“Scoprire, riscoprire, disseppellire, ma sotto il segno del disegno”; Monica Cardarelli spiega le scelte della Galleria il Laocoonte

P d L

Con questa intervista a Monica Cardarelli, About Art inizia una serie di incontri con le direttrici di Gallerie d’Arte impegnate su vari terreni e con diversi scopi, con l’intento di aprire una finestra che consenta di osservare ‘dal vivo’ le condizioni in cui operano le gallerie oggi, la loro storia, i loro percorsi didattici ed espositivi, i successi e gli insuccessi. La Galleria il Laocoonte si caratterizza per la predilezione delle espressioni figurative e in particolare per il ruolo preminente del disegno -come appare chiaro nell’intervista- e quindi promuove una serie di eventi dedicati a personalità del mondo artistico che hanno operato secondo questa impostazione, soprattutto ma non solo nel periodo tra le due guerre o a ridosso, riproponendone la vicenda umana ed artistica, grazie ad un lavoro di ricerca e di approfondimento promosso e portato avanti spesso direttamente dalla stessa titolare, che oltre a gestire lo spazio di Via Monterono 13, nel centro di Roma, è anche valente storica dell’arte. Attualmente e fino al 12 marzo è in corso la mostra Publio Morbiducci, di cui About Art presenterà la recensione nel prossimo numero.

-La prima domanda che vorrei porti riguarda la storia della Galleria il Laocoonte, come nasce e da quali motivi o esperienze hai tratto ispirazione.

R:  La Galleria del Laocoonte nasce  da una costola della storica Galleria W. Apolloni che fu fondata nel lontano 1926. Il suo nome deriva dall’imponente gruppo scultoreo del Laocoonte che campeggia al centro di una delle sale espositive di Via Monterone 13. L’opera è di mano dello scultore fiorentino Vincenzo de Rossi allievo prediletto di Baccio Bandinelli e autore delle note Fatiche d’Ercole in Palazzo Vecchio a Firenze. Ispirato al Laocoonte del Vaticano quello di Vincenzo De’ Rossi è un’opera che amo definire ‘pulp’ perché tutto in essa è estremo, esagerato, la torsione del busto del sacerdote, la sofferenza del suo volto e di quelli dei suoi due figli in preda alle spire dei serpenti. Anche il programma artistico della galleria ne è condizionato, sottolineando nell’arte del ‘900, quella di cui mi occupo, l’importanza delle espressioni figurative in essa e il ruolo preminente del disegno, fonte primaria di ogni forma d’arte.

Il Laocoonte De’ Rossi tra il famoso prototipo ellenistico ai Vaticani, e quello realizzato dal suo maestro agli Uffizi

 

-Il periodo che prendi in esame in effetti si situa sostanzialmente tra la fine del XIX e gli inizi, o meglio la prima metà del XX secolo; è un periodo piuttosto studiato, ma la tua politica mi pare consista nello spingersi oltre, alla ricerca di qualcosa di ulteriore; è così?

R: E’ esattamente così. Credo fermamente che la missione di uno storico dell’arte sia prima di tutto la ricerca e di conseguenza riscoprire e disseppellire ciò che il tempo e l’oblio ha sepolto.

-Ad esempio?

Andrea Spadini

R: Ad esempio Andrea Spadini, figlio del pittore Armando Spadini. Scultore vulcanico e geniale che già a 16 anni scolpiva insieme ad Arturo Martini, dopo essere stato talentuoso allievo di Libero Andreotti. Autore dell’Orologio musicale di Central Park a New York, amato dalle più note star di Hollywood, da Lauren Bacall a Humphrey Bogart a Henry Fonda, ma anche da divi italiani del calibro di Alberto Sordi. Andrea Spadini autore tra l’altro delle decorazioni interne ed esterne di Villa Cicogna a Venezia è oggi completamente dimenticato.

-Forse gli aveva fatto schermo la figura più nota del padre?

R: Io credo di no, credo invece che dopo la seconda guerra mondiale la moda dell’informale ha risucchiato tutta l’arte e tutti gli artisti, eccetto i solitari, quelli che non si sono lasciti contaminare insistendo invece a praticare con serietà l’esercizio costante del disegno, padre, come dicevamo di tutte le arti. Andrea Spadini fu uno di questi, la cui arte figurativa rappresentò una ribellione contro l’omologazione di quegli anni.

-Cioè vuoi dire che il disegno, l’opera grafica sia stata la base necessaria per poi passare all’arte astratta?

R: Voglio dire che il disegno è l’idea prima, Zuccari avrebbe detto il frutto di una ispirazione divina. Nella grande mostra che quest’anno abbiamo dedicato a Leoncillo, con due diversi speciali cataloghi, edizione De Luca, uno dedicato alle sculture e l’altro ai disegni, abbiamo ampiamente dimostrato come i suoi “disegni” sono già sculture sulla carta, e quelle erroneamente definite informali sono null’altro che disegni di figure deformate, ma pur sempre derivanti da un originario riconoscibile soggetto. Ecco dunque, per ritornare alla tua domanda, il disegno resta la nostra grande passione proprio perché siamo consapevoli e convinti che tutti i grandi artisti siano prima di tutto grandi disegnatori, come appunto Andrea Spadini, ed è questa la ragione per cui ci teniamo particolarmente a mostrarne anche la produzione grafica.

-Mi viene allora da farti una domanda e cioè visto che sei romana e dirigi una Galleria romana cosa ne pensi della scuola romana degli anni sessanta, meglio nota con il nome di scuola di Piazza del Popolo; è un’esperienza artistica che ti interessa?

R: A me interessa tutta l’arte, o per meglio dire tutto quanto possa definirsi tale.

-E quindi le opere di Schifano, Angeli, Tacchi, Mambor, Festa e così via rientrano in questa categoria? O per meglio dire possono essere un domani ospitate negli spazi della Laocoonte?

R: Rispetto alle nostre scelte non è una possibilità così prossima.

-Allora ritorniamo in Galleria; si può certo dire che tutti gli eventi che hai realizzato sono interni ai criteri che ci hai illustrato, dunque anche per la mostra “Il Genere femminile nell’arte del ‘900 italiano” chiusasi la settimana scorsa si deve dire lo stesso? Come è stata concepita quella mostra completamente dedicata a donne artiste piuttosto misconosciute?

R: Mi chiedi come è nata l’idea di una mostra dedicata al Genere femminile nell’arte del ‘900 italiano? È nata pensando a quanta determinazione e a quanta pazienza hanno avuto le donne in un’epoca così vicina a noi, l’inizio del ‘900 appunto, in cui non era così facile diventare artiste, visto che a loro erano negati gli strumenti del sapere. Le donne non potevano infatti iscriversi all’Accademia di Belle Arti  e nemmeno potevano esercitarsi a disegnare un nudo dal vero, sia esso femminile che maschile.

Ma, se posso chiedertelo, come hai potuto scovare tutte le opere che erano esposte, molte delle quali davvero significative, realizzate da artiste non proprio conosciute?

R: Come ho fatto? Lavorando molto e da molto tempo, inoltre personalmente non tralascio di acquisire opere di artiste talentuose da riscoprire.

-Pensi di poter insistere su questa tematica, hai qualche progetto in proposito?

Marisa Mori

R: Si, certo; del resto ho già presentato a Torino una mostra dedicata a Marisa Mori, poi trasferita qui in Galleria; si tratta di un’artista che nasce nel 1900. Da autodidatta si era presentata da Felice Casorati, che inizialmente non la trattò con troppo riguardo, le disse ‘Guardi che qui facciamo cose serie, non ricamini’. Marisa Mori, da sempre ribelle e anticonformista, gli mostrò i sui disegni e il maestro Casorati non solo l’accolse nella scuola, ma quello stesso anno la invitò a partecipare accanto a lui alla mostra sulle vedute di Torino. Ebbe da subito l’onore di entrare nella prestigiosa collezione di Riccardo Gualino; più tardi nel ’32 entrò a far parte del gruppo del secondo futurismo. Ne ho studiato l’intero archivio, il catalogo è in corso di stampa.

-Insomma fai molto lavoro di ricerca …

R: Soprattutto ricerca; la mostra recente su Andrea Spadini per esempio è stata il frutto di un lungo lavoro di ricerca in archivio, durata per oltre un anno e mezzo. Un lavoro che ti consente di entrare in intimo rapporto con l’artista, seppur morto. Le lettere e i documenti ti fanno scoprire legami non noti, come la sua amicizia con Antonietta Raphael, e con i pochi artisti della Scuola di via Cavour, che furono oltre Antonietta Raphael, Mario Mafai, Renato Mazzacurati, e naturalmente Scipione.

-Penso che ne hai trovati parecchie di storie e aneddoti simili

R: Vedi ad esempio le due donne raffigurate nel dipinto di Achille Funi che compare nella copertina del catalogo della mostra di cui parlavamo, cioè XX IL GENERE FEMMINILE NELL’ARTE DEL ‘900 ITALIANO? Una è Leonor Fini e l’altra è Felicita Frai, che interpretano rispettivamente il ruolo di Ugo e Parisina, gli sfortunati amanti di Ferrara, affrescati da Achille Funi nel palazzo comunale della città.  Felicita scrisse un libro di memorie intitolato Mi racconto un po’ da me dove riferisce delle sue esperienze artistiche, di quelle amorose, delle sue frequentazioni con De Chirico e con gli artisti del gruppo del Realismo magico

-Felicita Frai ebbe la disavventura di far vedere a de Chirico alcuni disegni sentendosi rispondere ‘peccato che lei sia donna’ …

R: E’ vero, e tuttavia se leggiamo le Memorie della mia vita di de Chirico dove racconta certe vicende di quegli anni scopriamo che teneva in gran considerazione le doti artistiche dell’allora giovane Felicita, la quale fu peraltro sua allieva e assidua frequentatrice della sua casa oltre che del suo studio.

-Si può dire che questo periodo dell’immediato primo dopoguerra cioè negli inizi del XX secolo possa essere considerato come propositore di un’arte libera, cioè non ancora assoggettata, non ancora irrigimentata nella logica dell’esaltazione del regime fascista?

R: Non credo che Mussolini abbia mai proteso alla creazione di un’arte di regime. Gli artisti, quasi tutti, erano iscritti al partito, ma quando creavano esprimevano se stessi.

-E la Sarfatti ? non ebbe un ruolo nella divulgazione di un’arte di regime ?

R: La Sarfatti e il suo Gruppo ‘900 non era fautrice di un’arte politicizzata, di regime.

-Insomma tu non pensi che un dato contesto sociale economico politico possa arrivare ad influenzare la produzione letteraria o artistica in qualche misura?

R: Non voglio dire questo, ma solo quel che ho detto. L’Italia non ha fatto, in arte, l’esperienza del bolscevismo. Quando Pietro Gaudenzi affrescò le sale del Castello dei Cavalieri di Rodi a Rodi (oggi del tutto perduti) il quadrumviro Cesare De Vecchi gli scrisse una lettera in cui manifestò tutto il suo malcontento rispetto alla scena de La partenza dei soldati, per nulla interprete dello spirito del fascismo e che anzi pareva piuttosto ‘un salutino alla mamma’.

-Passiamo ad un’altra domanda, perché sono curioso di sapere come progetti le tue scelte espositive, nel senso che ti muovi perché sei a conoscenza di una collezione ancora anonima, di un archivio …

R: No generalmente non è così, di solito sono eredi degli artisti che decidono di affidare a me lo studio dei loro archivi.

-Ecco ma tu queste figure di studiosa, ricercatrice, espositrice, scrittrice, come le concili; mi pare una cosa non facile né poco faticosa.

R: Ti rispondo con le parole di un grande e noto antiquario, forse il più grande: Fabrizio Apolloni,meglio fare l’antiquario che lavorare”, una frase che spiega alla perfezione quanto poco si avverte la fatica e il sacrificio quando ci si diverte e si ama quel che si fa.

-Quindi cerchi di conciliare il lato filologico, della ricerca, con l’attività di gallerista?

R: Direi di si. Oggi credo che non si possa fare altrimenti. La mia prima lunga ricerca l’ho dedicata a Luigi Sabatelli (1772 – 1850), soggetto di una tesi di Laurea alla Sapienza di Roma. Si tratta ovviamente di un disegnatore tra i migliori della sua epoca. Quest’anno finalmente pubblicherò il libro a lui dedicato, attraverso cui sarà possibile seguirne il percorso artistico fino alla sua più importante commissione, quella relativa all’affresco della Sala dell’Iliade di Palazzo Pitti. Poi sono passata ad Alberto Martini, il mago del bianco e nero come lo definì Vittorio Pica, soggetto della mia specializzazione fiorentina e poi via via altri argomenti di ricerche. Quindi per tornare alla tua domanda credo che unire la ricerca all’attività di gallerista oltre che naturale sia anche doveroso, perché studiare senza poi proporre il risultato degli studi, senza metterlo a disposizione del pubblico, va a scapito di quello che credo sia dovere di ogni studioso, ossia la cura dell’aspetto didattico e divulgativo del proprio impegno.

-E come curi il contato con studenti e docenti, cioè con il pubblico che potrebbe essere maggiormente interessato ad un apprendimento di questo tipo?

R: Spesso ospito in Galleria gruppi di allievi, anche stranieri, in particolare dell’Accademia di Belle Arti, cui dedico parte del mio tempo, rispondendo alle loro domande, spiegando la mostra o semplicemente consentendogli di copiare il maestoso Laocoonte di De’ Rossi.

-Consentimi per concludere la nostra conversazione un’ultima domanda di carattere personale; in questi anni di lavoro quale è stata la maggiore soddisfazione che hai avuto e, viceversa, quale la maggiore delusione o il più grosso problema affrontato?

R: Cominciamo dai problemi; quelli più grandi sono generati dalle Soprintendenze e nascono inevitabilmente quando ci occorrono i permessi per far uscire le opere d’arte dall’Italia per mostre o per fiere. Invece la soddisfazione più grande per chi fa questo lavoro è di riuscire a vendere un’opera ad una istituzione pubblica, ad un museo, a una fondazione, così da poter dare al grande pubblico l’opportunità di vederla.

-E tu l’hai avuta questa soddisfazione? Ce lo puoi dire?

R: Si, certo, ricordo perfettamente la prima volta che mi è successo e che non dimenticherò, un po’ come il primo amore. Vendetti alla Cineteca Nazionale con sede a Bologna il bozzetto preparatorio, enorme a dire il vero, per il cartellone pubblicitario del film “Amarcord” di Fellini. Coloratissimo e divertentissimo, con tutti i personaggi e macchiette del film messi in fila, che è diventato il logo stesso della Cineteca!  Aggiungo che di fronte a tali opportunità noi antiquari siamo disposti a ridurre di molto il nostro guadagno perché la soddisfazione è superiore a qualsiasi guadagno immaginabile.

P d L    Roma 2 febbraio 2020