Milano esoterica e leonardesca: il filo rosso che collega Hieronymus Bosch e Max Ernst (due mostre a Palazzo Reale).

di Sergio ROSSI

Viaggio I. Parte secondaMilano esoterica e leonardiana

A Milano il mio interesse è stato sollecitato da due mostre di palazzo Reale apparentemente molto diverse tra loro ma legate indubbiamente da un sottotraccia comune: Bosch e un altro Rinascimento, che rimarrà aperta fino al 12 marzo e Max Ernst, visitabile fino al 26 febbraio.

Il filo rosso che le accomuna è l’elemento onirico e visionario presente, anche se ovviamente in maniera del tutto diversa, nei due grandi artisti. Se invece vogliamo rintracciare un legame anche tra il mio viaggio sulle tracce di Klee e questo soggiorno milanese esso non può che trovarsi nel segno di Leonardo, di cui ho già sottolineato la vicinanza spirituale col pittore svizzero; e se vi è una città dove la presenza leonardesca è ovunque palpabile, anche là dove il da Vinci non c’è questa è proprio Milano.

Emblematico in tal senso è quell’autentico scrigno di tesori artistici che è il Museo Poldi Pezzoli dove il leonardismo si respira in molte sale, dagli antecedenti lombardi del Foppa e del Bergognone alle tele già pienamente vinciane di Andrea Solario, Marco d’Oggiono e Bernardino Luini, fino ad Alessandro Bonvicini detto il Moretto, con quell’enigmatico capolavoro della Sacra Famiglia su cui intendo tornare in un prossimo studio. E naturalmente non poteva mancare l’ennesima visita al Cenacolo di Santa Maria delle Grazie, dopo l’attesa di prammatica sotto una pioggia fitta anche se leggera che ha accresciuto l’atmosfera mistica che si respira all’interno della sala e dove quel “voler rendere visibile l’invisibile” che caratterizza sia Leonardo che Klee trova qui la sua palmare evidenza con il pulviscolo atmosferico che entra per la prima volta da protagonista in un dipinto ad affresco.

Veniamo ora alle mostre di Palazzo Reale.

Il legame tra Bosch e Max Ernst può farsi risalire a quella “rivalutazione” ambigua di Bosch che lo ha fatto anacronisticamente diventare, già agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso, uno dei padri del Surrealismo, un antesignano degli “artisti maledetti” facente uso di pozioni magiche dal potere allucinogeno e infine, un sostenitore delle teorie del “libero amore”, secondo il provocatorio intervento di Wilhelm Fraenger (Cfr., The Millenium of Hieronymus Bosch. Outlines of a New Interpretation, Chicago 1951, Londra 1952), che tanto successo ha ottenuto presso i Mass Media.

Si tratta di una teoria senza nessun appiglio documentario e che anzi contrasta con la realtà dell’appartenenza di Bosch a un organismo assolutamente opposto al gruppo dei Fratelli del Libero Spirito e cioè la Confraternita della Diletta Signora che si richiamava semmai alla “Devotio Moderna” di Tommaso da Kempis e della sua Imitatio Christi. E inoltre il fatto che il dipinto giungesse nel 1595 in possesso del cattolicissimo Filippo II è un altro serio indizio della fragilità delle teorie di Fraenger.

Tuttavia anche ricondurre un capolavoro come Il Giardino delle delizie del Prado solo all’ortodossia religiosa e il vedere in esso solo una condanna del piacere sessuale, escludendone anche le evidenti colorazioni alchemiche, come sembrano voler fare Walter Bosing, (Cfr., Hieronymus Bosch, Londra 1973, Colonia 1990), o Erik Larsen (Cfr., Bosch. Catalogo completo, Firenze 1995) nelle loro pur documentatissime monografie, appare pur esso limitativo (ma per una ancora utilissima sintesi storiografica e bibliografica dell’opera di Bosch si rimanda al volume di J. Kolderweij, P. Vanderbroeck, B. Vermet, Hieronymus Bosch, Milano 2001.

Hieronymus Bosch, Il Giardino delle delizie, 1480-1490 c.a. Madrid, Prado

Senza volersi qui addentrare nel terreno minato delle interpretazioni alchemiche, che a proposito di Bosch hanno il loro principale referente in Jacques Combe (Cfr., Hieronymus Bosch, Parigi 1957), ma che sono in parte accolte anche nella misurata monografia di Mia Cinotti (Cfr.L’opera completa di Bosch, Milano-Rizzoli 1966), bisogna comunque osservare che nel comparto centrale di questo famosissimo dipinto le immagini riconducibili a precisi significati alchemici sono talmente numerose da non poter essere casuali.

Intanto la stessa presenza ossessiva dei quattro principali colori dell’Opus alchemico, il nero (nigredo), il bianco (albedo), il giallo (citrinitas) e il rosso (rubedo); poi l’acqua, simbolo del mercurio, elemento femminile, e il fuoco, simbolo dello zolfo, elemento maschile; l’athanor o forno alchemico; l’alambicco; l’uovo; il cigno; il gufo; gli strani fiori che diventano placente dove giacciono insieme uomini e donne, e così via discorrendo.

Del resto tutta l’opera potrebbe essere interpretata come una celebrazione della coniunctio alchemica, dell’unione di maschile e femminile, del passaggio dal caos dell’indistinto alla separazione degli elementi. Questo non vuol dire comunque che Bosch debba conferire a questa simbologia un valore positivo, anzi è molto più probabile che il significato complessivo del trittico sia, come vuole Bosing, la presentazione

“di un falso paradiso la cui effimera bellezza conduce l’umanità alla rovina ed alla dannazione, così come la si conosceva dalla letteratura medievale”.

Venendo finalmente alla mostra milanese, se interpretata come un’esposizione monografica su Bosch, potrebbe risultare incompleta, anche se in assoluto 5 capolavori autografi dell’artista non sono certo pochi. Ma in realtà quest’esposizione ha un altro intento, criticamente molto ambizioso, cioè quello di celebrare “un altro rinascimento” o come più opportunamente dicono gli autori “altri rinascimenti” rispetto a quello italocentrico che siamo abituati a concepire, ed è un obiettivo centrato in pieno. E la dizione “altri rinascimenti” è da preferire a quella di Eugenio Battisti e del suo celebre e ormai lontano Antirinascimento del 1963, perché nelle opere in mostra, da quelle iniziali di Bosch a quella conclusiva dell’Arcimboldo più che di “anti” bisogna appunto parlare di “altri”.

Non intendo comunque ora produrmi in un’analisi dettagliata delle opere in mostra, che il visitatore potrà ammirare da solo, ma piuttosto soffermarmi in particolare su due di esse. Prima però elencherò i titoli delle diverse sezioni che danno molto bene l’idea dell’intero percorso espositivo: Bosch e un altro Rinascimento tra Nord e Sud; Bosch e il fantastico; Classico e anticlassico tra Italia e Penisola Iberica; Il sogno; La magia; Visioni apocalittiche; Le tentazioni di sant’Antonio; La stampa come mezzo di divulgazione; Il mondo asburgico; L’elefante; Bosch, la curiosità e il collezionismo enciclopedico.

Il primo dipinto da amnalizzare è il Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio (1500 circa), ora conservato al Museu Nacional de Arte Antigua di Lisbona.

Si tratta indubbiamente di uno dei massini capolavori di Bosch che sa coniugare la sua strabiliante fantasia visionaria con una capacità di sintesi narrativa di grande efficacia. Il trittico, da chiuso, mostra sugli sportelli esterni due rappresentazioni a monocromo: a sinistra vi è Cristo portacroce e a destra la sua Cattura. E sono due ante che per quanto pullulanti di figure e dalla resa altamente drammatica non fanno assolutamente presagire l’autentica esplosione cromatica e fantastica delle scene interne, accrescendone l’effetto di assoluta sorpresa.

Iniziamo dallo sportello sinistro con il Volo e caduta di sant’Antonio. In alto, in una scena surreale che sembra realmente anticipare Max Ernst, il santo è trascinato da un nugolo di demoni; più in basso vi è una sorta di uomo-albero carponi, il cui deretano forma un antro (forse un bordello) verso cui è diretta una processione sacrilega guidata da un demone che indossa paramenti sacri ed un cervo, che qui rovescia in senso sacrilego il suo abituale significato cristologico. In primo piano vi è il santo semisvenuto trascinato da due monaci e un laico, nelle cui fattezze si cela forse un autoritratto dell’artista; sotto il ponte del lago ghiacciato troviamo ancora un monaco che legge una lettera; un demone uccello coi pattini ai piedi e un imbuto in testa recante sul becco un cartiglio con la scritta “grasso”, probabile allusione allo scandalo della vendita delle indulgenze; e infine un grosso uovo, covato da un ennesimo uccello mostro, che sta per schiudersi.

Nel pannello centrale vi è la scena principale dell’intero trittico, quella appunto con le Tentazioni del Santo. Al centro si vede Antonio in meditazione, che con la mano benedicente indica una piccola cella dove vi è un’immagine del vero Cristo, mentre alle sue spalle si sta svolgendo una messa sacrilega celebrata da  cinque sacerdotesse, tra cui una di colore e che porta un vassoio dove un rospo, simbolo di stregoneria ma anche di lussuria, regge un uovo; e poi compaiono ancora un suonatore vestito di nero con la faccia di maiale e una civetta sulla testa, e uno storpio, che si apprestano entrambi a fare la falsa comunione. Ancora sullo sfondo vi è una città in fiamme legata alla leggenda del santo protettore dalle fiamme e dalla malattia che porta il suo nome, ossia proprio il “fuoco di Sant’Antonio”. Ed il pannello principale, sia a sinistra che a destra, pullula ancora di demoni e mostri di ogni sorta su cui è impossibile dilungarsi.   Infine, nel pannello di destra vi è la Meditazione del Santo. E subito in primo piano una donna nuda, che si affaccia da un troco cavo sormontato da una tenda rossa a mo’ di baldacchino, offre il suo corpo tentatore ad Antonio che però distoglie subito il suo sguardo, mentre in primo piano abbiamo ancora una tavola con del pane e una brocca di vino sostenuta da demoni nudi.

Come osserva Bernard Aikema nel Catalogo della mostra:

«Il messaggio del dipinto-o meglio uno dei possibili significati del dipinto per uno spettatore informato del XVI secolo-sarebbe perciò che Antonio aveva saputo realizzare una perfetta sequela Christi in un mondo ostile, diabolico, offrendo un modello di vita particolarmente suggestivo al fedele in cerca della salvezza. Un mondo diabolico; Bosch usava vari stratagemmi pittorici per denunciare la falsità di Satana, fra i quali quello dell’inversione. L’esempio più lampante è il gruppo a destra della tavola centrale, che presenta un vecchio che accompagna una strana figura di donna pesce con un bambino, montata su un topo gigantesco; il riferimento irriverente, provocatorio e “alla rovescia” è, in tutta evidenza, alla fuga in Egitto».

L’altra opera su cui intendo soffermarmi è l’incisione di Marcantonio Raimondi Il Sogno di Raffaello, che ho già analizzato in un breve testo che intendo qui riprendere (Introduzione a uno studio sulle interpretazioni artistiche dei sogni, in Medicina nei secoli. Arte e scienza 212, 2009).

In realtà la stampa appartiene ancora al periodo veneziano di quello che in seguito sarebbe diventato il principale incisore delle invenzioni raffaellesche e si tratta di un’immagine complessa e non ancora del tutto chiarita, non ostante i numerosi studi che l’hanno presa in esame. In primo piano sulla sinistra abbiamo due figure nude di donna, dormienti, con alle spalle un picco roccioso che sembra quasi proteggere e isolare le giovani, mentre sulla destra pullulano una serie di animaletti e insetti mostruosi; al centro vi è un fiume solcato da alcune barche e ancora a sinistra alcuni edifici in fiamme da cui fuggono numerose figurine in controluce, evidente allusione all’incendio di Troia e in particolare all’episodio di Enea ed Anchise; infine nel fondo, sotto un cielo carico di nubi e strani squarci di luce è ancora raffigurata una città con monti, torri e mura di cinta. Diciamo subito che alcune spiegazioni troppo dettagliate, come quella di Artlaub sul sogno di Ecuba che presagisce la fine di Troia, o quella di Calvesi che vi vede gli incubi di Didone affiancata alla sorella di Anna mentre presagisce l’abbandono di Enea per quanto ingegnose, non trovano nessun riscontro nel nostro foglio.

Diversa è l’intuizione calvesiana, supportata da F. Gandolfo, circa il sostanziale sostrato ermetico-alchemico come elemento portante dell’opera. Ma anche di questa intuizione i due studiosi non forniscono alcuna dettagliata spiegazione, anzi ignorano l’elemento decisivo che l’avrebbe corroborata al di là di ogni ragionevole dubbio. Si tratta degli edifici turriti sulla destra della scena, che sono una evidente trasposizione in chiave alchemica dell’athanor o forno alchemico, così descritto dal Pérnety:

«In termini di chimica volgare è un fornello avente forma di quadrato lungo, presso il quale vi è una torre comunicante con uno dei lati per mezzo di un tubo … Gli si è dato il nome di athanor per analogia col fornello segreto dei Filosofi».

In definitiva si tratta del luogo simbolico dove avviene la trasmutazione della materia, quindi l’intero processo alchemico. E nell’incisione troviamo proprio un edificio a forma di “quadrato lungo” con accanto una torre dalla quale fuoriesce del fuoco; ed il primo edificio ha anche sei gradini che diventano sette calcolando la piccola porta che gli dà aria ed è inutile qui sottolineare il valore simbolico del numero sette nell’immaginario alchemico: 7 pianeti, 7 regni, 7 operazioni, 7 metalli, 7 giorni e via dicendo.

A proposito dell’incendio di Troia, poi, è ancora il Pérnety a ricordarci che l’assedio della città altro non è che un’allegoria delle operazioni dell’Opus. Nell’incisione troviamo ancora i quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco e numerosi altri simboli alchemici su cui non mi posso dilungare come il fiume, la porta, le nuvole, per non parlare di almeno un paio degli animaletti in primo piano che potrebbero anche alludere ad una versione caricaturale e “mostruosa” del basilisco, ossia quella creatura mitologica che aveva il potere di uccidere o pietrificare con un solo sguardo e che in alchimia allude al mercurio dei filosofi.

Per concludere, al di là di alcuni elementi da approfondire, questa incisione va intesa come una raffigurazione simbolica dell’intero processo alchemico, partendo appunto dalla notte, dal sogno, cioè dalla fase della nigredo, cui alludono anche le nubi scure del cielo e finendo col suo coronamento finale, ossia la rubedo o opera al rosso, simboleggiata dal fuoco e dai fasci di luce disseminati qua e là, come una sorta di rebus, lungo l’intera incisione. Quindi le due donne dormienti poste una di fronte all’altra in modo perfettamente speculare e che a ben vedere sono la stessa immagine replicata due volte, se si accetta l’andamento circolare della scena, staranno proprio a simboleggiare l’intero processo alchemico e la sua continuazione all’infinito. Processo evocato in modo assolutamente positivo dal Raimondi ed in modo invece molto probabilmente negativo da Bosch, ma che ha costituito uno dei cardini di quell’altro rinascimento di cui si occupa appunto la mostra milanese.

Venendo all’altra mostra milanese, quella su Max Ernst, curata da Martina Mazzotta e Jürgen Pech. è inutile sottolineare il sostrato ermetico ed alchemico che sottende tutta la parabola artistica di questo pittore in particolare e dello stesso Surrealismo in generale, come è stato evidenziato di recente nella mostra Surrealismo e Magia. La modernità incantata (Venezia, Collezione Peggy Guggenheim, dal 9 aprile al 26 settembre 2022). E tra gli autori preferiti del fondatore del Surrealismo, André Beton, si trovano tra gli altri l’alchimista francese trecentesco Nicolas Flamel, e poi ancora Paracelso, la Cabala, Alberto Magno, Cornelio Agrippa. Anche Max Ernst è stato affascinato dall’immaginario alchemico, rendendo manifesta questa sua propensione con La vestizione della sposa della Fondazione Guggenheim di Venezia (si veda “Finestre sull’arte” dell’11/04/2022):

«metafora della “preparazione dei reagenti per le nozze chimiche”, come spiega Will Atkin: “il matrimonio dello sposo e della sposa è suggerito grazie all’unione della veste rossa del Re e del corpo femminile nudo della Regina bianca”. Le nozze alchemiche, o nozze chimiche, sono simbolo di unione e di trasformazione, poiché l’unione del Re e della Regina alchemici, che rappresentano gli opposti, diventano protagonisti di diverse opere surrealiste».

Come e più ancora che per Bosch non posso sintetizzare in poche frasi questa grande esposizione contenente oltre 400 opere tra dipinti, sculture, disegni, collages, fotografie, gioielli e libri illustrati e posso solo consigliare il lettore del mio articolo che non si sia ancora recato a palazzo Reale di visitare le mostre di Bosch ed Ernst una dopo l’altra per cogliere proprio quel sostrato ermetico e visionario che le unisce al di là delle evidenti differenze di epoche e stili. Tra i moltissimi quadri (alcuni provenienti proprio dalla Fondazione Bayeler da me già citata nel mio articolo precedente) mi piace indicare al volo l’Oedipus Rex (1922); i frammenti della casa di Eaubonne (1923); Il bacio (1927); La foresta (1927-28); Uccello-testa (1934-35); La città intera (1936-37); L’angelo del focolare (1937), Sogno e rivoluzione (1945-’46), Progetto per un monumento a Leonardo da Vinci (1957).

Concludo con le parole finali della brochure di presentazione della mostra:

«Come in una grande Wunderkammer, e in analogia con l’universo di Max Ernst, la mostra e il volume che l’accompagna sfidano i visitatori a cimentarsi in affascinanti e intriganti giochi di percezione tra stupore e meraviglia, ove logica e armonia formale si accompagnano a enigmi impenetrabili, ove opere, tecniche e costellazioni di simboli conducono oltre la pittura».

Sergio ROSSI Milano 15 Gennaio 2023