoi libri. Cfr. Jørnaes 1957, 183-184.

[12] Grandesso 2010, 307.

[13] Hartmann 1957, 576. Così raccontava Andersen in La Fiaba della mia vita nel 1861: «Io e il mio giovane compagno (si tratta dello zoologo e mecenate del letterato Jonas Collin) fummo alloggiati in un paio di camere nell’antico caffè Greco, ove abitava l’amico Bravo, console di Danimarca, Svezia e Norvegia».

[14] Un documento, conservato nell’archivio del Museo Thorvaldsen di Copenaghen (gmII, nr. 50), consultabile dal sito web, riporta le spese di 13,75 scudi per la realizzazione di questo gesso.

[15] Grandesso 2010, 155-157; Skiøthaug 2010, 276, numeri 176 e 188; p. 290, numero 641.

[16] Randolfi 2010, 79-82.

[17] Sul fregio e sulla sua fortuna si veda: Grandesso 2010, 106-120; Skiøthaug 2010, 272, numero 115. Si ricordano anche le repliche del laboratorio Lazzerini. Cfr. Passeggia 2004, 181-194.

[18] Skiøthaug 2010, 283, numero 405.

[19] Thiele in Di Majo et al. 1989, 330.

[20] Il conte fu reintegrato nella vita politica da Federico VI, che con un colpo di stato si rimise al potere nominando Bernstorff ministro degli Esteri. Cfr. Moressa 2014, 18.

[21] Jørnaes 1957, 31.

[22] Skiøthaug 2010, 269, numeri 29 e 41; 270, numero 66. Nei primi due il ministro veniva abbigliato in costume contemporaneo, mentre nell’ultimo la nudità lo faceva assurgere agli esempi moraleggianti degli antichi romani.

[23] Ibid., 290, numeri 635, 636, 637, 638.

[24] Ibid., 290, numero 635c.

[25] Ibid., 289, numero 601. Interessante notare come sulla base di appoggio del trono di Zeus vi siano rappresentati alcuni segni zodiacali, a partire da sinistra lo scorpione, i gemelli, il toro, l’ariete ed i pesci.

[26] Thiele in Di Majo et al. 1989, 331. Nel dipinto di Martens, sulla parete di fondo si vedono quattro medaglioni, che potrebbero riferirsi a quelli descritti dal biografo. Skiøthaug 2010, 271, numero 86.4. Sul tema del rilievo con Prometeo e Minerva si veda anche Tassinari 1996, 147-176.

[27] Grandesso 2010, 91-95.

[28] Skiøthaug 2010,   271, numero 87. Si verificò una certa confusione tra i termini danesi di Salute e Verità, quest’ultima allegoria infatti era quella che avrebbe dovuto essere rappresentata come pertinente al programma di esaltazione del potere regale, ma nonostante la comprensione del malinteso, Thorvaldsen fu irremovibile. Cfr. Jørnaes 1957, 64-66.

[29] Skiøthaug 2010, 282, numero 388. Il modello fu reimpiegato per la base del busto di Napoleone (A909).

[30] Ibid., 283, numero 404. Oggi il marmo si trova al Thorvaldsen Museum.

[31] Ibid., 283, numeri 409, 410. Il marmo del primo modello, già appartenuto a Franz Catel, si trova oggi al Pio Istituto Catel di Roma.

[32] Ibid., 284, numeri 448, 449, 450, 285, numero 453.

[33]Ibid.,   290, numeri 643, 644, 645.

[34] Grandesso 2010, 193, Skiøthaug, 2010,   288, numero 580.

[35] Grandesso 2010, 18; Skiøthaug, 2010, 269, numero 50.

[36] Skiøthaug 2010,   285, numero 463

[37] Ibid., 282, numero 356.

[38] Grandesso, 2010, 259-260.

[39] Sulla collezione di dipinti si veda: Helsted 1989, 240-243; Jørnaes, 1993, 28-36.

[40] Andersen, tradotto in Di Majo et al. 1989, 563. Il letterato nel 1842 ripete lo stesso concetto, affermando come le pareti della casa del compatriota fossero adorne di molti quadri.

[41] Thorvaldsen inoltre elaborò modelli per le figure dei paesaggi di Wallis. Sui rapporti con questi artisti si veda: Jørnaes 1993, 27-28.

[42] Jørnaes 1957, 207-209.

[43] Skiøthaug 2010, 284, numero 427. Secondo la baronessa Stampe Vernet avrebbe dichiarato con Camuccini di non aver mai visto una mano più bella di quella di Thorvaldsen. Cfr. Hartman 1965b, 10, nota 102.

[44] Thorvaldsen aveva avuto due figli dalla relazione con Anna Maria Magnani, cameriera della moglie di Georg Zoega: Carlo Alberto, nato nel 1806 e morto nel 1811 ed Elisa, nata nel 1813 e sopravvissuta al padre. Cfr. Jørnaes 1957, 42-43; Jørnaes 1989, 27. In particolare su Elisa si rinvia a Crielesi 2009, 77-83.

[45] Interessante ricordare che di questo ritratto di famiglia, che il colonnello Fritz Paulsen donò poi al suocero Bertel, esiste una replica, ancora oggi presso i discendenti dello scultore, i Paulsen Diliberto a Palermo. Cfr. G. Hartmann 2011, 353-367, in partic. 360.

[46] Jørnaes 1957, 208.

[47] Ibid., 169.

 

[48] Thiele in Di Majo et al. 1989, p. 330.

[49] Jørnaes   1957,   93.

[50] Skiøthaug 2010, 284, numero 435.

[51] Gli altri due vani non descritti nell’inventario, si trovavano tra il primo locale esaminato ed il salone. Secondo Thiele uno era una cameretta dove si trovava una cassa piena di schizzi, a cui di tanto in tanto Bertel si ispirava, l’altra «Conserva schizzi e modelli, e su queste pareti si può vedere un gran numero di disegni da lui stessi fatti eseguire con grandi spese e derivati dalle sue opere, molti dei quali negli ultimi anni si sono tramutati in stupende acqueforti per mano di eccellenti artisti». Thiele in Di Majo et al. 1989, 330.

[52] Jørnaes 1957, 121.