Arte e cultura in Italia. Il senso della “valorizzazione” nell’ultimo libro di Carlo Pavolini.

di Francesca SARACENO

Riflettere sul valore della cultura in un Paese come l’Italia non dovrebbe essere una “necessità” nazionale, e invece lo è, e anche tra le più urgenti.

Fig. 1 Copertina del libro di Carlo Pavolini Quale valorizzazione, Robinson Edizioni, 2023

Si è posto il problema, come un dovere di civiltà, Carlo Pavolini, archeologo per anni funzionario presso le Soprintendenze di Ostia e Roma, e docente all’Università della Tuscia, in questo volume intitolato Quale valorizzazione (Robin Edizioni 2023, fig. 1), ponendo già dalla copertina il focus della questione; il titolo, infatti, presupporrebbe forse un punto interrogativo la cui mancanza – invece – ha tutto il sapore amaro dello sconforto. E devo riconoscere che recensire un libro come questo, comporta un’estrema difficoltà – almeno per chi scrive – nel rimanere imparziale e oggettiva, analizzandolo esclusivamente come oggetto letterario, valutandone l’impianto narrativo e la fluidità espositiva. Diciamo che, nel caso specifico, il contenuto del volume si impone come priorità su ogni altro aspetto, dato per certo (e leggendo ho avuto modo di appurarlo) che perfino un ragazzino lo troverebbe ampiamente accessibile.

Detto questo, appare chiaro fin dalle prime pagine il substrato politico su cui si snoda l’approfondimento dell’autore, perché non si può ignorare che Arte e Cultura siano sempre stati oggetto di intervento istituzionale. Negli ultimi anni, soprattutto, le riforme varate dai governi che si sono succeduti, ne hanno determinato un riassetto normativo con un preciso e piuttosto chiaro impianto ideologico. E se c’è una cosa che va riconosciuta subito a Pavolini è una grande onestà intellettuale nel carattere “trasversale” della sua analisi delle attività politiche, benché la gestione Franceschini in particolare – oggettivamente la più lunga e continuativa – sia nel mirino dell’autore (che finisce di scrivere prima delle elezioni del 2022), il quale vi riscontra – e come dargli torto – l’affermarsi di una tendenza “mercantile” piuttosto marcata.

Ma al centro del libro è la definizione stessa della parola “valorizzazione” in riferimento ai beni culturali che, non solo l’amministrazione Franceschini ha privato del suo senso più profondo, ma mettendo “a sistema” l’ideologia della mercificazione, ha di fatto fornito un assist all’area politica di destra – oggi al governo – che ha sempre considerato il patrimonio artistico e culturale italiano come un mezzo da cui trarre profitto. Pavolini manifesta una flebile speranza che la direzione Schlein del PD possa mostrare quanto meno l’intenzione di invertire la tendenza, ma al momento l’orizzonte “progressista” appare avvolto dalla più fitta foschia.

La situazione attuale è dunque frutto di un orientamento preciso e consolidato negli anni passati, e tra le più evidenti criticità prodotte dalle riforme Franceschini, l’autore individua lo scorporo di alcuni grandi Musei dalle corrispondenti Soprintendenze territoriali, facendone degli organismi con “autonomia speciale”. Il che ha prodotto come conseguenza quella di staccare dalla gestione della tutela del territorio di appartenenza, opere capitali profondamente legate alla storia di quei luoghi, al collezionismo e ai lasciti delle grandi famiglie. Per non parlare delle inopportune separazioni di enti museali afferenti il medesimo territorio (l’autore fa l’esempio dei Poli museali di Pompei ed Ercolano), o al contrario, gli accorpamenti di realtà eterogenee e fondamentalmente incompatibili. La creazione di Poli museali ha comportato, tra l’altro, che realtà indipendenti come musei regionali o di enti locali, ma le stesse chiese (con i loro arredi e pertinenze, opere d’arte comprese) che non sono proprietà dello stato, venissero sottoposte alla gestione ministeriale integrata tra realtà statali e private, con tutto ciò che ne consegue in termini di burocrazia e assegnazione di competenze.

E se un aspetto positivo della riforma con le “autonomie speciali” si può riscontrare nel fatto che i proventi della bigliettazione non vengono versati allo Stato ma restano nella disponibilità dell’ente museale, per fini di ricerca, conservazione, ecc., questo però implica una virata in senso “manageriale” dell’intera amministrazione del museo, volta “naturalmente” a monetizzare quanto più possibile, anche attraverso pratiche di valorizzazione in realtà dequalificanti, come i prestiti immotivati o impropri, e la proliferazione di mostre senza alcuna o quasi valenza scientifica.

Tuttavia l’autore tiene a precisare che non ritiene questa deriva ideologica sia iniziata con le riforme Franceschini, al contrario: è l’ideologia alla base dell’orientamento al profitto che ha prodotto quelle riforme. Per tale motivo oggi il direttore di un museo assume la condizione di un “capitano d’azienda”, che spesso prevale sulla funzione primaria afferente lo sviluppo e la valorizzazione culturale e scientifica delle opere affidate alla sua gestione. In questo senso, una delle riforme legate alle realtà culturali con “autonomia speciale” riguarda proprio le nomine dei direttori, spesso oggetto di contestazione, non tanto per la giovane età o per la nazionalità estera (l’attuale governo ha mostrato di voler ridurre drasticamente il numero di direttori stranieri, in nome di una nazionalità italiana non necessariamente “utile” come prerequisito), quanto per le reali competenze dei nominati in riferimento alle specifiche necessità degli enti museali che sono chiamati a dirigere. E che le nomine non siano effettuate per concorso pubblico ma seguano un percorso di selezione solo in fase preliminare assegnato ad apposite commissioni (anch’esse oggetto di critica, per la composizione non esattamente “congrua” alla “mission”…)[1], per poi lasciare la determinazione della scelta direttamente al ministro (o al Direttore Generale dei musei, anch’esso nominato dal ministro), si configura come un controsenso nei termini della sbandierata autonomia, perché il direttore così nominato avrà sempre difficoltà a mantenere una certa indipendenza gestionale. Senza contare che, in prossimità della scadenza dell’incarico, pur di ottenere il rinnovo, il direttore sarà indotto ad attivarsi quanto più possibile per mostrare una sempre maggiore produttività ponendo in essere le pratiche “mercantili” di cui sopra.

Ed è proprio sulla deriva consumistica che la critica di Pavolini si fa più aspra, focalizzando il punto centrale nella definizione del termine valorizzazione che, senza una base ideologica precisa, si presta facilmente a essere strumentalizzato. Ed ecco che l’autore riflette sul “valore in sé” del bene culturale, che non è da intendersi privo di una utilità materiale perché invece, se ben gestito, il bene culturale può avere enormi ripercussioni positive nella sfera produttiva ed economica del paese; ma non può e non deve diventare “solo” questa la sua funzione. Peraltro l’espressione “valore in sé” contiene l’idea più strettamente artistico-estetica dei beni culturali, che afferisce alla sfera emozionale dell’individuo, tutt’altro che trascurabile, e che riguarda tutti quegli oggetti d’arte portatori di “bellezza” (e dunque di benessere), anche se quest’ultima è un concetto certamente soggettivo. “Valore in sé” vuol dire anche riconoscere al bene culturale la condizione precipua di essere esso stesso “documento storico”; monumento, oggetto, manufatto, edificio, dipinto, libro che sia, il bene culturale è espressione del tempo in cui è stato prodotto, lo racconta, ne rende testimonianza. La sua stessa esistenza è “storia” e per questo esso comporta implicitamente una funzione sociale, educativa, formativa, capace di incidere fattivamente sulla sfera intellettuale della comunità, e dunque sullo sviluppo complessivo della società.

In questo senso l’autore fa l’esempio del Colosseo (fig. 2), vero paradigma del “bene culturale” a 360 gradi, il quale per sua stessa natura assomma tutti questi concetti insieme: valore culturale, iconico, storico e, non ultimo, quello che è stato definito “valore edonico”, rappresentato dal fatto che un monumento così straordinario sia ogni giorno liberamente disponibile alla vista, per i romani e per i turisti di tutto il mondo.

Fig. 2 Anfiteatro Flavio (Colosseo), Roma. Foto: Wikimedia Commons, Di FeaturedPics – Opera propria, CC BY-SA 4.0

È chiaro che tutto questo non è e non può essere “secondario”, e supera di gran lunga il valore materiale economico del monumento, pur non volendo assolutamente negarlo o separarlo da esso. Riconoscere a un’opera come quella il valore immateriale che produce l’emozione della bellezza vuol dire mettere al primo posto di ogni azione politica o amministrativa, il benessere e la crescita intellettuale, etica e morale, di una società; qualcosa di infinitamente più alto e nobile di qualunque possibile profitto, e che non può essere assoggettato e surclassato da politiche commerciali votate esclusivamente al ritorno economico.

Sempre in riferimento al Colosseo, l’autore portava ad esempio la tendenza sempre più diffusa a fare di quella magnificente testimonianza storica, la “location” di eventi a volte proprio inopportuni: cene esclusive, spettacoli con grandi artisti, shooting fotografici, visite “vip”, spesso con ciò sottraendo tempo e opportunità alla normale fruizione turistica, nonché alle attività divulgative o di studio e ricerca per le quali troppo spesso gli operatori di settore vengono ignorati. Magari enfatizzando il carattere “prestigioso” (e, secondo quella logica, “valorizzante” per il monumento) di tali eventi pensati per pochi “eletti”, sottolineandone la natura episodica (e dunque potenzialmente “innocua” in ottica di conservazione); ma anche questo, sottolinea Pavolini, rappresenta in realtà un disvalore perché implica che la maggior parte del pubblico rimanga fuori da tali eventi, creando così una fruizione quasi “classista”, che non fa certo bene agli equilibri sociali. In ogni caso sul banco degli imputati non è l’evento esclusivo in sé, quanto invece l’idea di trasformare il nostro patrimonio artistico in una sorta di “scenografia”, uno “sfondo inerte” culturalmente dequalificato, potenzialmente posto a rischio, e discriminatorio dal punto di vista sociale.

A tal proposito, rimarcando la pratica dell’uso improprio dei beni culturali, l’autore ricorda le feste di matrimonio organizzate in luoghi come la Reggia di Caserta o i templi di Paestum (fig. 3)[2], proprio durante la gestione Franceschini, il quale all’epoca affermò di esserne rimasto “perplesso” ma di non essere intervenuto per non interferire con le decisioni di un suo funzionario;

Fig. 3 Festa di nozze nell’area archeologica di Paestum. Foto: Quotidiano.net

salvo che poi quest’ultimo, solo due anni dopo, si oppose ad altri eventi simili perché – improvvisamente – aveva scoperto che non rientravano nelle funzioni specifiche del sito (ovvero la promozione della conoscenza). Allo stesso modo non si può giustificare l’uso di luoghi d’arte o di storia per eventi effimeri come sfilate di moda o concerti, con il principio che l’evento sia un’occasione per farvi affluire visitatori; i quali saranno indotti a pagare un biglietto non per godersi le bellezze del posto o conoscerne la storia, ma per assistere all’evento, e ne usciranno probabilmente con la percezione del sito storico-artistico come spazio ludico, e non come luogo di cultura in cui magari tornare (pagando un altro biglietto) per arricchire le proprie conoscenze.

Peraltro, in ottica di preservazione dei beni culturali non si può ignorare che ogni evento, intervento, installazione anche provvisoria, flusso straordinario di ingressi, pur con tutte le cautele del caso, comporti comunque dei rischi oggettivi per l’integrità del sito interessato; l’autore ricorda, ad esempio, l’installazione della cometa in Piazza Brà a Verona franata sulle gradinate dell’Arena, durante le fasi di smontaggio nel gennaio dello scorso anno. O i rischi connessi alla costruzione, nel 2017, del mega palco per l’opera rock Divo Nerone (poi cancellata per scarsa affluenza di pubblico) montato sul colle Palatino che, pur nella sua provvisorietà, ha deturpato per giorni l’aspetto di quei luoghi, negandone il pieno godimento ai visitatori, e procurando ai ricercatori da tempo a lavoro in quell’area archeologica, l’impossibilità di procedere con i loro studi; attività, queste sì “valorizzanti”, rimarca Pavolini, e spesso finanziate con denaro pubblico e quindi in favore della collettività, ma sacrificate senza alcun riguardo sull’altare del profitto, mascherato da “valorizzazione”.

A chi scrive – in quanto siciliana – vengono in mente anche i concerti organizzati al Teatro Greco di Taormina, o a quello di Siracusa… memorabile la bolgia di esagitati sotto il palco dei Negramaro nel luglio del 2023. E non si tratta di essere “puristi” (neanche fosse un titolo d’infamia…) quando si biasima o ci si oppone a questo genere di manifestazioni; è che assecondando questa deriva spettacolistica, si perde totalmente di vista il valore e la funzione culturale primaria di quei luoghi millenari, che in questo modo vengono percepiti dalla comunità alla stessa stregua di un palazzetto dello sport o di uno stadio. Con la differenza che se si rompe una gradinata allo stadio non è un gran danno (sempre che non si faccia male nessuno), ma se si frantuma una gradinata millenaria non c’è “stanziamento” che la possa rispristinare o che ne possa riparare il danno morale e sociale.

Ancora riguardo al Colosseo, in ottica di conservazione e valorizzazione, Pavolini riporta il progetto iniziato circa dieci anni fa di ripristinare l’antica superficie ellittica, ovvero il piano calpestabile in legno che nell’antichità veniva coperto con la sabbia per assorbire il sangue delle venationes con le bestie, o dei duelli tra gladiatori; il che, sottolinea giustamente l’autore, apre una serie di interrogativi e problematiche di vario genere che impongono di riflettere su rischi e vantaggi. A partire dalla effettiva fattibilità dell’opera, passando per la sua oggettiva utilità, fino ai danni veri e propri (materiali e non) che un tale impianto comporterebbe. Se, infatti, il ripristino della superficie lignea è certamente cosa fattibile in sé e per sé (anche ignorando volutamente che si andrebbe a operare, per forza di cose, su pietre millenarie), ci si chiede quale uso – poi – si farebbe di quella superficie (spettacoli, concerti, eventi, ecc.); ma soprattutto va fatta una seria riflessione su una questione tutt’altro che marginale. Una parte di quella superficie è stata in effetti ripristinata nel 2000, ma solo per una modesta porzione, lasciando visibili le murature sottostanti, che costituiscono esse stesse un monumento nel monumento. Se infatti si può obbiettare che, in origine l’Anfiteatro prevedeva in effetti quella superficie coprente, utilizzata già allora per scopi ludici, e ripristinarla – quindi – vorrebbe dire restituirgli l’aspetto originale, è vero altrettanto che duemila anni dopo non si può più pretendere che quel luogo mantenga la stessa funzione, né che abbia la stessa resilienza; il Colosseo oggi è “altro” da ciò che era in origine, ed è stato il tempo a decretare “naturalmente” questo mutamento, funzionale e culturale. Peraltro, studi tecnico-scientifici condotti negli anni, hanno dimostrato che gli ambienti sottostanti la superficie dell’arena, ovvero le fondazioni dell’anfiteatro inserite in un terreno molto umido, interessato nel tempo da continui innalzamenti delle falde acquifere, necessitano di un’areazione continua e regolare.

La parziale copertura di quelle strutture ha giovato al mantenimento di questo microclima così particolare, ma una copertura totale andrebbe ad alterare quelle condizioni di areazione necessarie provocando, alla lunga, oggettivi problemi di conservazione delle strutture antiche. Senza contare che si priverebbero i visitatori della fruizione libera di quegli ambienti interrati, oggi possibile già solo affacciandosi dagli anelli dell’anfiteatro, mentre – una volta coperti – diventerebbe necessario un diverso percorso di visita, con bigliettazione a parte a numero chiuso.[3] Peraltro si renderebbe necessario anche un riassetto strutturale invasivo degli ambienti volto ad accogliere i flussi di visitatori, e questo anche nel caso di uso dell’arena per spettacoli o eventi politici, o di rappresentanza, benché occasionali; anche se, sottolinea l’autore, basta la concessione del monumento una volta per creare il “precedente” che induce altri potenziali “sfruttatori” a farne richiesta e i dirigenti, di conseguenza, a non negare i permessi (com’è già avvenuto)[4]. Talché sarebbe decisamente più opportuno organizzare tali eventi in luoghi magari attigui al monumento, potendo sfruttarne in questo modo la bellezza e la presenza per scopi commerciali senza incidere né sulla struttura in ottica conservativa, né sulla sua funzione culturale e sociale.

Ma d’altra parte, fa notare Pavolini, resta il fatto che il direttore di un ente museale o il comitato scientifico di un Parco o Polo, che volessero mantenere una condotta “virtuosa” nei confronti dei beni culturali affidati alla loro gestione, potrebbero trovarsi paradossalmente nell’impossibilità di opporsi a quel genere di prestiti, o di intraprendere azioni mirate anche a scopo conservativo, perché la loro “autonomia speciale”, di fatto, si ferma nel momento in cui i superiori – Direttore Generale o Ministro – a cui direttamente rispondono, decidano di concedere invece il prestito o di negare qualunque intervento, seppure opportuno.

Sono gli effetti della politica a determinare questo stato di cose ed è la politica che deve farsi carico della soluzione di problemi che essa stessa ha creato.

In tutto questo, non manca l’autore di sottolineare la situazione altamente problematica, degli operatori della cultura: studiosi, storici dell’arte, ricercatori, archeologi, restauratori, ma anche soprintendenti, vari funzionari, assistenti, personale tecnico e amministrativo, fino ai semplici custodi, che si trovano a lavorare in condizioni difficili, non solo a causa della burocrazia ma spesso proprio nel contesto delle specifiche competenze di ciascuno, svilite dall’impiego in mansioni non attinenti alle loro discipline o funzioni professionali. Pavolini, che ha lavorato per lungo tempo nell’ambito archeologico, denuncia il ricorso quasi sistematico al mondo del volontariato per reperire operatori “a costo zero”, lasciando spesso al precariato e all’inattività, personale invece idoneo e qualificato.

Peraltro, quando si parla di valorizzazione dei beni culturali non si può non tenere conto della loro funzione “didattica”, anche e soprattutto nelle scuole, e di come schiere di professionisti appositamente formati si trovino ad attendere decenni prima di poter ottenere un ruolo attivo nell’ambito dell’istruzione, o a inserirsi negli uffici di Soprintendenze, Ministeri, archivi, Università. E questo nonostante (o forse a causa) di quelle “autonomie speciali” che tendono a massimizzare le risorse anche in questo senso, evitando di indire concorsi per assumere personale, pur essendo costantemente sotto organico. Col risultato che i pochi occupati – seppure in possesso di importanti titoli – vengono regolarizzati per mansioni non attinenti le loro specifiche discipline e competenze, e spesso dequalificanti; situazione che accettano, pur di lavorare, ma che non fa bene né a loro né al sistema cultura in generale, che in tal modo disperde – sprecandole – potenzialità di sviluppo professionale e di crescita intellettuale collettiva.

Tra questi non vanno dimenticati coloro che operano nell’ambito della divulgazione; la loro attività è fondamentale per garantire la funzione primaria del monumento, del museo o dell’opera d’arte, ovvero l’acquisizione delle conoscenze, lo sviluppo del senso critico e della coscienza civile di una comunità, come del singolo fruitore occasionale. In questo la comunicazione è certamente protagonista, e la schiera di coloro che costantemente difendono il “valore in sé” dei beni culturali, non si sottrae né nega – in questo senso – il potenziale dei nuovi mezzi tecnologici, delle nuove strategie e metodologie di trasferimento delle conoscenze. Un settore peraltro, anche questo, che aprirebbe autostrade di occupazione e di profitti connessi allo sfruttamento virtuoso dei beni culturali.

Penso anche ai mezzi di comunicazione di massa, ai siti web, alle pagine social, dove divulgatori qualificati e appositamente formati potrebbero trasmettere informazioni corrette in maniera coinvolgente e gradevole (in questo senso, ultimamente, qualcosa si muove), arrivando a un enorme numero di persone.

E a tal proposito, mi emoziona particolarmente ricordare oggi le parole di un grande uomo di Stato e di Cultura, storico dell’arte e magnifico divulgatore, come il prof. Antonio Paolucci, che da pochi giorni ci ha lasciato, il quale così si esprimeva solo qualche anno fa:

“La valorizzazione – e questo è il pensiero di uno che lavora nelle belle arti da 50 anni – nasce dalla conoscenza; quindi si valorizza conoscendo noi per primi e facendo conoscere agli altri, questo è il punto.”[5]

Ed è per questo che una sana divulgazione, accattivante ma rigorosa e capillare, aiuterebbe tantissimo a creare futuri “utenti” – non “consumatori” – che possano godere una fruizione culturale piena e consapevole, oltre che gratificante. Ci sarebbe tantissimo da fare in questa prospettiva; chi scrive pensa ad esempio alla propria realtà territoriale, alle tante chiese catanesi che custodiscono opere meravigliose di cui non si riesce a sapere nulla perché non si sono mai attivate operazioni di ricerca, catalogazione e divulgazione; quando sarebbe utilissima una brochure ben fatta per fornire anzitutto un servizio ai tanti visitatori di passaggio che chiedono informazioni e non ottengono risposta, ma anche una vera valorizzazione del luogo e delle opere.

Ma tant’è; oggi gli operatori della Cultura, nel paese culturalmente più “dotato” del mondo, vengono considerati dalle istituzioni – e dalla collettività, di conseguenza – quasi esclusivamente come “nemici” del progresso economico, aridi “signor no”, moralisti senza prospettive, freddi asceti dell’arte arroccati nel loro olimpo accademico, che preferiscono vedere i musei vuoti o al massimo aperti solo a pochi eruditi per scopi esclusivamente scientifici. E riflettendo sulle critiche, spesso aspre e pretenziose, mosse a coloro che si oppongono a quella deriva commerciale volta alla monetizzazione a tutti i costi, l’autore fa bene a chiarire – intanto – che razionalizzare i flussi non vuol dire aspirare a un numero minore di ingressi, ma magari puntare alla differenziazione dell’offerta valorizzando anche luoghi meno battuti dai transiti turistici; come opporsi all’uso improprio dei luoghi d’arte o delle opere stesse, non vuol dire pretendere di indicare “cosa sia politicamente corretto e cosa no”, vuol dire semplicemente evitare di farne mercimonio becero e dequalificante.

La critica è sicuramente frutto di una tendenza alla generalizzazione e alla semplificazione estrema dei concetti, che è propria del nostro tempo e della nostra società; ma siccome ignorarla sarebbe un errore, è di certo più utile rispondere con un atteggiamento costruttivo. A tal proposito, rileva Pavolini, un modo per evitare che studiosi, ricercatori e storici dell’arte, siano messi all’indice come ottusi “sacerdoti” e “vestali” della Cultura, sarebbe ad esempio che essi collaborassero con gli operatori della divulgazione, fornendo materiale informativo che sia frutto di rigore scientifico ma accessibile a tutti; dalle pubblicazioni a scaffale, alle brochure informative, alle schede museali. Qualcosa che chi scrive auspica da tempo e che costituirebbe finalmente un argine all’onda di piena della disinformazione che dilaga ovunque. Il che, tra l’altro, attiverebbe un indotto professionale enorme che darebbe lavoro a schiere di esperti del settore altamente qualificati, spesso – come si è detto – sacrificati in ruoli e attività poco produttive e occasionali. Anche su questo dovrebbe lavorare la politica.

Ma pare che da quell’orecchio, la politica proprio non ci senta; come testimoniano le pagine di questo volume la trattazione della materia “beni culturali” negli ultimi dieci anni ha visto solo affermarsi progressivamente l’idea che essi debbano “fruttare”, in ogni modo possibile; anche facendone un uso propagandistico della politica stessa. L’autore ricorda, nel 2021, la foto dei ministri della cultura del G20 seduti intorno a un tavolo allestito proprio sulla parte lignea ricostruita dell’arena del Colosseo, e di come Franceschini allora giustificò la scelta di quella “location” in quanto il Colosseo è un “luogo simbolo dell’Italia nel mondo”.

Chi scrive ricorda anche il blitz “in solitaria” e senza preavviso di Jill Biden in galleria Borghese, la foto dei “grandi del mondo” davanti alla Fontana di Trevi (fig. 4), e delle loro mogli ai Musei capitolini.

Fig. 4 I leader del G20 davanti alla Fontana di Trevi, Roma. Foto: Giornale di Sicilia.

Ma più di recente anche l’immagine “inquietante” di Elon Musk infilato dentro la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, in compagnia del ministro Sangiuliano (fig. 5).

Fig. 5 Elon Musk e il ministro Sangiuliano all’interno della Cappella Contarelli, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma. Foto: account twitter del ministro Sangiuliano

Un sfoggio di potere, a mio avviso, inelegante quanto inopportuno, e con l’aggravante della stoltezza, perché non è certamente quello il modo per fruire correttamente e pienamente le opere straordinarie contenute in quella Cappella, concepite ed eseguite da Caravaggio per essere osservate dall’esterno, da dietro la balaustra marmorea, dove stavano i fedeli nel Seicento, come anche quelli di oggi. E questo, chi riveste una carica istituzionale “di settore”, dovrebbe saperlo. E siccome al peggio non c’è mai fine, sono di questi ultimi giorni le immagini della ministra Santanché e del ministro Sangiuliano, sempre al Colosseo, insieme al “gladiatore” (!) Jannik Sinner e la sua Coppa dell’Australian Open (fig.6). Un’altra cartolina per “vendere” l’Italia all’estero. Un altro “Open to… qualcosa.”

Fig. 6 La ministra Santanché con Jannik Sinner e il presidente della Federazione Italiana Tennis e Padel Angelo Binaghi al Colosseo, Roma. Foto: supertennis.tv

Di sicuro non è una novità che certa politica, con la scusa di rendere onore al merito, abbia tentato di “intestarsi” le vittorie e i volti di italiani eccellenti in diverse discipline, (mi viene in mente, anni fa, Baglioni insieme ad Alemanno, ma la lista è lunga), trattati come trofei da esibire, neanche li avessero ottenuti loro; o personaggi illustri tirati per la giacchetta a rappresentare questa o quella compagine politica (penso a quando Samantha Cristoforetti fu invitata a candidarsi col PD). Ma, certamente, nemmeno l’arte prestata alla politica è un’immagine edificante (eticamente e moralmente), e a dirla tutta, neanche “democratica”; tanto meno è “valorizzante” nei confronti dell’opera usata di volta in volta come uno “sfondo da selfie”, snaturata nella sua funzione culturale, ridotta a feticcio privilegiato per i potenti di turno.

E, come giustamente rimarca Pavolini nel suo libro, non è affatto scontato che all’estero faccia poi così presa un siffatto sfoggio dei “gioielli di famiglia”, in una logica promozionale del tanto declamato “made in Italy”. Anche il presunto ritorno in termini di “immagine” andrebbe, quindi, ridimensionato quando si intende usare i luoghi d’arte per altro che non sia la loro specifica funzione culturale. Se li “svendiamo” in maniera così bassa, quei “gioielli”, è molto probabile che, agli occhi di potenziali visitatori o investitori, essi perdano quell’attrattiva intrinseca che possiedono come testimoni eterni di una “cultura della bellezza” che è ciò per cui davvero siamo ammirati nel mondo.

L’autore cita l’esempio della Grecia che nel 2016 negò a Gucci una sfilata sull’Acropoli di Atene, rifiutando un compenso milionario (che avrebbe potuto usare per fini di conservazione e valorizzazione) in un momento di forte crisi finanziaria, ottenendone la derisione da parte di molti. Mentre invece quel rifiuto era stato opposto dalle autorità greche proprio perché si temeva di sminuire il valore culturale di quei luoghi, causando un danno di immagine che non avrebbe certo giovato al turismo, e quindi all’economia del paese. Un modo decisamente diverso di intendere il termine “valorizzazione”.

L’uso commerciale dei beni culturali si manifesta sempre più spesso, come accennato, anche con una sovrabbondanza di mostre, che testimoniano in maniera piuttosto evidente la prevalenza delle ragioni del profitto sulle ragioni della Cultura.

Come sottolinea Pavolini, va considerato che in molti casi, nell’ambito dei cosiddetti “servizi aggiuntivi” (o “per il pubblico”), il concepimento e l’organizzazione di queste mostre vengono affidati, dalle Soprintendenze o dagli stessi Musei, ad agenzie private tramite gara d’appalto, con ripartizione equanime dei proventi; talché l’agenzia vincitrice (ma in realtà entrambe le parti) avrà interesse a programmare un sempre maggiore numero di eventi, anche inutili e ripetitivi (basta vedere i nomi degli artisti in mostra, di sicura attrattiva ma enormemente inflazionati), pur di fare cassa. La conseguenza per il visitatore è che si ritroverà un biglietto di visita museale comprensivo di percorso mostra, non separabile, maggiorato di diversi euro, che incideranno inevitabilmente sul budget, creando un divario di opportunità tra chi potrà e chi non potrà permettersi la spesa; e questo, magari, senza che l’utente abbia alcun interesse particolare per la mostra in corso; oppure che, chi volesse vedere solo la mostra, perché ha già visitato il Museo, debba pagare comunque il prezzo totale. Mentre sarebbe opportuno, come propone Pavolini, che fosse l’ente museale a ideare in maniera più ponderata le eventuali mostre, sostenendone i costi di organizzazione ma trattenendone anche per intero gli utili, separando il biglietto per il percorso museale da quello per la mostra. Ma soprattutto valutandone bene opportunità e finalità culturali, perché una mostra ben concepita e ben fatta è occasione di per sé “valorizzante” per le opere in esposizione, ma rappresenta anche un utile momento di studio e approfondimento scientifico per studiosi e specialisti di settore, oltre che volano di nuove conoscenze e motivo di appagamento estetico per i visitatori.

Ancora, un altro modo che avrebbero le istituzioni per produrre profitto attraverso la cultura, senza scadere nel “commercio”, soprattutto nell’ottica di eventuali accorpamenti o sinergie tra Ministero della Cultura e del Turismo (com’è già accaduto), potrebbe essere quello di mettere in relazione le categorie professionali del turismo con le realtà culturali sul territorio; che non sono soltanto le grandi città d’arte o i grandi Poli museali, ma tutti quei luoghi disseminati nel territorio circostante e spesso sconosciuti ai più, che meriterebbero certamente maggiore attenzione e valorizzazione; creerebbero occupazione, smisterebbero i soggiorni (anche brevi) nei borghi e nei paesi, e probabilmente sfoltirebbero i flussi colossali che strozzano i centri storici, li rendono invivibili per i residenti e impediscono una piena e soddisfacente fruizione dei luoghi d’arte ai visitatori.

Dare spazio e opportunità di crescita alle realtà più piccole ma che spesso custodiscono preziosi tesori di bellezza, alla scoperta di nuovi percorsi di visita e di conoscenza, sarebbe – per inciso – per i tour operators occasione ghiotta per diversificare e ampliare la loro offerta turistica, sperimentando anche nuovi target a cui rivolgerla, e per il Paese una grande opportunità di vera, e nuova, e sana valorizzazione, che mostrerebbe al mondo la vastità del nostro patrimonio storico-artistico.

E a proposito di turismo, Pavolini si sofferma anche sull’annosa diatriba tra chi auspica la gratuità dei luoghi d’arte e chi invece gioca al rialzo, puntando a massimizzare i profitti. In medio stat visrtus, dicevano i latini. Non a caso l’autore ritiene corretto e opportuno che si paghi un biglietto per accedere ai luoghi d’arte e cultura; e chi scrive concorda pienamente, fatte salve le dovute eccezioni, come ad esempio le chiese che sono, prima di tutto, luoghi di culto in cui l’accesso dovrebbe essere sempre assolutamente libero.

Pavolini rimarca, giustamente, che pagare un biglietto non è soltanto segno della redditività di un bene culturale, ma ha anzitutto una funzione di “pedagogia civile”; espressione meravigliosa che contiene il germe di quella consapevolezza collettiva che è il fine ultimo della divulgazione culturale. Pagare un biglietto fornisce al visitatore la “percezione del valore del patrimonio stesso” che, in quanto bene di servizio pubblico (e dunque per la collettività), comporta un ineludibile costo di gestione; e non serve obbiettare che le tasse che paghiamo già dovrebbero bastare a coprire anche i costi della Cultura, perché è sotto gli occhi di tutti che esse non sono sufficienti nemmeno per servizi pubblici di “prima necessità” come la sanità (tant’è vero che gran parte della popolazione paga un ticket per le prestazioni sanitarie), o i trasporti per i quali si paga un biglietto. E non si può certo escludere la Cultura dal novero dei servizi di “prima necessità” poiché essa è priorità e “diritto” nella vita delle persone tanto quanto la salute o la protezione civile.

Certamente andrebbe fatto un serio progetto di diversificazione del costo dei biglietti, partendo però da un prezzo base che non discrimini il visitatore straniero rispetto al residente; d’altra parte, riflette Pavolini, se gli altri Paesi facessero lo stesso, non sarebbe di certo gradevole nemmeno per gli italiani sapere di dover pagare di più solo perché forestieri. E qui l’autore non si sottrae alla “puntuale” critica di chi indica l’esempio “virtuoso” di certe istituzioni museali europee a ingresso libero, come la National Gallery o il British Museum di Londra; senza pensare, però, che quei pochi musei pubblici godono dei lauti proventi di molti altri luoghi di cultura a gestione privata, dove invece un biglietto si paga eccome. Tuttavia, la proposta del tutto condivisibile di Pavolini, vedrebbe una possibile soluzione nella differenziazione del prezzo del biglietto, in relazione a vari parametri: fasce di reddito, giovani, studenti, anziani, ecc., in parte già in essere ma certamente migliorabile.

Far fronte a questa mole imponente di problematiche di varia natura sembra una missione impossibile; ma se lo scopo del libro è stato raggiunto, ovvero dimostrare l’importanza primaria del “valore in sé” dei beni culturali, che si traduce in progresso e benessere per tutti, allora si possono certamente individuare quei punti cardine irrinunciabili da cui far partire la necessaria “rivoluzione”. Non si possono, infatti, considerare sufficienti interventi a carattere episodico o emergenziale (utili forse alla propaganda politica, non certo al Paese) ma occorre porre in essere un programma serio e permanente di attività, a partire dalla più importante e urgente: la salvaguardia e la messa in sicurezza dei territori dal rischio sismico e idrogeologico; non solo quelli ove si trovino poli di interesse culturale di grande attrattiva, ma su tutto il territorio nazionale, poiché il patrimonio storico-artistico italiano è disseminato capillarmente in tutto il Paese ed è doveroso che sia tutelato nella sua totalità. Questo innescherebbe una reazione a catena di attività correlate, che coinvolgerebbero i più diversi ambiti professionali, culturali, commerciali, tecnici, scientifici, creando opportunità di lavoro e quindi di crescita economica ovunque.

Bellissimo e cruciale, a mio avviso, il passaggio in cui Pavolini sottolinea come un tale orientamento da parte delle istituzioni agirebbe profondamente anche sulla mentalità delle persone; scrive l’autore, sulla “antropologia” della collettività, poiché fornirebbe anche alle giovani generazioni un modello comportamentale virtuoso sul quale costruire il loro futuro.

È chiaro che servirebbe anzitutto una virata ideologica a livello politico, purtroppo ben lontana dall’orizzonte visibile. Nonostante le “autonomie speciali”, le riforme nel settore Cultura degli ultimi sette-otto anni, corrispondenti di fatto alla gestione Franceschini, hanno determinato un accentramento di poteri talché spesso le decisioni si sono prese quasi senza dibattito parlamentare, e le nomine dirigenziali sono state determinate dall’autorità politica, tracciando una deriva davvero poco democratica, che ha influito negativamente in ogni ambito della gestione tecnica e amministrativa, lasciando campo libero a quelle inopportune pratiche di mercificazione del patrimonio storico-artistico che, lungi dal “valorizzarlo”, ne sviliscono invece la funzione primaria culturale, e spesso ne mettono in pericolo l’integrità. E tutto questo sotto gli occhi di un’area politica indicativamente “progressista” che avrebbe dovuto avere a cuore un settore sul quale da sempre conduce battaglie politiche, e forse vigilare di più e meglio sull’operato dei propri esponenti di riferimento.

E non sembra che l’attuale compagine di governo abbia intenzione di operare un cambio di rotta significativo, anzi; estendere il più possibile la propria influenza politica in ogni ambito culturale del Paese e con ogni mezzo, pare sia la priorità assoluta. D’altra perché mai dovrebbe “inibirsi”, quando si trova in eredità il lascito di un sistema gestionale ampiamente in linea con la sua idea di “messa a profitto” dei beni culturali. Non è lontana l’immagine fumettistica della Venere-influencer botticelliana (fig. 7), in ciclo-tour promozionale delle bellezze nostrane nel mondo; una campagna di comunicazione bislacca, confezionata “a risparmio” (neanche uno shooting fotografico mirato, solo foto reperite gratuitamente online e poi rieditate) ma costata ben 9 milioni di euro solo per gli spazi pubblicitari[6].

Fig. 7 Una delle immagini della campagna promozionale “Open to meraviglia”. Foto: laquilablog.it

Sintesi paradigmatica di cosa si voglia intendere e ottenere, dalla sinergia tra Ministero della Cultura e Ministero del Turismo: vendere l’immagine (bassamente stereotipata) del nostro Paese usando il patrimonio nazionale, presentando il tutto come “valorizzazione”, in perfetta continuità col recente passato. Senza contare che poi, nemmeno tanto “open” si possono considerare le nostre “meraviglie”, dal momento che al MIC non si ritiene opportuno assumere personale per ovviare alla cronica carenza di operatori di settore che induce alla chiusura anche importanti luoghi d’arte in periodi di grande afflusso (vedi gli Uffizi il 31 ottobre dell’anno scorso), costringe i pochi in organico a turni massacranti, e le strutture a ridurre a volte i percorsi di visita.

E questo mentre il ministro sferza  – a favor di elettorato –  i pochi direttori che si sono permessi un giorno di ferie il 24 aprile, “invitandoli” a un pranzo di lavoro il giorno di ferragosto[7]; o medita di estendere le aperture gratuite dei musei dalla prima domenica del mese ad altri giorni festivi[8], obbligando così gli enti museali a ricorrere a personale esterno, precario e non qualificato, con tutto ciò che questo comporta in termini di sicurezza e di soddisfacente fruibilità dei siti, ma non ponendosi il problema della gestione dei flussi quotidiani, che rimane comunque altissimo; e siccome quest’ultima cosa è palese, lo stesso ministro impone la bigliettazione in un luogo di culto come la Basilica di Santa Maria ad Martyres (fig.8) che – incidentalmente – è “anche” l’iconico e altamente redditizio Pantheon, perché – diamine! – il patrimonio nazionale va messo a profitto.

Fig. 8 Basilica di Santa Maria ad Martyres (Pantheon)

Il volume di Pavolini si conclude con un’analisi inclemente delle quote percentuali (drammaticamente esigue) riguardanti l’attenzione che il settore Cultura ha avuto nei programmi elettorali degli ultimi anni, compresa l’ultima tornata nel 2022, che conferma un andamento al ribasso – quantitativo e qualitativo – degli interventi preventivati, per un comparto ritenuto fondamentale per il Paese, ma valutato solo in un’ottica commerciale; arte – scrive Pavolini

“che serve a vendere meglio all’estero i nostri prodotti” e “cultura vista principalmente come motore di sviluppo economico”.

Accogliendo le istanze e il comprensibile sconforto dell’autore, chi scrive conviene che la parola “valorizzazione” vada riferita al bene culturale, non al prodotto interno lordo; e che investire nella Cultura vuol dire investire nel benessere, nella sicurezza, nella coscienza civile, nel futuro stesso del Paese. Qualcosa che forse non era compreso in quell’idea del MIC come “primo dicastero economico del governo” di cui parlò a suo tempo l’ex ministro Franceschini, il quale forse – invece – lo aveva considerato solo “in funzione del formidabile contributo che esso può fornire al successo dei nostri marchi sui mercati esteri”; quindi solo una bella vetrina da sfruttare all’uopo, come – di fatto – sta accadendo anche con l’attuale governo. Era forse questa la sua idea di “valorizzazione”, e forse per questo intitolò il suo libro (La nave di Teseo, 2022) con una domanda a risposta implicita: Con la cultura non si mangia? Forse si.

Ma qui vediamo solo tavole imbandite…

©Francesca SARACENO, Catania 11 febbraio 2022.

[1]https://www.lastampa.it/cronaca/2023/07/25/news/direttori_musei_nomina_sangiuliano_critica_storici_arte-12964797/

[2] https://www.quotidiano.net/cronaca/matrimoni-location-paestum-da6d2a2e

[3] Si veda l’interessante contributo di Rossella Rea, archeologa e funzionaria dell’allora Soprintendenza, che si è occupata del monumento dal 2008 al 2017: Se il Colosseo finisce nell’Arena, Left 2021: https://left.it/2021/03/22/se-il-colosseo-finisce-nellarena/

[4]https://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/11_giugno_7/colosseo-concerto-antonacci-polemiche-fulloni-190813659705.shtml#:~:text=ROMA%20%2D%20Dopo%20Ray%20Charles%2C%20l,ha%20cantato%20dentro%20al%20Colosseo.

[5]https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/97555.html?anteprima&fbclid=IwAR376Ga4rZWLOa_e9I42eSI2ZJLsREh6vbyQaVhqgtX9SbDADGUgGeIzImQ

[6] https://www.today.it/opinioni/open-meraviglia-editoriale.html

[7] https://www.wired.it/article/sangiuliano-lettera-direttori-musei-ferie-ferragosto/

[8] https://www.money.it/musei-gratis-piano-governo-sangiuliano-quando-ingresso-gratuito