Alle Scuderie del Quirinale l’Arte “liberata”; opere, storie e protagonisti della tutela del nostro patrimonio culturale e artistico.

di Massimo FRANCUCCI

L’arte in Guerra tra identità e bottino

L’apparente dicotomia con cui negli ultimi tempi si è voluto insistere sulla separazione di tutela e valorizzazione del bene culturale, in realtà due facce della stessa medaglia, può fornire un’importante chiave di lettura dell’esposizione L’Arte liberata, alle Scuderie del Quirinale fino al 10 aprile, curata da Luigi Gallo e Raffaella Morselli.

La mostra punta il suo obiettivo critico su un periodo storico terribilmente intenso quale fu la Seconda Guerra Mondiale, allorché ogni atto che nella vita di tutti i giorni era semplice o persino banale, divenne opera ardua e richiese spesso coraggio se non eroismo. Quanto detto valse anche per la difesa del nostro patrimonio storico e artistico, che rischiava di trovarsi esposto a due minacce in particolare, entrambe gravissime: il pericolo di danneggiamento bellico e la possibilità di saccheggio.

Allestimento

Anche quando le battaglie infuriavano, l’intento di utilizzare le opere d’arte a fini propagandistici non veniva affatto meno, d’altra parte l’uso politico della storia e dell’arte da parte del potere non sono certo invenzioni novecentesche. Detto ciò, si dovrà in ogni caso aggiungere che i totalitarismi che caratterizzarono il secolo breve fecero dei grandi passi in avanti su questo piano, piegando alcuni degli elementi fondativi delle nazioni a favore della propria narrazione.

Discobolo Lancellotti II sec. d.C. marmo Marble Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme Su concessione del Ministero della Cultura – Museo Nazionale Romano / Palazzo Massimo alle Terme

Se la vuota retorica fascista aveva trovato semplice e diretto modellare i termini di una filiazione diretta tra la grandezza della città dei Cesari e la Roma del presente, in Germania la questione delle origini del loro essere ariani fu un passaggio maggiormente articolato coinvolgendo anche le radici classiche della cultura europea.

È così che la mostra si apre nel segno del Discobolo Lancellotti, la migliore copia di epoca romana dell’originale greco di Mirone, uno dei più importanti raggiungimenti della statuaria antica e di tutti i tempi. Hitler in persona riteneva quell’esempio canonico di perfezione un punto imprescindibile della propria narrazione propagandistica e fu così che, nel corso della sua visita italiana del maggio del 1938, spinse per perfezionare l’acquisto della statua, che sarebbe dunque giunta in Germania nonostante il parere avverso del ministro Bottai e delle leggi di tutela già in essere, grazie all’intervento di Mussolini e di Galeazzo Ciano, allora ministro degli esteri. Il Discobolo, pagato in ogni caso una cifra stratosferica per quel tempo, sarebbe arrivato il 9 giugno 1938 in Germania per essere esposto nella Glyptothek di Monaco di Baviera quale dono di Hitler al popolo tedesco, come una dimostrazione di potere simile a quella che, forse, aveva condotto l’originale greco a Roma un paio di millenni prima.

Dietro questa decisione c’era anche il potere evocativo della settima arte poiché il capolavoro cinematografico di Leni Riefenstahl, Olympia, era uscito proprio nel 1938 per celebrare i giochi di Berlino di due anni prima e aveva ricollegato la città tedesca alla culla greca delle Olimpiadi, per cui, nelle suggestive sequenze iniziali, dopo l’acropoli di Atene, la perfezione del Discobolo di Mirone veniva chiamata in causa a fornire il modello ideale di atleta ben presto incarnato dallo sportivo moderno tedesco, ovviamente, Erwin Huber, in un cortocircuito tra la perfezione classica e la teutonica.

Proprio per la natura particolare del suo “trafugamento” non fu semplice ottenere la restituzione del capolavoro marmoreo alla fine del conflitto e ci volle tutta la scaltrezza di Rodolfo Siviero, incaricato dall’Italia di trattare con il Governo Militare Alleato in Germania il rientro delle opere d’arte, perché il Discobolo tornasse in Italia dieci anni dopo la sua partenza. Siviero fu sicuramente tra i personaggi più interessanti e appariscenti impegnati con le opere d’arte italiane in guerra e a lui si deve, tra gli altri capolavori, anche il ritorno della Danae di Tiziano,

Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 1576) Danae 1544 – 1545 Olio su tela Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte Su concessione del Ministero della Cultura / Polo Museale della Campania / foto di Luciano Romano

razziata dalle truppe tedesche a Capodimonte e donata a Goering che l’aveva destinata alla propria camera da letto, “prima sul soffitto e poi usata come spalliera”, con un gesto brutale che solo la follia nazista poteva mettere in atto nel tentativo malriuscito di virare verso i propri cupi scopi anche i caldi colori della luce di Venezia che il dipinto, realizzato dal pittore circa quattrocento anni prima per Alessandro Farnese, emanava, secondo la descrizione dello stesso Siviero.

Con il capolavoro di Tiziano si chiude la mostra che nel frattempo ha raccontato con testi, foto e opere la corsa contro il tempo nella perenne carenza di mezzi e di risorse per mettere in sicurezza un numero spropositato di opere, grazie soprattutto al coraggio e alla malizia di studiosi e funzionari come Pasquale Rotondi, che con l’appropinquarsi dell’entrata in guerra si mise alla ricerca di un deposito il più possibile sicuro per una parte incredibilmente consistente del nostro patrimonio artistico. Da Soprintendente alle Gallerie e alle Opere d’Arte delle Marche, resosi conto che anche Urbino poteva essere un bersaglio bellico, individuò nella Rocca di Sassocorvaro il luogo ideale. Qui sarebbero stati raccolti i pezzi considerati irrinunciabili provenienti dal palazzo ducale, che si andava svuotando mostrando la propria maestosa armonia architettonica, ma anche opere provenienti da altre zone d’Italia.

Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, 1412 circa –1492) Madonna col Bambino e angeli detta Madonna di Senigallia 1474 circa olio e tempera su tavola, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche © MiC – Galleria Nazionale delle Marche – Ph. Claudio Ripalti

Giunsero ad esempio a Sassocorvaro i due capolavori di Piero della Francesca, la Flagellazione e la Madonna di Senigallia, quest’ultima presente in mostra a farci capire che in un attimo saremmo potuto restare orfani per sempre della sua magica luce che filtra dalla finestra e si riverbera sui capelli e sulle vesti dell’angelo, il cui sguardo, come quello degli altri protagonisti del dipinto, consapevoli del presagio incombente sul destino del Bambino, è colmo di mestizia.

Le tavole pierfrancescane si sarebbero poi riunite con lo stendardo di Luca Signorelli, o il polittico di Giovanni Baronzio, a lungo creduto il capostipite della scuola giottesca riminese del Trecento, che in seguito sarebbe stata la prima opera a tornare a casa alla fine del conflitto. Da varie città delle Marche avrebbero poi trovato lì ricovero capolavori di Lotto, Crivelli, Bellini e Marco Zoppo, da Roma sarebbero giunte le pale di Caravaggio, che forse pochi anni prima non sarebbero state considerate meritevoli di tante attenzioni così come non lo furono le sublimi tele del Barocci, destinate a un ricovero meno sicuro perché ritenute di seconda fascia.

Federico Barocci (Urbino, 1528/1535 – Urbino, 1612) Immacolata Concezione, 1575 ca olio su tela Oil on canvas Urbino, Galleria Nazionale delle Marche © MiC – Galleria Nazionale delle Marche

Sempre nelle Marche giungevano i tesori della Basilica di San Marco a Venezia, con la Pala d’oro, e la Tempesta di Giorgione che in questo racconto al limite dell’incredibile, di un tempo fuori dell’ordinario, finì per essere ricoverata nella camera da letto di Rotondi, per tutela e non per cupidigia, come sarebbe accaduto con Goering e la Danae.

Con l’armistizio le cose sarebbero cambiate un’altra volta precipitosamente e in un attimo molti di quei ripari di opere sembrarono aver perso la loro affidabilità e si cercò quindi un rifugio più sicuro: con un accordo lampo, grazie alla mediazione di Giulio Carlo Argan con il cardinal Montini, futuro Paolo VI, si permise a molti pezzi di trovare protezione all’interno delle mura vaticane, in territorio neutrale. Ma non era certo semplice ritornare a caricare le casse piene di fragili manufatti sui furgoni dell’epoca per impegnarsi in viaggi avventurosi col rischio di incappare in bombardamenti o posti di blocco.

Luca Signorelli (Cortona, 1441? – Cortona, 1523) Crocifissione di Cristo con Santa Maria Maddalena ed episodi della vita di Cristo, 1500 – 1505 ca. Olio su tela, Firenze, Gallerie degli Uffizi © Archivio Scala Group, Antella / © 2022. Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero della Cultura

A richiamare l’angosciosa condizione di precarietà, vissuta da tanti capolavori inestimabili, s’impegna l’evocativo allestimento della mostra, che propone ossessivamente il tema delle povere casse utilizzate per movimentare le opere: questo trova soluzione di continuità solo per lasciare spazio alle opportune didascalie e a foto significative che testimonino agli increduli la veridicità di un racconto tanto surreale. Tra le immagini alcune delle più significative sono quelle che ritraggono da una parte i militari tedeschi portare via da Firenze la Crocifissione di Luca Signorelli e dall’altra gli americani impegnati a recuperare l’Adamo ed Eva di Frans Floris, altra opera sottratta dalla città toscana, dove si era improvvidamente deciso di lasciare le opere in depositi decisamente più accessibili al nemico.

Anche il ricovero realizzato nel palazzo Falconieri a Carpegna sarebbe potuto essere depredato, se non fosse che, con un colpo di scena e di fortuna degno di un thriller cinematografico, i militari nazisti non avessero controllato che il contenuto di una cassa, considerata piena di scartoffie senza valore. Per fortuna non erano stati riconosciuti autografi rossiniani e con loro si sarebbero salvati altri pezzi fondamentali. Allo stesso modo a rischio si sarebbero scoperte le opere portate a Montecassino, ritrovatesi ben presto al centro della linea Gustav. Sarebbero stati direttamente i tedeschi a suggerire di spostare i capolavori altrove, verso Spoleto, col malcelato intento di trafugarli. In ogni caso questi furono preservati dal bombardamento che distrusse l’abbazia benedettina.

I danni al nostro patrimonio sono stati ingenti e ben rappresentati dalla cappella Ovetari a Padova, ridotta in gran parte a un puzzle complicatissimo. Quanto i valori fossero ribaltati in guerra lo testimonia un racconto che si tramanda a Bologna: i piloti della RAF, per scommessa, tentavano di colpire dopo gli obbiettivi strategici, le due torri, che per la loro forma rappresentavano un bersaglio quasi impossibile da centrare.

Francesco Hayez Ritratto di Alessandro Manzoni , 1841 Olio su tela  Milano, Pinacoteca di Brera © MiC – Pinacoteca di Brera, Milano
Giovanni Battista Piazzetta (Venezia, 1683 – 1754) L’Indovina  1740 – 1745 Olio su tela, Venezia, Gallerie dell’Accademia © Archivio Scala Group, Antella / © 2022.Foto Scala, Firenze

Sipotrà poi continuare a spaziare per la mostra, imbattendosi in opere bellissime, come ad esempio l’Indovina di Giovan Battista Piazzetta, iconiche, come il Ritratto di Alessandro Manzoni realizzato da quel campione dell’Ottocento italiano che è stato Hayez (Milano, Brera), imponenti, come la vibrante Santa Palazia di Guercino proveniente da Ancona, sorprendenti come il meraviglioso polittico di Cristoforo Scacco della Chiesa di San Pietro a Fondi.

Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento, 1591 – Bologna, 1666) Santa Palazia 1658 Olio su tela, Ancona, Pinacoteca civica “F. Podesti”. Collezione Civica – Pinacoteca Comunale “F. Podesti”, Ancona

Allo stesso tempo incontreremo i volti e leggeremo le storie di coloro che si spesero rischiando spesso in prima persona perché le generazioni successive non fossero costrette a vivere in un mondo più povero di idee, di forme e di colori e di bellezza: avremo l’occasione quindi di mostrare loro la nostra più profonda gratitudine.

Massimo FRANCUCCI   Roma 15 Gennaio 2023