Una regia fuorviante per l’opera “Da una casa di morti” di Leoš Janáček per la prima volta a Roma       

di Claudio LISTANTI

      

Al Teatro dell’Opera di Roma è andata recentemente in scena una produzione dell’opera di Leoš Janáček Da una casa di morti (titolo originale Z mrtvého domu). Per la vita artistica e musicale della capitale è stato un vero e proprio avvenimento in quanto questo capolavoro del musicista ceco è giunto per la prima volta sulle scene del massimo teatro lirico romano.

Fig. 1 Il compositore Leoš Janáček in una immagine del 1914.

Ciò è avvenuto grazie ad un progetto triennale rivolto all’approfondimento di tre opere tra le più importanti della non cospicua produzione operistica di Leoš Janáček, che ha seguito il successo di Káťa Kabanová della stagione 2021/2022 e precede, l’altrettanto importante rappresentazione di Jenůfa prevista per la stagione 2023/2024.

Una iniziativa culturale, questa, messa in atto dagli organizzatori del Teatro dell’Opera che soddisfa le aspettative dei numerosi appassionati della musica di origine slava che, non solo qui a Roma ma anche nel resto d’Italia, rispondono sempre con entusiasmo a tali proposte.

Accanto alla scelta di carattere ‘musicale’ il Teatro dell’Opera ha affiancato anche quella, altrettanto attraente, di carattere visivo proponendo l’allestimento predisposto da uno dei registi più apprezzati di oggi, il polacco Krzysztof Warlikowski, Leone d’Oro della Biennale Teatro a Venezia, coprodotto con la Royal Opera House Covent Garden di Londra, il Théâtre de La Monnaie di Bruxelles e l’Opéra national de Lyon. Con l’occasione Warlikowski ha debuttato sulle scene operistiche italiane. Nel contempo le rappresentazioni di questo capolavoro di Janáček hanno fatto registrare un altro debutto italiano, quello del giovane direttore bielorusso Dmitry Matvienko, molto apprezzato a livello internazionale dopo le vittorie, nel 2021, del Primo Premio e il Premio del Pubblico alla prestigiosa Malko Competition di Copenaghen.

Fig. 2 Da una casa di morti. Una scena d’insieme © Fabrizio Sansoni-Opera di Roma 2023.

Da una casa di morti (Z mrtvého domu) è l’ultima opera di Leoš Janáček che la scrisse nel periodo 1927-1928 ma che fu rappresentata postuma in quanto il compositore ceco concluse il suo percorso terreno proprio nel 1928, il 12 agosto, mentre la prima rappresentazione ebbe luogo nell’aprile del 1930 presso il teatro di Brno.

L’ispirazione musicale fu trovata da Janacek nel romanzo di Fëdor Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti (Zapiski iz mërtvogo doma) opera letteraria del 1861 di carattere ‘autobiografico’ con il quale lo scrittore russo descrive gli orrori e le miserie dei campi di lavoro siberiani dell’epoca zarista in uno dei quali lo stesso Dostoevskij fu imprigionato per quattro lunghi anni per le sue idee socialistoidi e per il suo coinvolgimento nel Circolo Petraševskij, organizzazione convintamente antizarista.

Lo stesso musicista ne preparò il libretto operando però ad una corposa semplificazione per modellare il testo alle esigenze del teatro per musica e renderlo più sintetico e agile. Sotto la stretta sorveglianza delle guardie e del direttore del carcere si intravvede una moltitudine di detenuti ognuno con una storia personale spesso foriera di nostalgia del passato e di ricordi della vita che fu, dove non mancano atti di violenza e episodi ‘camerateschi’. Ma c’è anche il contrasto tra il detenuto ‘politico’ rispetto a coloro che si sono macchiati di reati comuni, un contrasto certamente determinante per l’esperienza siberiana che segnò indelebilmente la vita di Dostoevskij per spingerlo alla stesura delle Memorie.

Fig. 3 Da una casa di morti. Caves (Grande Prigioniero), Margita (Filka), Zeman (Nikita) © Fabrizio Sansoni-Opera di Roma 2023

L’opera nel complesso si può considerare un affresco a tinte vivaci di questo caleidoscopico ambiente umano dove, certo, c’è un annientamento dell’animo umano che fa sembrare ‘morti’ questi personaggi che in definitiva mostrano, però, una certa vitalità interiore che li rende esseri umani a tutti gli effetti con la loro storia, i loro affetti, la loro famiglia e la loro tradizione sociale e religiosa.

Leoš Janáček ha concepito una partitura vibrante e di grande effetto che, come la sua poetica musicale mette sempre in evidenza, è imperniata sulla musica popolare e la musica etnica, caratteristica spesso irrinunciabile per tutti i compositori di scuola slava, quasi a rafforzare le già solide radici che legano i personaggi alla loro terra d’origine. Tutti caratteri sapientemente esaltati da una orchestrazione raffinata, a volte anche potente, che riesce a seguire e sostenere con efficacia lo svolgimento dell’azione.

Il tutto sottolineato da una linea di canto quasi del tutto priva di melodia per presentare un lungo e stringente declamato che rende fruibile l’azione a patto di conoscere la lingua con la quale è stata musicata l’opera, in questo caso la lingua ceca, fatto che, purtroppo, ne rende complicata la comprensione limitandone seriamente la piena fruizione impedendo all’ascoltatore di percepire l’opera nel suo pieno splendore, anche i presenza dei sempre più usati ‘sovratitoli’ che, però, per un’opera lirica di queste caratteristiche, risultano poco efficaci.

Fig. 4 Il regista Krzysztof Warlikowski © Maurycy Stankiewicz.

Per quanto riguarda la messa in scena, come già detto, c’era il contributo di uno dei registi più in vista del momento, il polacco Krzysztof Warlikowski. Come tutti i registi d’oggi, anche Warlikowski è andato alla ricerca della novità a tutti i costi, tradendo sul nascere quanto creato, e desiderato, dall’autore. Non abbiamo avuto i lager zaristi che, in quanto a ferocia, non sono stati secondi a nessuno, mentre ci siamo trovati di fronte ad una scena che evocava le attuali prigioni statunitensi molto spesso rappresentate nelle diverse serie televisive costruite su sfondi di questo tipo. È risultata una scelta banale, per nulla innovativa, sicuramente fuorviante dalla drammaturgia voluta da Janáček, dove l’umanità dei personaggi ed il relativo spirito reattivo verso la detenzione si annullava tra giocatori di basket, televisori, mimi dall’azione scenica fuorviante, che non ha messo bene in risalto quel desiderio di libertà che emerge con forza nella scena finale.

Per quanto riguarda la parte visiva c’è da segnalare che la drammaturgia è stata curata da Christian Longchamp, mentre le scene e i costumi di Małgorzata Szczęśniak, le luci di Felice Ross, i video di Denis Guéguin e i movimenti coreografici di Claude Bardouil sono stati perfettamente in linea con l’impronta registica impressa da Warlikowski.

Fig. 5 Prove Da una casa di morti. Un momento delle prove © Fabrizio Sansoni-Opera di Roma 2023.

La compagnia di canto è risultata ben assortita e funzionale alla realizzazione della parte vocale e della sua peculiarità. Tra tutti abbiamo apprezzato due cantanti già ascoltati qui a Roma in altre occasioni, il basso-baritono statunitense Mark S. Doss nella parte di Alexandr Petrovič Gorjančikov ascoltato nel 2014 ne The Bassarids di Hans Werner Henze e il basso Clive Bayley nei panni de Il direttore della prigione del quale abbiamo ancora vivo il piacevole ricordo della sua interpretazione nella parte del titolo in Julius Caesar di Giorgio Battistelli.

Tutti gli altri personaggi ci sono sembrati efficaci nel rendere la linea vocale a loro affidata come il tenore Pascal Charbonneau nella parte giovane tartaro Aljeja e l’unico personaggio femminile Carolyn Sproule (Prostituta).

Nelle altre parti i tenori, Štefan Margita Filka Morozov, Erin Caves Il grande prigioniero, Julian Hubbard Skuratov, Marcello Nardis Kedril, Pawel Żak Il giovane prigioniero, Michael J. Scott Šapkin, Christopher Lemmings Čerevin e Colin Judson Il vecchio prigioniero. Poi baritoni, Lukáš Zeman Il piccolo prigioniero/Nikita/Čekunov/Cuoco, Aleš Jenis Il fabbro/Un prigioniero e Leigh Melrose Šiškov , ricordando doverosamente anche Eduardo Niave il prigioniero ubriaco, talento proveniente da “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma.

Fig. 6 Il direttore bielorusso Dmitry Matvienko © Daniil Rabovsky.

Il direttore bielorusso Dmitry Matvienko alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera ha fornito una interpretazione molto attenta alle asperità e alle raffinatezze della partitura, con una direzione del tutto efficace nella cura dell’espressione evitando ogni tipo di eccesso sonoro che una partitura come questa può suggerire. Da segnalare anche la prova del Coro del Teatro dell’Opera diretto da Ciro Visco.

Il pubblico presente (ci riferiamo alla recita del 25 maggio) non era numeroso, a causa di un’opera forse poco popolare, ma molto attento al procedere dell’esecuzione, presentata senza intervalli e quindi più accattivante, che al termine della recita ha applaudito a lungo, e spesso con entusiasmo, non solo gli interpreti tutti ma, anche, le altre componenti dello spettacolo.

Claudio LISTANTI Roma  4 Giugno 2023