Silvana Lazzarino & Eugenia Serafini: due donne raccontano e si raccontano nei loro libri

redazione

In occasione del finissage della mostra “Nuova Balconata Romana -Uno”, curata dal critico prof. Carlo Franza, due scrittrici contemporanee presentano le loro più recenti pubblicazioni.

Data: 14 Ottobre 2022, ore 18,00

Luogo: Lo Studiolo. Via dei Marsi, 11, 00185 Roma

Interviene: prof. Nicolò Giuseppe Brancato, Presidente Dell’Accademia in Europa di Studi Superiori ARTECOM-onlus

Saranno Presenti Silvana Lazzarino e Eugenia Serafini.

UFFICIO STAMPA ARTECOM-onlus, 3471871523 http://https//:www.artecom-onlus.org

L’evento è realizzato con il Patrocinio morale dell’Accademia in Europa di Studi Superiori Artecom-Onlus”

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Silvana Lazzarino, “EUGENIA SERAFINI-l’artista che restituisce la emozioni della vita-SI RACCONTA”, Ediz. ARTECOM-onlus, 2021.

Eugenia Serafini, “Canto dell’Effimero”, Ediz. ARTECOM-onlus, 2022, poemetto bilingue italiano/romeno, traduzione del prof. George Popescu, Docente di Letteratura Italiana dell’Università di Craiova.

L’Intervista della giornalista e scrittrice Silvana Lazzarino a Eugenia Serafini, poeta/performer e artista intermediale, traccia un percorso intelligente e profondo nella scoperta del mondo della Serafini, indagando con le sue domande sul concetto e il modo di rapportarsi della stessa attraverso le arti visive e la parola con LA NATURA, I QUATTRO ELEMENTI CHE LA COMPONGONO, IL COSMO, L’IMPEGNO ECOLOGICO.

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LE ESPERIENZE DI VITA PERSONALE sono scandagliate nello scavo che la giornalista va realizzando, sui rapporti con la Romania (donde la traduzione in lingua romena del Canto dell’Effimero e tanto altro ancora), con l’insegnamento all’Università della Calabria, le personalità che hanno condiviso e arricchito le sue esperienze esistenziali e artistiche.

Dunque una operazione complessa e intelligente, questa della Lazzarino, intessuta di trame e orditi tra l’immaginazione e la realtà di una personalità complessa, fatta di infinite sfaccettature, come quella di Eugenia Serafini, assolvendo al compito non facile di restituircene una immagine almeno ricca dei suoi elementi fondamentali.

L’Intervista di Silvana Lazzarino a Eugenia Serafini

Interpretata da Carlo Franza

Questo scritto che vuole oltremodo introdurre questo libretto monografico che abbraccia tutte le forme di espressione da lei utilizzate, vuol certamente aggiungere il posto di rilievo e che occupa nel panorama della cultura artistica italiana. Eugenia Serafini ha aderito a portare avanti con nobiltà questa lettura artistica dell’esistente, questo fare arte senza perimetri, senza confini e senza frontiere, come una piattaforma celeste sempre mossa in direzione del sapere, come forma, luce e materia, sempre cariche di significati simbolici, e soprattutto come gesto artistico di indubbia matrice concettuale che ha fatto decisamente leva sulle architetture formali di ciò che è stato elevato al rango di immagine. Il suo lavoro di decenni appare oggi come una foresta che si è disposta, si è espansa e si è infittita sempre di simboli, svelando la densità storica di ogni immagine. La dimensione sacrale e spirituale di questa maturazione, spettacolo naturale-artificiale sacralizzato vive una dimensione nuova, come se la Serafini avesse, per un’intuizione antica, dato origine a una lettura del mondo e ai suoi alfabeti, tramite una riconciliazione tra imago imaginata e imago imaginans. E nel quadro di tutti gli svolgimenti e dei movimenti che si sono succeduti negli ultimi cinquant’anni nell’arte, il suo lavoro artistico, senza cedere a lusinghe e sirene, è in linea con quel detto del filosofo Bohme: “Il mondo visibile, con la sua moltitudine e le sue creature, altro non è che il verbo traboccato”. La sua arte è così possibile definirla un axis mundi che ci indica le altezze del cielo e le profondità della terra; ma anche un sapiente rivolo del mondo della natura, isolato dal fluire continuo della sua linfa vitale che tutto forma e modifica. E se nei “Fiori del Male” di Baudelaire è scritto che “la natura è un tempio ove pilastri viventi lasciano sfuggire a tratti confuse parole”, la sua arte intera è stata un’installazione sostenuta da un rapporto paritario tra il linguaggio dell’uomo e l’intera esistenza, liberando quella visionarietà dell’esistente che lega il mondo animale, vegetale e minerale in modo fluido, reciproco e primordiale.  Il giusto ruolo che le spetta di sicura protagonista dell’arte contemporanea rivive tra la memoria matissiana e le prove dell’avanguardia, ruolo piegato alle diverse necessità di racconto, ai mutamenti dada, alla nativa virtuosità coloristica.

Carlo Franza

Intervista di Silvana Lazzarino: Eugenia Serafini si racconta

di Serena D’Arbela

Sfogliando questa pubblicazione illuminante  a cura di Silvana Lazzarino (Edizioni artecom-onlus) con una testimonianza di Carlo Franza , ho ritrovato Eugenia Serafini con  la sua vita di artista  fedelissima, fatta di poesia, di pittura, di installazioni, di docenze di disegno, di impegno creativo globale. Dal testo balzano le motivazioni di una  poetica vitale che ha continuato e continua a dispensarsi ispirandosi alla natura, ”come un rivolo sapiente” dice Franza , alla memoria dei luoghi, alle vibrazioni liriche, agli spunti umani e sociali , alla sua stessa fantasia trovando via via le forme più espressive e sentite.                                                                                                                   Partita dalla ricerca di un’armonia esistenziale con la natura , schierata contro il consumismo, si volge alla sperimentazione, sostenuta da una manualità raffinata, mirando a una rappresentazione autentica degli umori e sentimenti del mondo, seguendo l’evoluzione delle  forme specchio dei tempi. Il suo percorso esistenziale nell’intreccio indissolubile con l’arte riassume uno slancio comunicativo perenne e felice fatto di parola pensiero e  segno emotivo, di ardore femminile che valica i confini interiori e solitari per provocarci e  coinvolgerci.

Serena d’Arbela

“Canto dell’’Effimero” di Eugenia Serafini

Prefazione di Elio Pecora al “Canto dell’Effimero”

effimero/ venne / da librate farfalle / gioco/canto d’amore /nel delta danubiano

L’effimero non è il nulla e l’annientamento che, nel Novecento della letteratura e delle arti, hanno occluso ogni attesa e illusione e speranza. L’effimero ha una sua durata, quella di un solo giorno, ma il giorno – come per il carpe diem oraziano – può equivalere all’eterno se vissuto nella sua pienezza che è insieme stupore e terrore, ebbrezza e disperazione. E la poesia, parola chiamata per durare, dell’effimero fa pietra incisa, soffio mutato in accento.

Eugenia Serafini non rifugge l’effimero se lo accoglie nel canto e, dunque, lo elogia, lo ferma, lo scandaglia, lo intona. E dove lo smembra fino al bisillabo, dove lo allude nel segno veloce o in uno stormo irrequieto, che altro fa se non toccarne la brevità e l’incompiutezza in questa fermandosi, e placa l’ansia nemmeno nominandola?

In un tale effimero e nella sua attentata leggerezza si muovono e si pronunciano i momenti dell’esistenza, lacerti di verità accostate. Così la pena e l’allegria, il bisogno d’amore e la sua perdita, il dubbio che consuma e il desiderio che non s’arrende, il pensiero della morte e i meandri della memoria s’intrecciano e si alternano nei versi brevi, nelle frasi in corsa per declivi di inchiostro sottile, dietro cancellature che lasciano trapelare il negato e l’incauto.

Se tutto di questo libro è un viaggio, anche un trascorrere interiore di continuo segnato da una quotidianità cercata, in ogni frase e foglio la grazia e la tenerezza, la nostalgia e il rimpianto si elidono tutti in un vagheggiare di velata melanconia («Lascia che torni / un effimero lieve / memoria di affetti / Infantili / lascia che mi abbracci / mi avvolga in / dolci carezze e / baci di madre / di padre / lascia che torni in / effimero gioco»). E tutto perviene a un segno corto e conciso che rappresenta uno stare.

L’epigrafe di Peter Handke, posta ad apertura del libro, dichiara: «La durata è il mio riscatto, mi lascia andare ed essere». Dunque, questo durare è fuori delle misure conclamate, fuori delle pretese e delle paure; e l’effimero, vacillante sul baratro, s’apre sul vuoto e respira.

Elio Pecora

PREFAZIONE AL TESTO RUMENO

Di George Popescu

L’effimero in una po(i)esis performance

Un canto dell’effimero non poteva rinunciare ad un tesoro di modalità (poetiche e insieme artistiche) atte a costituire nella filigrana un intimo rapporto SPAZIO/ SEGNO. Così infatti, come afferma la poetessa, in queste pagine di densa e originale ars poetica, l’importanza dell’atto creativo consiste nella sua integralità, dato che nella sua complessa forma grafica, esprime compiutamente questa ricerca legata al rapporto SPAZIO – SEGNO. In una simile proiezione visionario-scritturale, si reprime, al limite, l’autonomia semnificante della parola, se ne denuncia l’unicità, lasciando aperte multiple aperture per una comprensione, a sua volta, particolare-individuale, da parte del lettore in un libero confronto, e non meno ingegnoso, con il proprio codice di decifrazione.

Eugenia Serafini proprio così aveva iniziato la sua lunga e radiosa attività creativa, prima con delle performances (non mi piace il termine, preferirei quello italiano installazione, più vicino a quel movimento di poesia visiva degli anni ’70), alla quale ha premesso sicuramente anche la classica esercitazione del verso del periodo adolescente: così l’ho conosciuta, più di due decenni orsono qui, da me a Craiova, innamorata della del paese di Brancusi e di tanti altri surrealisti/tzara-isti, possibilmente avant la lettre;  cultura e bellezze delle quali ha conservato memoria in un altro libro di cui avrò l’occasione di occuparmi presto.

Strano pare proprio l’atto dell’autrice di consacrare un “canto-inno” a questo concetto, effimero, con una storia tanto antica e con vari sensi, dall’antichità fino nell’epoca post-barocca, quando era legato piuttosto alle “installazioni” architettoniche realizzate per alcuni brevi momenti e, più tardi, quando sempre nell’arte è entrata in forme di “accomodamenti ludici”, fatte per intrattenere uno spazio del gioco destinato all’estetica. Infatti, effimero, senza essere mai passeggero, fuggevole, si riferisce alla durata di una giornata oppure meno, e tuttavia niente impedisce all’autore di estrarre da esso l’essenza del quotidiano; ciò che si è insinuato nell’attimo vissuto, ritornato dall’oblio alla vita, continua a persistere interrogandoci, indagandoci, obbligandoci ad una risurrezione del rapporto che anticipavo prima: SPAZIO / SEGNO.

Di qui proviene l’atipicità di questa cardinale creazione poetico-artistica di Eugenia Serafini: un gioco tipografico, come notava una volta Maurice Blanchot a proposito del poema mallarmeano Un coup de dé jamais, per mezzo di un preciso uso degli spazi letterari. E non è un caso che l’autrice sostiene la stessa linea nella postfazione del suo libro. Così, l’effimero perde qualsiasi senso degradante, e neanche la leggerezza con la quale sempre si associa, non conservando più il tradizionale significato del linguaggio classicizzato.

“La parola – continua Eugenia Serafini nella sua autopresentazione – diventa allora un segno sul foglio, segno talora espresso talora sotteso: parola lattiginosa, rarefatta, grumosa, sfatta, parola sonante, cromatica, vellutata, giocosa”.

Questa è, mi pare, la prova di un altro modo di concepire la poesia e l’arte, accoppiarle, lasciando le vicende / i ricordi / le visioni / le percezioni conservate e riscoperte sulla retina della memoria, a restituire un vuoto in cui risuscita, oltre la sua vacuità, attimi di un vissuto, sentito con forte tensione, intersecati e fusi con maestria e tenacia e con un codice infallibile della dolcezza, dell’affetto e, anche di più, sotto il segno di una melancolia più che vivace:

ricordi /il primo ri// torno in / luce solare da / nottetempo piovosi /meriggi acuti / per freddi invernali//Eugenia Serafini non è soltanto una poetessa attiva e ammirata a Roma, dove abita e crea, organizza importanti eventi letterari in svariate città del suo paese natale, è anche un essere umano di rara disponibilità per l’amicizia, per la convivenza forte in questo tempo che, con una parola di un grande scrittore romeno, pare non aver più pazienza.

George Popescu

DALLA POSTFAZIONE DI NICOLÒ GIUSEPPE BRANCATO

AL CANTO DELL’EFFIMERO

Nell’estate del 1995, portando dei fiori alla nonna, Eugenia Serafini ebbe la strana sensazione che Eugenia Guidugli volesse comunicarle qualcosa: non sapeva cosa, ma le venne istintivo pensare che si sarebbe coronato il suo sogno di insegnare all’Accademia carrarina: fatto sta che, nell’autunno dello steso anno e cioè solo qualche mese dopo, le giunse la relativa nomina. I viaggi da Roma a Carrara e ritorno, in una situazione così favorevolmente ed inaspettatamente particolare, furono stimolo per questo che oserei chiamare “diario poetico”, diario di sentimenti, sensazioni, esperienze, emozioni universa-li, ove la brevità è suggerita anche dal veloce succedersi di immagini durante il viaggio in treno: e d’altra parte, il termine “diario” non è sinonimo di “effimero” sostantivato?

L’insegnamento a Carrara è stato gravido di ulteriori risultati: senza di esso non sarebbe stata invitata dal DAMS dell’Università della Calabria a tenere una serie di letture e di stage, né poi chiamata per chiara fama alla cattedra di Disegno  presso la stessa Università.

Roma, 8 marzo 2022.                                                                   Nicolò Giuseppe Brancato