Valadier alla Borghese, una speciale alchimia tra opere e ambiente suggella il successo di una grande esposizione

di Massimo FRANCUCCI

È decisamente bella la mostra curata da Anna Coliva

apertasi da poco in Galleria Borghese e dedicata alla figura eclettica di artista di Luigi Valadier, nato a Roma da Andrea, orafo francese trapiantato nella Roma settecentesca, e padre di Giuseppe, figura centrale del rinnovamento dell’Urbe nel momento di transizione tra i due secoli. Luigi è stato infatti protagonista del passaggio tra rococò e neoclassicismo e tra gli artefici più importanti della trasformazione del Casino Borghese al Pincio, sotto la regia di Antonio Asprucci, al servizio di Marcantonio IV Borghese.

Per quanto detto sarà chiaro il perché la mostra si integri perfettamente con l’ambiente che la ospita creando una speciale alchimia che ci illude, facendoci pensare che quelle opere magistrali, siano esse sculture in bronzo, gioielli delle più disparate dimensioni, marmi pregevolmente lavorati, frequentino abitualmente quelle sale. Ma ciò è vero solo in parte, per i celebri tavoli dodecagonali, per alcune colonne marmoree, per la decorazione del bel camino in marmo bianco, e soprattutto per la splendida Erma di Bacco che, come ricorda giustamente la curatrice, si presenta quale incunabolo dell’arte neoclassica. E non è un caso se un precoce testimone dell’importanza di questa sofisticata creazione in cui i materiali più preziosi – ossia il bronzo dorato della testa, l’alabastro rosa del fusto antico, il marmo bianco e nero di Aquitania e africano verde degli inserti – contribuiscono a formare una perfetta amalgama, sia stato Antonio Canova, che seppure ignorandone l’autore la definiva “di una gran bellezza”.

D’altra parte anonimo l’artefice è rimasto fino ai fondamentali studi di Alvar González-Palacios che ha trovato tra le carte dell’artista quelli relativi a questo fantastico ensemble. Canova, l’artista principe di quel movimento artistico cui il pensiero di Winckelmann aveva conferito solide basi teoriche riconosceva l’importanza dell’Erma, che egli poteva ancora ammirare nel palazzo di famiglia al Campo Marzio, nella stessa sala in cui il celebre Ermafrodito ora al Louvre, con la sua perfetta integrazione nel restauro beniniano, avrebbe potuto eclissare Valadier agli occhi di un fautore del ritorno all’arte classica.

Il principe Borghese fu tra i più puntuali mecenati di Luigi, cui commissionò un mirabile servizio di argenteria, di cui sono noti pochissimi pezzi, cinque in mostra, poiché lo stesso Marcantonio fu costretto a disfarsene per pagare gli oneri previsti dal Trattato di Tolentino. Sarebbe stata questa la fine di un’era e di un periodo di relativa tranquillità per lo Stato della Chiesa e che di lì a poco avrebbe visto Camillo Borghese sposare la sorella di quello che l’antica nobiltà dei Borghese avrebbe dovuto considerare un parvenu, ossia Napoleone. Questi avrebbe in seguito costretto l’illustre cognato a cedergli i “gioielli di famiglia”: la collezione di antichità. Marcantonio non fu testimone di quella “incancellabile vergogna”, al contrario di Canova che cercò inutilmente di dissuadere l’imperatore dal suo intento. Del Gladiatore Borghese, dell’Ermafrodito, dell’Apollo tauroctono e di altri capolavori dell’arte antica Luigi Valadier era stato incaricato da Gustavo III di Svezia di realizzare delle copie in bronzo in scala ridottissima, ma sufficiente a dimostrare le grandi capacità dell’artista nella ‘statuaria’. A tal proposito in mostra figurano il bell’Antinoo oggi al Louvre, dalla collezione del conte d’Orsay, un’altra copia dall’antico, mentre ispirato ad un passato più recente è il San Giovanni Battista dal Battistero lateranense, orgogliosamente firmato dall’artista, esemplato su un precedente ligneo, un tempo ritenuto di Donatello.

È ora possibile ammirare al meglio le qualità del modellato, avendo un restauro effettuato con una modalità spettacolare ma poco sensata, ossia coram populo, ridonato lo smalto delle origini al bel bronzo così come alla doratura del cartiglio. Ai Valadier i Borghese si erano rivolti in primis per la decorazione della cappella di famiglia in Santa Maria Maggiore, figurano le preziose carteglorie ora nel museo della basilica, da cui viene anche il bel medaglione opera di collaborazione tra Giuseppe Valadier e Giuseppe Spagna, che ne avrebbe preso la bottega, mentre dalla cattedrale di Monreale provengono le stupefacenti sculture che già avevano fatto mostra di sé nella mostra dedicata a Luigi lo scorso anno alla Frick Collection di New York.

 

La raffinatezza di questi manufatti, commissionati dal cardinale Domenico Orsini, li rende paradigmatici della tendenza classicizzante di quello che è comunemente definito il barocchetto romano. Si potrebbero spendere ore a contemplare ciascuna statua, osservando i diversi modi di conferire personalità ai santi maggiormente venerati nella chiesa siciliana, ma bisogna lasciare spazio ad altri capolavori della produzione sacra di Luigi e all’apice indiscusso della mostra: la lampada ad olio e i due candelabri commissionati a distanza di quattro anni da Don Diego Juan de Ulloa per Santiago de Compostela. Ogni finitura è qui condotta al limite del perfezionismo maniacale,  un’attenzione per il piccolo dettaglio che convive con la maestosità delle dimensioni dell’insieme che supera i tre metri di diametro.

Prima di lasciare Roma, la lampada fu concessa all’ammirazione dei fedeli e degli intenditori a San Luigi dei Francesi, nei cui pressi si trovava la bottega di Andrea Valadier, da poco ereditata da Luigi, mentre i candelabri furono ammirati nella nuova officina in via del Babuino. Sono ora tornati per i poco più di tre mesi della mostra e, potendoli osservare da distanza ravvicinata, sembra che lo stupore che se ne ricavi sia lo stesso di poco più di due secoli e mezzo fa, quando questi strepitosi manufatti rappresentavano quanto di più avanzato potesse realizzare l’arte orafa europea. D’altra parte pare che a Parigi, la capitale dell’oreficeria del Settecento, Luigi si fosse perfezionato in un soggiorno risalente al 1754.

Dalle dimensioni mastodontiche degli argenti galiziani possiamo passare in un balzo alla minutezza e al gusto squisitamente antiquariale col quale, con rispetto per i canoni dell’arte del mondo antico e, “con molta fatiga”, Luigi ha saputo dare degna cornice al cammeo di Augusto, giunto nelle collezioni pontificie dalle raccolte Carpegna allorché Pio VI incaricò il nostro di un tanto impegnativo lavoro. La pregevole commistione di pietre e metalli non ha mai fatto ritorno in seguito alle requisizioni napoleoniche, creando persino imbarazzo, una volta in Francia, sulla valutazione dell’insieme quale capolavoro dell’antichità o eccellenza moderna. In effetti la scelta di elementi come l’aquila o gli schiavi simbolo dei trionfi augustei è perfettamente coerente con la propaganda imperiale che aveva connotato così fortemente l’arte al tempo del principe.

Il modo di guardare all’antico stava in ogni caso cambiando rispetto all’immaginario piranesiano, chiaramente sotteso nei deser di Luigi, e di lì a poco l’età napoleonica avrebbe dato vigore e impulso alla prosopopea regale. La riscoperta di Pompei poteva essere miniaturizzata e ridotta a centrotavola per la regina di Napoli Maria Carolina come il raffinato Tempio di Iside realizzato da Carlo Albacini, con la collaborazione di Giuseppe Valadier, sta a dimostrare. Con la nomina di Gioacchino Murat la minuziosa riproduzione dell’edificio antico fu ripensata come dono al nuovo regnante.

Come si sa, nonostante la caduta di Napoleone la restaurazione non fu mai completata e ciò che si prospettava era una nuova epoca. Luigi Valadier non ne ha fatto parte: afflitto da debiti, da crediti difficilmente esigibili, scosso per la morte di uno dei suoi più generosi committenti, il Bali di Breteuil e tormentato dalle difficoltà della fusione della campana di San Pietro il 15 settembre 1785 si era “buttato a fiume”.

Si concludeva così in maniera tragica la vita di un uomo di successo, ricercato dalle più importanti personalità e committenti dell’epoca e finalmente celebrato nella dimora di uno di essi: il casino Borghese di Marcantonio IV.

Massimo FRANCUCCI     Roma  10 novembre 2019