Venezia, basilica di San Marco. Una storia romanzata di mosaici e mosaicisti

di  Lev M. LOEWENTHAL

Petruzza Musiva

«Veni, veni, mira la petruzza chi tutturi serba la dulzuri d’alighe e fa languiri… ».

Sussurrò Felice al suo Gaiuzzo, poi, con un sorriso bonario, si addormentò per sempre, con quella serenità pinta sul viso beato.

Rimenbra di sou statu!”, l’ammonì la madre, prima che Gaio prendesse dalle mani del vecchio la petra, grande quanto un’ungula.

L’aveva raccolta, Felice, quando aveva ancora vent’anni, tra i ciottoli della scogliera della sua isola. L’aveva raccolta sotto a quei fiori gialli, belli a vedersi assai, sì, ma spinosissimi. Era tornato con le mani sanguinanti. E sempre avrebbero buttato sangue, nel lavorarla, tutta la vita.

La notte, era come se la pietra s’addormentasse e si facesse molle molle, ma Felice mai volle svegliarla e preferì tribolare lui, per non far patire quella. Le diede la forma che lui immaginava avesse l’isola sua, che s’era staccata dalla terraferma e s’era lasciata cadere nella schiuma delle onde e i flutti, con il loro peso salato, le avevano triturato le coste.

Venezia, basilica di San Marco, arcone della Passione, Anástasis. Dafnì, katholikon

Gaio sapeva che, alla morte del vecchio Felice, a lui sarebbe toccato il compito di dare, alla pietra, il colore. E il colore doveva essere quello dell’increspatura del mare, sotto lo sfolgorio del sole, con una lieve sfumatura, che avrebbe dovuto ricordare l’ombra densa dei vicoli dell’isola che suo padre aveva dovuto abbandonare, per venire ad esercitare in Venezia la sua arte, insieme a mastro Manuele Comneo, suo conterraneo e amico. L’ombra di quei vicoli che lui non aveva visto mai, ma che aveva nel sangue. Vicoli, dove i raggi del sole, per entrare, di nascosto, devono scivolare lungo i muretti freddi, per ritrovarsi a giocare col buio, lì, sull’isola lontanissima, dove i gabbiani si nascondono tra le feritoie delle mura e tra le cui scogliere dormono le tortore selvatiche e i sassi bianchi, molli molli.

Gaio così fece, per molti anni. Poi con stupore un giorno s’accorse d’aver trovato la giusta mistura di turchiniccio, terebinthina e celestina. Sapeva che, da quel giorno, sebbene avesse ancora figli piccoli, poteva morire in pace; perché il suo compito era ultimato. Sorrise…

«La clarità xè tanta ch’ela reten en sì, che nocte no ghe ven, ma sempro ghe sta dì … ela xè tanto rodolenta, che millo meia e plu lo so odor se sente e xè plu du1çe che mel, né altra cosa mai»,1
Venezia, basilica di San Marco, Anástasis.

disse una sera Frate Giocondo, che da bambino, essendo il primogenito, aveva ricevuto la petruzza alla morte del padre, Gaio, che era caduto da un’impalcatura dell’arcone della “Passione“, in San Marco. Lo disse mentre era assorto in preghiera, stringendo la scheggia.

Nel pronunciare quelle parole, Frate Giocondo seppe perché suo nonno e suo padre avevano tanto lavorato a quella tesserina, che odorava di alghe e di miele e aveva la forma dell’isola e il colore del mare. A lungo si era chiesto come fosse stato possibile che due uomini avessero dedicato la vita a plasmare e colorire un sasso. Improvvisamente capì.

Venezia, basilica di San Marco,  Mosaico Dorato

Si recò in San Marco, dove più nessun compagno del padre, mosaicista, riconobbe in lui quel bimbo che guardava con la bocca aperta le cupole, le arcate, le pareti, su cui luccicavano pietruzze smaltate e dorate, rosse, verdi, argentate, che davano forma a uccelli e pesci, e a torri, ad angeli e a santi e a profeti.

Salì lui stesso sulle impalcature, che tanto aveva odiato, quando non avevano più voluto sostenere il peso di suo padre, Gaio. Controllò di persona tassello per tassello, e fu proprio come aveva immaginato, ché alla veste di Cristo Nostro Signore mancava una tessera, proprio accanto al cuore. Guardò ancora una volta la petruzza odorosa, grande quanto un’ungula, dalla forma dell’isola e dal colore del mare e la mise lì, per sempre al suo posto.

 Lev M. LOEWENTHAL, Lugano 18 aprile 2021

Nota

1 “È tanta la lucentezza ch’essa ha in sé, che non è mai notte, ma è sempre dì … essa è tanto profumata che il suo odore si avverte da mille miglia e più ed è più dolce del miele e dì qualsiasi altra cosa”.