“Un’anima pittorica soffusa di malinconia …”; Norma Mascellani. Segreti dal Novecento, a Palazzo d’Accursio (fino al 5 febbraio)

di Beatrice BUSCAROLI

“Ma il fascino, ambiguo e struggente, di Venezia risiede nella sua fisicità anfibia, o piuttosto nella rappresentazione che Norma Mascellani ha fissato sulla tela? È la domanda, affettuosa, che Cesare Zavattini si pone, presentando un ciclo pittorico dedicato alla città lagunare dall’amica e sodale”

(insieme avevano dato vita nell’immediato secondo dopoguerra al “Premio Suzzara”) nel 1997.

Norma Mascellani. Segreti dal Novecento, ospitata a Palazzo d’Accursio fino al 5 febbraio 2023 (a cura di Francesca Sinigaglia), può aiutarci a fornire una risposta. Oltre 100 opere testimoniano la vivacità e la profondità di un’artista che ha attraversato in modo solo in apparenza distaccato decenni cruciali del secolo scorso: allieva di Giorgio Morandi, amica di Augusto Majani, di Giovanni Romagnoli, di Alfredo Protti e di Guglielmo Pizzirani, agli esordi, Norma Mascellani si concentra sull’universo intimo e domestico, ritrae interni silenziosi, composizioni di fiori, figure femminili.

Scrive Rezio Buscaroli nel 1937:

“L’ anima pittorica della Mascellani appare confinata in una lirica soffusa di malinconia, se non tristezza, fatta di un canto basso, a rime tenui e candide, a ritmi misurati e pacati. Con che si vuol dire solo che l’epica, il dramma, il vigore dello sguardo e l’amore a rigide strutture sono le fonti più lontane dalla sua intuizione; non si vuol certo negare la “vis”, la “concitatio” ai modi espressivi di questa pittrice. Se non ci fossero quel forte impegno, di cui s’è detto, non potrebbe sussistere. Nell’arte della Mascellani è anzi una calda passionalità, che tu puoi cogliere immediatamente dinanzi a questi quadri, nella calda effusione dei colori, nella morbidezza e quasi sfaldatura del modellato, nelle cadenze ripiegate degli atteggiamenti delle figure, esse stesse così commosse e gravi. Perfino là dove un “soggetto” particolare potrebbe condurre ad alcunché di spigliato e caricaturale, la sfera delle emozioni della Mascellani rimane puramente visiva e quel che la interessa è, se mai, l’ammasso di cenci, la povertà dell’ambiente come accordo di colori, non certo intenzioni moraleggianti e pratiche”.

Eppure, verso la fine degli anni Trenta, avviene una maturazione: la pennellata più corposa, osserva e incalza il soggetto in posa, tutto sembra farsi più concentrato.

“Se da un lato la visione sembra sprofondare in anfratti d’ombra – scrive Flavio Caroli nel 1996 – (come in Carline e conchiglie, 1942), d’altra parte, pur in un ductus accentuatamente materico, la pittura conosce improvvise accensioni di colore di luminosità; talché il bel pomeriggio assolato de Il mio giardino, 1942, o la luce fremente di Bambina col gatto, 1942, o lo spirito bizzoso di Tapai, 1943, sono vere e proprie squisitezze ottiche da segnalare fra le perle di un tempo confuso e di trapasso”.

Questo ha a che fare con la formazione dell’artista; una formazione solida, che riverbera nella sua pittura. Non solo Morandi, ma anche il secessionismo sensuale di Alfredo Protti, la cui ricerca – per quanto ispirata all’intimità della vita domestica – si nutre di esperienze formali vicine a quelle di Renoir, Klimt e Matisse; e, forse, soprattutto, Giovanni Romagnoli, che ama

“le cose un poco scolorite dal tempo … e mi piace indugiare in queste preferenze oggi proprio nel tempo della pittura di violenza e di forza, nel tempo dell’urlo, dell’acciaio e della macchina”.

E allora i riferimenti sono Vuillard e Bonnard.

Bologna è un cantiere singolare, che con estrema moderazione sonda molti fronti dell’avanguardia artistica. Preferendo una sorta di silenzioso ma permanente confronto tanto con la propria tradizione, quanto con le esperienze post-impressioniste che maturano in Europa.

La pittura di Norma Mascellani è figlia di questi confronti, ma rinuncia all’urlo, all’esaltazione della velocità e della macchina, così come agli sforzi di assemblare in una “corrente” le poetiche che, con discrezione, si vengono definendo.

Il decennio successivo e gli anni Sessanta, che vedono a Bologna lo svolgersi di una epica e confusa vicenda “informale” – da Ilario Rossi a Pompilio Mandelli, da Giovanni Cingottini a Aldo Borgonzoni, da Sergio Romiti a Vasco Bendini a Luciano Minguzzi – , eco dell’ ultimo naturalismo caro a Francesco Arcangeli, sembrano ad alcuni critici consegnare la pittura di Norma Mascellani a un limbo di incertezza, quasi la sua trama si fosse inaridita. Ma sarebbe interessante – e opportuno – verificare e porre in “paragone” la sua vicenda con quella di due altre protagoniste della scena bolognese di quegli anni, Lea Colliva e Lidia Puglioli. E scoprire le differenze, ma anche le similitudini, della risposta artistica offerta da quelle donne orgogliose, determinate e solitarie. Tutte donne concrete, dedite al “mestiere”, eppure legate a valori non necessariamente conciliabili tra loro. E, ancora, rendersi conto che uno degli scogli con il quale fare i conti è ancora Morandi.

Comunque sia, nel corso degli anni Sessanta le composizioni dell’artista, fiori o paesaggi, assumono forme che si svincolano da indugi descrittivi; la gamma cromatica si alleggerisce; luci opache, diffuse.

Per dirla ancora con Caroli:

“Perfezione ottica di ciò che è strutturato, architettato, e quindi incomprensibile; fisica della metafisica; palpito della perfezione, ma di una perfezione interamente realizzata e percepita in questo mondo; dai lampi né emendati né ingentiliti di ciò che il visibile offre: dell’ordine estremo che lo regola, purché si sappia percepirlo”.

Una luminosità cupa resa possibile da un uso sapiente della materia-colore, sia nei paesaggi, sia nelle nature morte.

“In certe Venezie – sottolinea Vittorio Sgarbi nel 1992 – tra le fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, la memoria di Morandi sembra dibattersi con l’ombra, il fantasma evocato, per qualche attimo riapparso, di Francesco Guardi. … Per segnare il passaggio tra queste due epoche, la Mascellani ha scelto questo effetto di velo, di dissolvenza”, come si rende evidente nella serie, tutta mentale, dell’ Infinito.

La verità in pittura è, alla fine, uno spettro, che va indagato con occhi severi e, se possibile, distanti. Diversamente il rischio è di trasformare l’arte stessa in un fantasma.

Beatrice BUSCAROLI  Bologna 22 Dicembre 2022