Roma città eterna-mente in crisi. Uno sguardo “contemporaneo” dentro la Capitale in un volume di Carla Guidi.

di Sergio ROSSI

Roma città eterna-mente in crisi.

Il bel libro di Carla Guidi Città reali, città immaginarie (edizioni Robin&sons, Torino 2019), con il corredo fotografico di Valter Sambucini* che ne sottolinea visivamente i passaggi fondamentali, offre talmente tanti dati, riferimenti, spunti di riflessione da renderne impossibile una sintesi nello spazio di una semplice recensione; per tanto aggiungerò, a mia volta, altri spunti ed altre riflessioni e lo farò partendo da un recente articolo di Giovanni Belardinelli uscito sul “Corriere della sera” del 2 luglio 2021 che notava come, da Matilde Serao a Gabriele D’Annunzio a Luigi Pirandello sia stata proposta un’immagine di Roma come “città cloaca” o “alluvione di melma”.

«Questi riferimenti alla cloaca avevano un significato traslato, com’è sempre nelle metafore. Ma è fin troppo evidente che oggi quell’inadeguatezza di Roma a essere il cuore pulsante del paese, e la stessa immagine di città cloaca, hanno purtroppo acquisito un significato drammaticamente letterale. Fiumi di acqua e fango a ogni pioggia appena più intensa del solito, mucchi di immondizia su cui banchettano i gabbiani…»

e chi più ne ha più ne metta. Ma quello che Belardinelli non dice è come può una città essere definita “eterna” ed essere al contempo “eternamente in crisi” e rinascere ogni volta, come la mitica fenice, dalle ceneri che almeno da 1600 anni periodicamente la avvolgono.

E se non hanno potuto distruggerla Alarico con i suoi Visigoti, Genserico con i suoi Vandali, e ancora i Lanzinecchi, i Barberini, i nazisti o i vari palazzinari e “furbetti del quartierino” dei tempi nostri, compresi quelli di “Roma Capitale”, e perfino, nonostante i suoi eroici sforzi, Virginia Raggi, chi potrà riuscirci? Forse i maiali che frugano indisturbati nella spazzatura in pieno centro? Le troppe discariche abusive? Le migliaia di senza tetto invisibili (ma solo per chi non vuole vedere) accampati presso gli argini del Tevere o dentro il cosiddetto Parco di Monte Mario? I cittadini dell’Urbe, ed io con loro, sono convinti di no, e che non potrà riuscirci nessuno. Anche se è vero, come diceva il buon vecchio Marx, che tutti i grandi fatti e personaggi della storia si presentano, per così dire, due volte. La prima volta in forma di tragedia e la seconda in forma in farsa. Ma a Roma si sono presentati così tante volte che distinguere l’una dall’altra è ormai quasi o del tutto impossibile.

Comunque, ecco la prima risposta che mi viene di dare alle domande prima formulate: la forza ideale che Roma possedeva in quanto erede della cultura classica e centro della cristianità faceva sì che a questi valori direttamente ci si ispirasse nei momenti di crisi o anche di grande rinnovamento spirituale; e ciò avveniva non in virtù di quello che la città era veramente, bensì di quello che essa rappresentava. E’ sempre esistita cioè un’idea di Roma come città eterna che in pratica prescindeva dalle valutazioni realistiche delle condizioni in cui l’Urbe di volta in volta versava. Ed è a questa idea che si sono ispirati i poeti, i letterati, gli artisti che nel corso dei secoli di Roma hanno parlato o che Roma hanno raffigurato con le loro opere e che Francesco Petrarca meravigliosamente sintetizza nella Canzone “Italia mia”:

«Vertú contra furore prenderà l’arme, et fia ‘l combatter corto: ché l’antiquo valore ne gli italici cor’ non è anchor morto».

E’ la convinzione cioè, che la virtus italica, ma più specificamente romana, debba alla fine prevalere sul furor barbarico, convinzione in effetti fallace e smentita tragicamente dai vari “sacchi” che Roma ha subito nel corso dei secoli ma non ostante tutto profondamente radicata nella coscienza più profonda del popolo romano: dopo i periodi di crisi verranno sempre e comunque i momenti di riscatto e di rinascita, cui seguiranno ancora quelli di difficoltà e di regresso in quell’intrecciarsi perenne di alti e di bassi che rendono Roma  un unicum in tutto il mondo, per cui il motto “Roma città eterna” non è solo una definizione retorica ma qualcosa di intimamente reale e per cui (si parva licet componere magnis) il motto della Roma (intesa come squadra): “forza Roma, forza lupi, so’ finiti i tempi cupi” è qualcosa di più di un semplice slogan.

E se nemmeno il finto presidente Pallotta è riuscito a distruggere la Roma, e nemmeno la purtroppo vera sindaca Virginia Raggi è riuscita a distruggere Roma, allora, come ci insegna la Guidi, ancora una volta l’Urbe risplenderà “più bella e splendente che pria”. E questo potrà avvenire, come ci indica Franco Ferrarotti nella Prefazione al libro

«Con uno scatto dell’immaginazione, dell’intuito artistico e del linguaggio, vale a dire con il passaggio dalle città reali alle città immaginarie, perché la Guidi sostiene che è ancora possibile per l’umanità sottrarsi all’eterno ritorno dell’identico per riscoprire la gioia dell’involontarietà del pensare». E questa salvezza sarà possibile, come scrive l’autrice, attraverso la bellezza delle arti anche laddove le metropoli sono spesso solo «un disordinato assedio di baracche e/o una patologica ossificazione in forma di cementizzazione selvaggia, come il risultato (senza intermediari culturali) di una sorta di “magnetismo” attivato dall’altalenare degli andamenti economici, all’interno di un sociale variabilmente eterogeneo».

E sarà possibile, ancora, nelle loro declinazioni più moderne come la street art o i tatuaggi. Perché, questo lo osserva Morassut:

«Il viaggio di Carla Guidi ci fa vedere qualcosa di insperato. Come in un viaggio dal finestrino di un treno ad alta velocità, dalla decomposizione liquida delle forme esterne intuiamo nuove forme, nuove espressività, nuovi colori e mescolanze… Un testo che merita un ampio sostegno divulgativo per le ribollenti domande e luci che accende sul caos della nostra esistenza, nelle luride e scintillanti città del nostro tempo».

Viaggio che snoda attraverso vari percorsi, il primo dei quali è dedicato agli animali:

«Il fenomeno è imponente. Secondo i dati del rapporto Italia del 2016 redatto dall’Eurispes, quasi la metà degli italiani ha almeno un pet,,., ma tutto questo amore per gli animali ha purtroppo, ancora oggi, una faccia oscura e dopo la droga, il secondo mercato clandestino al mondo, per fatturato e numero di persone coinvolte, è il commercio illegale di fauna e flora, con un giro di denaro dell’ordine di miliardi di dollari».

Roma, però, una volta tanto, spicca in positivo perché nel Bioparco di Villa borghese è stato allestito il primo Museo Permanente del crimine ambientale, unico del suo genere in Europa, con esposti i reperti derivanti dalle numerose operazioni di polizia giudiziaria effettuate dal personale del Servizio Cites del corpo forestale dello stato, ora assorbito nell’Arma dei Carabinieri.

Su questo aspetto posso fornire alcune esperienze personali, perché quando ancora si poteva viaggiare ho visitato l’ospedale degli elefanti di Pirnawala, nello Sri Lanka, ed assistito all’emozionante bagno dei docilissimi pachidermi, tutti salvati da morti o mutilazioni certe, nel vicino fiume. Ma ancora più emozionante è stato visitare il bellissimo orfanotrofio degli oranghi di Bukit Merah in Malaysia, che accoglie, fin da cuccioli, centinaia di questi intelligentissimi animali sottraendoli agli incendi delle foreste appiccati per dare spazio alla coltivazione intensiva dell’olio di palma.

Quanto agli animali di casa nostra sono un grande amico, ricambiato, dei cani di ogni razza e taglia, da uno splendido lupo, Bauschan (come il cane di Tomas Mann) della mia adolescenza, all’impagabile Alice, bassotta a pelo lungo di cui ancora rimpiango la perdita, a due simpaticissime boxerone, Grace e Brigitte che quando mi incontrano fanno di tutto per saltarmi addosso e sbavarmi; ed un mitico boxer, Dada, era anche il cane di Giulio Carlo Argan che il professore, estremamente mattiniero e come lui stesso raccontava, portava sempre a spasso alle sei di mattina prima di mettersi al lavoro.

Il secondo “viaggio” la Guidi lo compie sul corpo umano, parlando dell’arte dei tatuaggi, che è un po’ la derivazione in qualche misura universale e “proletaria” della body art:

«La pelle dipinta, incisa e colorata, sia a livello narcisistico che di ricerca di identità, va così a definire e nominare corpi sempre più permanentemente nudi, esibizioni che la nostra società richiede e quasi impone…[ma il tatuaggio può rimanere anche come] una storia congelata, che alla fine potrebbe trasformarsi in una condanna, quando la persona viene costretta a portarsi sul corpo una storia che non gli appartiene più». Il tattoo è comunque divenuto «un linguaggio privilegiato per esprimere non solo il disagio della nostra epoca, ma anche in qualche modo la direzione di una nuova creatività, all’interno di un notevole miglioramento del sistema sanitario».
Melinda (modella tatuata da Marco Manzo)

Ma, va detto senza mezzi termini, la tattoo art spesso non è altro che “cafon art”, nel senso che, a partire dai calciatori e non solo, vediamo corpi coperti da immagini orripilanti quando non strizzanti esplicitamente l’occhio all’estrema destra. E quando il tattoo si eleva ad autentica opera d’arte lo fa però in un modo curiosamente retrò e quasi liberty, con schiene decorate da delicatissimi immagini floreali o serpentinate che sembrano un dipinto di Klimt direttamente trasferito sul corpo femminile, come in certi tatuaggi di Marco Manzo.

Il terzo “viaggio”, certo il più complesso, è quello che riguarda la street art, che fa indubbiamente risalire la sua origine alle facciate decorate del Rinascimento e del Barocco, e successivamente ai grandi Murales messicani della prima metà del Novecento: la derivazione nostrana e spesso di altissima qualità sono le città-museo di Orgosolo e San Sperate in Sardegna, in cui rivolte sociali e innovazioni estetiche si sono a lungo incrociate fino a spegnersi progressivamente. In parallelo, negli Stati Uniti ecco i writer del livello di Haring e Rammellzee, troppo presto assorbiti dal sistema consumistico che volevano combattere. Ed anche, venendo all’oggi, il più celebre di tutti, Banksi, è solo un provocatore che fa del dissenso e del mistero intorno alla sua vera identità uno strumento per arricchirsi o è uno dei più significativi artisti del XXI secolo? O piuttosto è entrambe le cose?

In parte la risposta la dà lui stesso quando afferma:

«io dico a me stesso che uso l’arte per promuovere il dissenso ma forse sto piuttosto usando il dissenso per promuovere la mia arte». O ancora «mi piace pensare di avere il fegato di resistere in maniera anonima in una democrazia occidentale e di pretendere cose a cui nessuno crede più-come pace, giustizia e libertà».

In definitiva, dunque, Banksi è stato finora capace di promuovere la propria arte attraverso il dissenso e contemporaneamente di porsi come una sorta di “antagonista permanente” in una società dominata dal mercato e che lui ritiene solo apparentemente democratica. Quanto a lungo riuscirà a mantenere indenne questo doppio ruolo è un’altra questione.

Tornando a Roma, il pericolo, anche se il discorso potrebbe estendersi a tutte le grandi metropoli, è che con la scusa di abbellire le periferie o i luoghi degradati con murales spesso improvvisati si finisca con ghettizzare questa forma d’arte, che potrebbe certo avere grandi potenzialità, facendole svolgere una funzione opposta a quella che dovrebbe avere e relegandola ad arte di serie b per luoghi di serie b. Tra gli esempi più positivi ed in grado di qualificare invece i luoghi che li accolgono, cito il murale di Andrea Cardia al Pigneto “Il muro era vuoto” del 2015; quello a Tor di Nona “Prendiamoci la città”, che strizza l’occhio ai murali sardi;

Andrea Cardini, Prendiamoci la città

quello di Nicola Alessandrini al MAAM “Cappella porcina”, quello di Lucamaleonte “Nido di vespe al Quadraro”, tanto per fare qualche esempio.

Lucamaleonte, Nido di vespe al Quadraro

Ancora a Carla Guidi, questa volta insieme a Giorgio Di Genova, si deve un’altra e più recente pubblicazione, XL. Quintetto d’arte. Mostre paradigmatiche e vetrina dell’invisibilità, sempre per i tipi di Robin&sons, uscito nel 2021.

Come ha scritto Giorgio Di Genova nell’introduzione al volume:

«Durante i tempi difficili del lockdown le attività culturali sono state messe in quarantena e le mostre d’arte non hanno fatto eccezione, per questo, d’intesa con Carla Guidi, abbiamo pensato di avviare una serie di mostre on line, sotto la mia personale supervisione, col titolo Quintetti d’arte».

All’iniziativa hanno partecipato ben 65 artisti, ora raccolti con tre opere ciascuno, nel libro appena citato. Nell’impossibilità di rendere conto di tutti i contributi, ho scelto un mio “Quintetto” personale, tra i 65, di cui verrò ora a rendere brevemente conto.

Inizierò da Placido Scandurra, che ho seguito dai suoi esordi figurativi dei primissimi anni Settanta fino agli esiti più recenti, attraverso opere nelle quali Picasso e Max Ernst convivono con i ricordi dei Pupi siciliani e delle pendici dell’Etna, Francis Bacon con i cactus, le agavi e i giganteschi carrubi dei paesaggi siciliani, le forme ataviche e primordiali legate alla cultura isolana  incontrano dottrine sapienziali di matrice indiana nell’idea, come sottolinea Claudio Strinati

«di una dimensione organicistica, di una sostanza dura e trasparente che attraversa il nostro corpo come attraversa l’Universo, di un principio generatore che è contrasto ma nel contempo unione, della esigenza primaria, infine, di liberare le energie latenti della mente in un momento prelogico che può essere di fatto oltre la logica e portatore, per antonomasia, di sapere estetico».

Proseguirò con Antonella Cappuccio un artista, come osserva Giorgio Di Genova

«dotata di una sorprendente manualità, che le permette di usare tante tecniche, come la pittura (anche su superfici specchianti), la pitto-scultura (nei suoi teatrini), l’arazzo e il collage. Le sue soluzioni, anche visive, sono assai inventive, come dimostrano dipinti come La Primavera, ispirata al famoso capolavoro di Botticelli, in cui le figure sono riprese da dietro, o il trittico ispirato alla Bella giardiniera di Raffaello, in cui con una visione dimidiata specularmente fa assumere ai personaggi fattezze davvero mostruose».
Antonella Cappuccio, Dopo la Primavera
Oki Izumi

Ed ecco la giapponese Ōki Izumi, con le sue statue (elegantissime e leggere come origami) di vetro industriale un materiale che, come osserva la stessa artista «possiede la doppia qualità della trasparenza e della riflessione. Ciò induce ad accentuare la riflessione, superando la semplice percezione retinica e al tempo stesso invita all’introspezione, aprendo un proprio spazio-tempo». Così un materiale apparentemente freddo può acquisire un proprio calore interno, come nel bellissimo Oceano o in Vibrazione, che si propaga però verso le spettatore con effetti di un fluttuante ipnotismo visivo.

Non ha certo bisogno di particolari presentazioni Renata Rampazzi e la sua personalissima e fluttuante declinazione della pittura informale.

Renata Rampazzi

Infatti, come osserva Claudio Strinati

«E’ sufficiente aver visto poche opere dell’artista per riconoscere facilmente la sua firma. La Rampazzi ha creato un vero sistema figurativo, in cui ogni elemento è collocato accanto ad un altro con perfetta coerenza, e da questo deriva un’esperienza artistica ma anche filosofica. La sua riflessione nasce da un profondo sentimento di unità tra gli elementi», mentre Dacia Maraini definisce il suo stile un «inquietante insieme di minaccia e languore, di coagularsi e sciogliersi dei colori nell’ombelico figurativo delle opere, come per allontanare il pericolo sempre incombente del caos, inchiodandolo sulla tela».
Rosette Bonello

Chiudo con la maltese Rosette Bonello, anch’essa accostabile ad una originalissima interpretazione dell’informale tradotto in opere insieme liquide e materiche, che sanno coniugare il sole ed il mare della propria terra, certe reminiscenze simboliste e tardo ottocentesche alla Odilon Redon e la liquida pittura gestuale dell’ultimo De Kooning in un unicum di accentuato lirismo e sognante poeticità. Ma la Bonello sa assumere anche toni più drammatici, legati proprio alla pandemia che ci ha travolti, come in Pandemia, appunto,

«una sorta di dripping, che poi esplicita quasi descrittivamente nella rappresentazione dei polmoni che non riescono a respirare l’aria azzurra circostante, come simbolicamente suggerisce la “X” posta a sinistra dell’immagine organica che è protagonista del dipinto»,

come scrive Giorgio Di Genova.

Un’ultima considerazione riguarda il fatto che solo a scelta compiuta mi sono accorto di aver selezionato quattro artiste donne ed un solo uomo, a riprova del fatto che, come sostengo da tempo, la creatività femminile ha ormai sopravanzato quella di noi uomini, con poche speranze di un ribaltamento della situazione almeno per l’immediato futuro.

Sergio ROSSI   Roma 5 settembre 2021

* Le immagini fotografiche in Città reali, città immaginarie, sono di Valter Sambucini  http://www.valtersambucini.it