Un artista e 15 “haiku”: Marco Fioramanti, dove la creazione artistica è poesia, percezioni e immagini

di Marta ROSSETTI

Lo yūgen di Marco Fioramanti 

“Marco carissimo, tu sei, per me Paracelso, / ecco questo è tutto, con affetto. Tuo  Gian Paolo Berto”. 

Hai-K.O. di Marco Fioramanti, provocatorio gioco linguistico da leggersi “haicappaò”,

raccoglie 15 haiku a tema custoditi in un volume il cui formato – piccolo, semplice, raffinato – bene accarezza l’idea-forma del frammento lirico: il giapponese haiku.[1]

Marco Fioramanti, Hai-K.O. Haiku contemporanei, trad. giapponese di Ilaria Ingrassia, pref. di Antonio Veneziani, postfaz. di Claudio Marrucci, Vetralla (Vt) – Anzio (Rm), FusibiliaLibri, 2018.

Lo haiku (da haikai no ku, verso di genere poetico) è un componimento nato in Giappone nel XVII secolo, caratterizzato da tre versi e diciassette more, secondo lo schema 5/7/5. Esso affonda le sue radici nel waka, forma lirica del Man’yōshū (Raccolta di diecimila foglie, seconda metà dell’VIII secolo) e del Kokin waka shū (Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne, inizio del X secolo), i cui temi principali sono la natura e l’amore, e nel renga, componimento poetico a più mani, divenuto con il tempo meno cortigiano e più popolare (si pensi al noto Matsuo Bashō, 1644-1694).[2]

Su sette haiku, in particolare, si sofferma la mia attenzione, in relazione alla figura del soggetto creatore, Marco Fioramanti, e alla sua, direi, transdisciplinare esperienza artistica:

Marco Fioramanti, Come i guerrieri di Xian, linoleografia, monotipi, 15 x 10 cm, 1998.

Hai-K.O. delle visioni: È visionario / l’istante surreale / dei rimpianti

Hai-K.O. dell’immediatezza: È immobile / l’istante circolare / che ti sorprende

Hai-K.O. dell’effimero: Ognuno cerca / la propria Itaca / al di fuori di sé

Hai-K.O. del numero aureo: Sono radici / le linee sulle nostre / palme incise

Hai-K.O. del giusto sentire: Nell’incertezza / fidarsi dell’istinto / Opera d’arte

Hai-K.O. divinatorio: Leggo nel buio / i fili del destino / Trama segreta

Hai-K.O. del continuum: Il principiare / di inizio e fine / è ritrovarsi

Marco Fioramanti, L’Arca (Atto II) (Messina, Fiumara d’arte, 1990; fotografia di Carla Tavanti Chiarenti).

Essi incarnano l’hic et nunc dello haiku (ora), risolvendosi, tuttavia, nell’atemporalità dell’esperienza estetica (sempre). L’immagine d’apertura è spesso forte, categorica ed è seguita, alcune volte, da una conclusione contrariamente aperta, sfumata, generando, in alcuni casi, un’apparente illogicità, in un’aura continua di perturbante verità svelata (anticipata nel titolo di ciascun componimento). L’ora e il sempre di questi haiku sono espressi attraverso il potere vitale della parola e dell’immagine evocata, generatosi in seguito ad uno spunto folgorante proveniente dal mondo esterno e frutto comunque di un tempo di costruzione lungo e sedimentato (soprattutto perché fatto di “voci arcaiche” che parlano all’artista), nonostante la brevità – sintetica – del componimento.[3]

. Marco Fioramanti, La traccia del passaggio (Carnac, 1991; fotografia di Stefania Zaganelli).
Marco Fioramanti, Trittico dell’offerta (Roma, 1994; fotografia di RDL Empiricus).

Alcuni haiku di Fioramanti si aprono con espressioni associabili alla jokotoba (parola di introduzione) e alla makurakotoba (parola cuscino) tipiche del waka, di carattere magico-rituale ed esaltanti il potere della parola (kotodama: spirito della parola), quali “polvere d’oro”, “notte, disgrega”, “polsi legati”, “sono radici”, “leggo nel buio”. “Palme” (palma: superficie ventrale della mano; pianta) e “trama” (struttura che risulta da un intreccio; intrigo; insieme di vicende; voce del verbo tramare: tessere inganni) sono invece le kakekotoba (parola perno), ovvero parole omonime, di etimo e significato diversi. “Itaca”, inoltre, appartiene all’utamakura, termine con cui nel waka si indica l’uso di luoghi celebri (meisho). Il mitate-e (da mitateru: paragonare e da e: immagine), ovvero la sovrapposizione di più immagini visive, spesso contrapposte, è infine vivo in “Polvere d’oro / che hai sotto i piedi. / E non vederla.”, “Notte, disgrega / la luce del tramonto / fino all’alba”.

Marco Fioramanti, 2012 (fotografia di Carla Paiolo).

In primavera i fiori di ciliegio / in estate il cuculo / in autunno la luna / e in inverno la neve / limpida e gelida. (Dōgen, 1200-1253)

Luna d’inverno / uscita dalle nubi / per tenermi compagnia / è penetrante il freddo del vento / è gelida la neve? (Myōe, 1173-1232)

Anch’io varcherò / la cima del monte / luna, scendi dietro la vetta / notte dopo notte / tienimi compagnia. (Myōe, 1173-1232)

Il mio cuore risplende / di un chiarore infinito / la luna penserà forse / che quella / sia la sua luce. (Myōe, 1173-1232)

Kawabata Yasunari (1899-1972), nel commentare queste poesie lette durante il discorso Utsukushii Nihon no watashi (La bellezza del Giappone e io), pronunciato in occasione del conferimento del premio Nobel nel 1968, riporta un’affermazione dello storico dell’arte Yashiro Yukio ovvero “pensare agli amici quando è il tempo della neve, della luna, dei fiori di ciliegio”, adattandola a definizione della profonda delicatezza dell’animo giapponese e al suo rapporto simbiotico con l’eterna natura, che emerge anche dalle stesse liriche.[4] Poco più avanti, Kawabata cita nuovamente il maestro zen Dōgen (1200-1253): “Non vedi? La via dell’illuminazione si riconosce nella voce del bambù, la luce del cuore nei fiori di pesco”.[5]

Marco Fioramanti, Nome di lancia, tempera acrilica su tela grezza, graniglia di marmo di Carrara, 180 x 360 cm, 1995 (fotografia di Carla Tavanti Chiarenti).
Marco Fioramanti, Memoria del Tempo, linoleografia, 25 x 11 cm, 1997

Gli haiku di Fioramanti perdono la centralità della natura d’Oriente, acquistando, di contro, la carica antropocentrica – individualistica e collettiva – dell’Occidente. L’indeterminata “ombra” orientale lascia il posto alla nitida esattezza occidentale (Jun’ichirō Tanizaki, 1886-1965).[6] Eppure, le categorie estetiche giapponesi permangono negli haiku di Fioramanti: mono no aware (sensibilità alle cose), wabi (sobria raffinatezza, sensazione di solitudine), sabi (bellezza della sobrietà, della solitudine e del silenzio, fascino del passato), shibui (aspro, ruvido, austero) e, soprattutto, yūgen.[7] Esso è composto dai kanji e gen, ovvero “fievole, indistinto” e “misterioso, occulto”.

Fioramanti svela ciò che si cela oltre l’apparenza: il symbolon, l’arcano. Egli è dunque veggente, nel senso proprio del termine, è colui che vede, ma vede oltre il visibile: è profeta, medium. Alcuni direbbero che tale inclinazione è quella che scaturisce dalla “chiarità del cuore”, kokoro no en, condizione spirituale intrinseca alla buddità (a proposito del cuore come vita emotiva, spirito – kokoro – mi piace ricordare lo splendido Lafcadio Hearn – 1850-1904, Kokoro. Hints and echoes of japanese inner life, London, Gay and Bird, 1895).[8]

Marco Fioramanti, Golden Icon, tecnica mista su carta, stoffa, linoleum, 43 x 30 cm, 1996.

Il profilo di veggente, colmo di energia vitale, libera e transdisciplinare, è allo stesso modo quello che si delinea guardando all’intero lavoro dell’artista romano nello scorrere del tempo.

Marco Fioramanti, Incanto (Midi-Pyrénées, 1996; fotografia di Marco Fioramanti).

Studioso di ingegneria civile, estetica ed antropologia culturale, Fioramanti mira al recupero di segni, comportamenti e riti d’iniziazione delle culture extra-europee, da lui vissute, in particolar modo, in rapporto al taijiquan e allo sciamanesimo.[9] Tale profilo, quello di profeta, medium, si diffonde dalla figura di Fioramanti e l’avvolge nel suo lavoro artistico, indipendentemente dalla tecnica o dal supporto utilizzati, dalla materia scelta, dal luogo o dal tempo della performance.

Marco Fioramanti, L’Arca (Atto Finale) (Roma, Scala Santa, 2012; regia di Mauro John Capece; fotografia di Pietro Guglielmino).

Dalla fine degli anni ’70 ad oggi, la sua vita, il suo studio e il suo lavoro sono itineranti: Berlino, Barcellona, New York, Thailandia, Cina, Tibet, Marocco, Nepal, Parigi, Portogallo, Roma. Nel 1982 co-redige il Manifesto trattista (o del Primitivismo astratto) e dà vita al movimento omonimo a Roma; in seguito, a Berlino, fonda il Gruppo Multimediale Trattista Berlin (1985) e il relativo itinerante/performativo Laboratorio Olduval (1986). Nei due decenni successivi partecipa alla formazione del gruppo Cyber-Dada a Parigi (1996) e prende parte al movimento di Pittura clandestina a Roma (2000). Dal 2008 crea e dirige la rivista NIGHT ITALIA, sezione indipendente della newyorkese NIGHT fondata nel 1978 dal regista, fotografo e video artista Anton Perich, rivista nata con l’obiettivo di valorizzare ricerche progettuali in chiave monografica senza la mediazione del critico.

Fig 1

L’esempio forse più esplicito della veggenza di Fioramanti riguarda la caduta del Muro di Berlino, del quale egli simula l’abbattimento, preannunciandolo, mediante la sua Volkswagen dipinta con le forme e i colori ripetuti sul tratto di muro (40 metri) contro il quale l’autovettura è posta a contatto diretto nel 1985 (Non saremo prigionieri di nessun carcere, fig. 1).[10]

Fig 2

Assieme a quest’esempio, ve n’è un altro, Manhattan Skyscrapers (fig. 2), un elemento di legno consunto dalla combustione posto sul fondale del World Trade Center ancora intatto nel 1989 e presagente nelle sembianze le Twin Towers dopo l’attentato, presentato alla XXIV Biennale d’Arte Contemporanea di Alessandria d’Egitto nel 2007.[11] “E, ancora una volta, l’arte aveva anticipato la storia”.[12]

Nel tempo attuale, l’arte vuole divenire protagonista di una riflessione in cui, nei processi di ideazione, formazione, ed anche interpretazione, veste gli abiti della filosofia, in un sistema lontano da quello delle “Belle Arti”, ormai rare a trovarsi assieme alla perizia, alla greca téchne. Il virtuoso, oggi, non si distingue più per le sue abilità nella tecnica, quanto, particolarmente, per le sue speculazioni sulle possibilità dei linguaggi (e la riflessione si imposta sia sul punto di vista dell’ideatore-mittente che, e direi soprattutto, su quello del fruitore-destinatario, secondo un meccanismo non molto distante da quello proprio del Barocco, con la differenza che il messaggio è oggi spesso sfuggente a chi fruisce).

Marco Fioramanti, The Relic, ferro, tessuto, pigmenti, 550 x 800 x 650 cm, 2017 (Venezia Lido, 2017; frame video di Claudio Colomba).

In tale processo l’Occidente si pone in netto contrasto con il carattere dell’arte secondo la tradizione d’Oriente: qui, essa coincide con la vita etica e con la compiutezza dello spirito ed è una delle “vie” mediante le quali perseguire il perfezionamento morale. L’arte della ceramica – togeidō – è una di queste vie ed è uno degli esempi che più esplicita la netta distanza che, in campo artistico, intercorre tra Oriente ed Occidente, ove essa è considerata arte “minore”. All’interno del processo descritto, sono diversi quelli che riducono la propria produzione artistica ad una mera ripetizione del già visto, del già detto, del già conosciuto (simulando o rimuginando, insensatamente, la sparizione già avvenuta dell’arte!), in un tempo ove l’estetizzazione del mondo è ormai totale (transestetica) e ove impera un’overdose di immagini in cui non c’è niente da vedere.[13]

Ma in Fioramanti ciò non accade: egli vede attraverso lo spazio e il tempo, svelando lo yūgen con eleganza. Il suo lavoro artistico è dunque esso stesso “via” per la compiutezza dello spirito.

Marta ROSSETTI  Roma  aprile 2019

[1] Per una conoscenza globale dell’artista si leggano le due monografie: Marco Fioramanti 1983-2003, presentazione di  Pietro Montani, testo di Enrico Mascelloni, Roma, Jouvence, 2004; Marco Fioramanti. Mito-biografia 1977-2015. Il percorso, le espressioni, lo stile e un dialogo con Jean Baudrillard, a cura di Ugo Scoppetta, collana NIGHT ITALIA, 10, Firenze, Edizioni Psychodream, 2016. Marco Fioramanti, Hai-K.O. Haiku contemporanei, traduzione in giapponese di Ilaria Ingrassia, prefazione di Antonio Veneziani, postfazione di Claudio Marrucci, Vetralla (Vt)–Anzio (Rm), FusibiliaLibri, 2018, 94 pp.. La Fusibilia Associazione Culturale, in collaborazione con la casa editrice FusibiliaLibri, è impegnata nei concorsi letterari dedicati agli haiku che si concretizzano nelle antologie poetiche Haiku tra meridiani e paralleli per cura di Dona Amati (ad oggi, è conclusa la quarta stagione del concorso).
[2] L’edizione integrale italiana della seconda raccolta è: Kokin Waka shū. Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne, a cura di Ikuko Sagiyama (testo giapponese e trascrizione), Milano, Ariele, 2000. Sull’haiku si legga, per esempio, il recente Shūzō Kuki, Sul vento che scorre. Per una filosofia dello haiku. (Una riflessione sul fūryū), (1937), traduzione a cura di Lorenzo Marinucci, Genova, Il melangolo, 2012.
[3] “Un altro esempio, esterno al libro: ‘Hai-K.O. del corvo. Tu, corvo che stai. / Insegnami a stare, / prima del volo’. Resto colpito dall’inafferrabile attimo in cui il corvo si prepara a spingere le zampe contro la roccia per spiccare il volo. L’attenzione mi rapisce e mi trascina altrove, in un luogo liberatorio. Resto col corvo, nell’equilibrio instabile del suo star fermo. L’immagine dell’uccello e dei suoi movimenti che passano dal volo alla presa (e viceversa) ha una sua storia specifica, personale, che risale indietro nel tempo e precisamente a un inverno dei primi anni Ottanta. Berlino ovest, interno, giorno. Vivevo in un appartamento a Schöneberg in un palazzo anni ’30 stranamente risparmiato dalla guerra. La casa mi faceva anche da atelier e, dal tavolo in cui scrivevo o dipingevo, lo sguardo andava spesso fuori la finestra al terrazzino attiguo dove una signora anziana toglieva la neve dal muretto e poi ci lasciava dei semi o comunque del cibo per gli uccelli i quali, prontamente, arrivavano in volo e, tac!, si bloccavano sullo stretto mancorrente prima di beccare i semi. Ecco, io restavo ore incantato a seguire quella presa, a tentare di coglierne l’attimo, a cercare di capire come fosse possibile passare dal dinamismo alato a quello stop immediato, senza tentennamenti né barcollamenti. Ogni volta e per ogni passero era la stessa cosa. Tac! E si bloccava…”: Marco Fioramanti, Hai-K.O., la strategia del contemporaneo, in Marco Fioramanti, 2018, pp. 84-88, in particolare pp. 85, 86-87.
[4] Kawabata Yasunari, La bellezza del Giappone e io, traduzione di Maria Teresa Orsi in Idem, Romanzi e racconti, a cura e con un saggio introduttivo di Giorgio Amitrano, Milano, Mondadori, 2003, pp. 1237-1253, 1296-1300, in particolare pp. 1237-1240.
[5] Ibidem, p. 1247.
[6] Si confronti Jun’ichirō Tanizaki, Libro d’ombra, I edizione Tokyo, Chuokoron-Sha, 1933, edizione a cura di Giovanni Mariotti, traduzione Atsuko Ricca Suga, notizia bio-bibliografica di Adriana Boscaro, Milano, Bompiani, 1995, in particolare pp. 23, 26-27, 64, 68: “La carta, dicono, è invenzione cinese. Io posso dire soltanto che la carta occidentale altro non mi trasmette che l’impulso ad usarla; se, invece, mi chino a osservare una carta cinese, o giapponese, a poco a poco mi sento invaso dalla quiete e dal tepore. La bianchezza stessa è diversa. Se la carta occidentale sembra respingere la luce, quella cinese, o giapponese, la beve lentamente, e la sua morbida superficie è simile al manto della prima neve. È un carta cedevole al tatto, e che si lascia piegare senza rumore. È placida, delicata, leggermente umida. Somiglia alle foglie degli alberi. (…) Se dicessi che gli Occidentali fanno di tutto per asportare lo sporco dalla superficie degli oggetti, e che gli Orientali lo conservano con cura, come il più prezioso dei cosmetici, si penserebbe che intendo stupire con un’affermazione paradossale. Ma in essa v’è più di un grano di verità. Prediligiamo la patina del tempo, ben sapendo che è prodotta da mani sudate, da polpastrelli unti, da depositi di morte stagioni; la prediligiamo per quel lustro, e quegli scurimenti, che ci ricordano il passato, e la vastità del tempo. Vivere fra oggetti bruniti, e in una casa antica, ci trasmette un senso di pace profonda, e inesplicabilmente ci calma. (…) non nella cosa in sé, ma nei gradi d’ombra, e nei prodotti del chiaroscuro, risiede la beltà. (…) V’è, forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriamo loro una beltà. Al contrario, l’Occidente crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima parcella d’ombra.”.
[7] Lo haiku può essere, inoltre, veicolo d’accesso al mu (nulla) e al (vuoto); si confrontino (in lingua italiana): Ma. La sensibilità estetica giapponese, a cura di Luciana Galliano, traduzione di Luciana Galliano e Chie Wada, prefazione di Gian Carlo Calza, Torino, Angolo Mazoni, 2004; Donald Richie, Sull’estetica giapponese, Torino, Lindau, 2009; Laura Ricca, La tradizione estetica giapponese. Sulla natura della bellezza, Roma, Carocci, 2015; Marcello Ghilardi, L’estetica giapponese moderna, Brescia, Morcelliana, 2016, nonché Massimo Raveri, Il pensiero giapponese classico, Torino, Einaudi, 2014.
[8] Lafcadio Hearn, Kokoro. Il cuore della vita giapponese, I edizione London, Gay and Bird, 1895, Milano, Luni, 2007, cui di recente si è aggiunto: Idem, Giappone, postfazione di Paola Mazzarelli, Como-Pavia, Ibis, 2016.
[9] Claudio Bianchi, Luciano Cialente, Marco Fioramanti, Ubaldo Marciani, Adalberto Magrini, Sergio Salvatori (pittori), Marco Luci (vidio-maker), Manifesto trattista, Roma, 4 gennaio 1982 in Marco Fioramanti, 2016, p. 14: “Nel ‘Tratto’ noi esprimiamo il gesto più semplice, alla portata di tutti, primitivo, perciò antintellettuale. La rozzezza e l’espressività esasperata indicano su quali punti si arrocca il nostro dialogo col mondo insonnolito dell’arte e con la società (…) Tale è il nostro linguaggio: arcaico, così, in modo semplice, crediamo di esaltare i colori. Nelle opere non ha alcun significato la competizione, la loro struttura compositiva si rivela estremamente popolare ed esaltante. (…) Con il ‘Tratto’ semplice, immediato, ‘privo di cultura’, vogliamo cancellare ‘l’arte colta e sofisticata, il professionista geniale, il Maestro’ (…) Vogliamo che il Trattismo divenga l’arte di chi non ha mai compreso l’arte (…). Prima di noi sono stati Trattisti: gli indiani d’America, i popoli africani, gli aborigeni australiani, i popoli della protostoria andina.”.
[10] Marco Fioramanti, Io, pittore di quel Muro, in “Paese sera”, 22 novembre 1989, p. nn. in Marco Fioramanti, 2016, p. 27: “Sapevo che prima o poi anche io sarei intervenuto sul Muro. Attendevo solo l’occasione propizia. Alla fine di febbraio ’85 arrivò una telefonata di un regista della Rai di Milano che voleva utilizzare la mia Volkswagen dipinta per un lungometraggio sulla città. Ci incontrammo e gli proposi di coinvolgere il Muro con un intervento pittorico. Col permesso della Polizei che osservava le riprese, utilizzai quei medesimi ‘tratti’ e colori con i quali avevo dipinto la Volkswagen anni addietro. Stavamo alla fine della Schlesisches Strasse, nel profondo Kreuzberg, e li posi la macchina a diretto contatto col Muro, simulandone l’abbattimento. In quello stesso punto pochi giorni fa le guardie orientali hanno aperto una breccia per favorire il flusso di coloro che da generazioni sognavano quel momento. Era la libertà. E, ancora una volta, l’arte aveva anticipato la storia.”.
[11] Si confronti: Gemma Contin, Tre artisti italiani in Egitto, per una cultura condivisa, in “Liberazione”, 30 novembre 2007, p. nn. in Marco Fioramanti, 2016, p. 92.
[12] Si legga la nota 10.
[13] Per omaggiare Fioramanti, avvicinandomi ai suoi interessi teorici, mi esprimo con parole di Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, I edizione Milano, Politi, 1988, edizione a cura di Elio Grazioli, Milano, Abscondita, 2012; qui, il concetto di transestetica del tempo attuale è brillantemente collegato alla contemporanee transessualità e transpolitica, le quali si “estetizzano” nella pubblicità e nella pornografia, l’una, nello spettacolo, l’altra, in un eclettismo frastornante, inerte e sterile, senza più valori, giudizio e gusto (“Noi siamo ormai in un fine senza finalità, all’inverso della finalità senza fine che caratterizzava, secondo Kant, l’estetica classica. Cioè siamo in una transestetica, una tutt’altra peripezia difficile da descrivere e da circoscrivere, poiché, per definizione, il giudizio estetico vi è impossibile”: Ibidem, p. 21).