P d L
Enrico Lucchese (Trieste, 1973) si è laureato nel 1997 in Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea conseguendo il Dottorato nel 2006 e l’Abilitazione Scientifica Nazionale nel 2014; ha maturato numerose sperienze didattiche presso vari istituti tra cui l’Ecole du Louvre, la Fondazione Giorgio Cini e presso l’Università di Trieste con insegnamenti nel settore dell’iconografia e dell’iconologia. Specializzato in particolare di pittura veneta settecentesca, è autore di oltre trecento pubblicazioni scientifiche, tra cui saggi su Piazzetta, Sebastiano Ricci, Tiepolo, Anton Maria Zanetti, nonchè numerosi contributi sul vedutismo veneziano. Attualmente insegna come professore associato all’Università di Lubiana. Da tempo è tra i collaboratori di About Art (nella foto la presentazione del volume “Nicola Grassi”, a Roma alla Accademia di san Luca).
Tutto è cominciato –scrivi all’inizio- da una frase di Adriano Mariuz “Vedrà è un pittore importante” (1996), riferita a Nicola Grassi, dopo la stroncatura di Francis Haskell (1961), cui reagì Egidio Martini (1964), fino alla valutazione ‘equilibrata’ di Pallucchini (1994) che parlò di “un artista rielaboratore di modi espressivi a lui affini”; di solito un giovane studioso viene attratto da artisti di richiamo e per Grassi non si trattava di questo; dunque cosa è che ti ha spinto infine a dedicargli anni e anni di studi e ricerche culminati in un volume di oltre 520 pagine?
R: A Grassi ci sono arrivato con la tesi di laurea, con Giuseppe Pavanello a Trieste (1997), accantonando tre argomenti, almeno sulla carta, assai più accattivanti per motivi di tempo (gli studioli nel Rinascimento veneziano e la giovinezza di Tintoretto) e di pubblicazione imminente da parte di altri ricercatori (Sebastiano Mazzoni). Erano ormai trascorsi quindici anni circa dall’ultima mostra monografica e dal convegno di studi che Aldo Rizzi, il direttore dei Civici Musei di Udine, aveva organizzato a Tolmezzo. Nonostante la volontà di dare luce internazionale alla pittura di Nicola Grassi, la coppia di quelle pur belle manifestazioni rafforzò, nella comunità scientifica, il giudizio severo e autorevole di Haskell che menzionavi. Infatti, sembrava ancora, dalla recensione su “Burlington Magazine” della prima rassegna udinese del maestro, che Grassi fosse stato un artista interessante solo per il Friuli, con qualche opera a Venezia, in Germania, in Dalmazia e nella Val Brembana. Nessun affresco, apparentemente nessun principe mecenate ma la committenza tolmezzina dell’imprenditore, carnico come lui, Jacopo Linussio: perfino dal punto di vista documentario, la vita di Nicola Grassi, passata tra Venezia e la valle del Bût, non mostrava colpi di scena sorprendenti. Eppure, ed è questo che mi ha spinto ad approfondirne la conoscenza, Nicola Grassi riuscì sempre a essere una personalità riconoscibile nell’ambiente artistico, molto concorrenziale, della capitale, la Venezia di Ricci, Tiepolo e Piazzetta. Pur iniziando a lavorare autonomamente appena a ventotto anni d’età, Nicola si fece subito apprezzare come ritrattista (specialità appresa alla bottega di Nicolò Cassana) e poi a lavorare alla chiesa dell’Ospedaletto con Giambattista Tiepolo diciannovenne. Già in quel ciclo, lo stile di Nicola Grassi è riconoscibile e, al tempo stesso, si adegua con grande intelligenza pittorica agli exploit del genio tiepolesco agli esordi. Nella tradizione del miglior colorismo e luminismo veneto, Grassi dialogò, oltre con i menzionati Ricci Tiepolo e Piazzetta, con Pittoni, Balestra, Carriera, Pellegrini, Amigoni, Guardi. A un certo punto della sua attività, iniziò perfino a fare, sempre nella sua caratteristica cifra, delle repliche ridotte delle altrui invenzioni, quasi dei travestimenti pittorici per degli intendenti: di ciò ne ho scritto nel volume da te curato (Cfr. Originali Repliche Copie. Uno sguardo diverso sui Grandi Maestri, Ugobozzi editore, Roma 2017) e sono andato avanti anche in questa direzione. Alla fine, questi tre chili e mezzo di carta patinata non vogliono essere solo il classico studio monografico dei dipinti, delle incisioni e dei disegni di un maestro settecentesco, delle tele assegnabili alla sua cerchia e delle opere da espungere dal suo catalogo: sulla base delle ricerche precedenti, mi è piaciuto pure cercare di ricostruire l’intera situazione artistica in cui visse e operò Grassi, dalla sua formazione ai primi passi –anche dal punto di vista dell’appartenenza al Collegio dei pittori- all’affermazione ai momenti di successo e di crisi, alle strategie che attuò per continuare a essere contato tra i migliori pennelli della Serenissima.
Sarebbe anche interessante conoscere quali e quante “peregrinazioni” tra editori, fondazioni ed altro hai dovuto fare per arrivare infine alla pubblicazione, mi pare di capire che il tuo lavoro fosse in gran parte pronto già nel 2006; c’è da creder, forse, che l’argomento non era così intrigante per un editore?
R: Non dirò i peccatori, solo i peccati: oggi sono pochi, molto pochi gli editori, pur specializzati, che prendono il rischio di pubblicare, nella maniera che vedi, un catalogo dell’opera completa di un artista che non sia, come hai accennato all’inizio, di richiamo. Nessuno mi disse di no, intendiamoci, ma erano offerte irricevibili: c’è chi mi chiese cifre iperboliche per coprire tutte le spese e guadagni compresi, chi mi propose di fare una specie di sintesi con solo il repertorio dei dipinti autografi a uso del mercato antiquariale, chi ancora prospettò forme di pubblicazione a basso costo con stampa digitale oppure solo in bianco nero. Arrivò pure il progetto editoriale di una lussuosa edizione, cofanetto incluso, con il patto però di illustrare un inedito che si voleva di Grassi e che, per mia sfortuna, non gli spettava in alcun modo. Anche con le fondazioni e con gli enti pubblici andò piuttosto male. Soldi per la mia impresa non ce n’erano, non ce ne sono mai stati; forse giocava contro il fatto che l’artista fosse stato un friulano a Venezia e l’autore della monografia potesse essere un veneto giuliano, situazioni paradossali da Coscienza di Zeno, quando Cosini sbaglia il funerale da seguire. È da romanzo pure la notizia, che ebbi, dei fondi da spendere con un ottimo editore ma con un unico mese di tempo a disposizione a causa di un repentino cambio di regia ai vertici … alla fine della vicenda, proprio scrivendo dell’arte a Trieste nel Novecento, ho incontrato Mauro Lizzi e la sua ZeL di Treviso. Da lì l’idea di riprendere il materiale, sostanzialmente riscriverlo e inserirlo nella collana diretta da Mauro Lucco: una scommessa vinta, visto il successo nelle vendite di questi mesi.
Cassana –il maestro di Grassi- è noto soprattutto per la ritrattistica e tu fai riferimento ad “un cambiamento stilistico, sotto questo aspetto, intervenuto a contatto con Rosalba Carriera”; è possibile agganciare questo cambiamento alle esperienze che venivano maturando nel campo della ritrattistica anche a Roma e in Francia?
R: Solleciti un problema ancora aperto, quello dei rapporti tra le capitali culturali dell’epoca. Gli studi sulla cultura figurativa tra Sei e Settecento dovrebbero sempre ricordarsi della dimensione cosmopolita delle vicende che trattano: la trama tra artisti e mecenati era stretta quanto ramificata, come ha insegnato Haskell. Si pensi alla cerchia di Rosalba Carriera, cui apparteneva Cassana, che è quella di Anton Maria Zanetti senior, cioè di coloro che all’inizio XVIII secolo portarono nuovamente Venezia in Europa e viceversa. Grazie agli uffici di Christian Cole, il segretario dell’ambasciatore del re d’Inghilterra a Venezia, la pittrice era entrata nel 1705 all’Accademia di San Luca e, di fronte alla miniatura presentata a Roma come dono per l’ingresso, Carlo Maratti per lei aveva pronunciato il sacro nome di Guido Reni. La fresca modernità dell’arte ritrattistica della veneziana ha influenzato anche gli esordi nel medesimo genere di Nicola Grassi, che l’abate Lanzi considerava “competitore” di Rosalba, come si può notare nella pergamena – di nuovo un’opera in un formato ridotto, nel gusto rococo della petitesse – con La sacra famiglia, san Girolamo e Girolamo II Mattei di Paganica, nunzio apostolico presso il Doge nel 1710-13.
In quest’opera, come nel poco più tardo Ritratto di Sebastiano Varese, permane il riferimento alla ritrattistica di gusto internazionale di Nicolò Cassana un insegnamento che Grassi terrà presente fino alla coppia dei conti Strassoldo, del 1745, da Egidio Martini comparati agli esempi di Largillière. Per restare alla Francia, nel 1720 Antonio Pellegrini, sua moglie Angela Carriera e la cognata Rosalba partirono, con l’amico Anton Maria Zanetti, per la Parigi di Crozat e Watteau. Zanetti continuò il viaggio da solo, per Londra e i Paesi Bassi: tornò l’anno dopo a Venezia con l’opera incisa di Callot, di Rembrandt e centinaia di disegni di Parmigianino che subito volle riprodurre, prima calcograficamente da Faldoni e Zucchi, poi con i chiaroscuri xilografici eseguiti da lui stesso con l’aiuto di un fratello. Ho avuto modo di dimostrare, nel saggio introduttivo, che Nicola Grassi conosceva molto bene queste stampe, elaborandole nelle sue creazioni. Insomma, rimanendo in Calle delle Carrozze, Nicola poteva partecipare a cospicui fatti artistici del suo tempo.
Leggendo quello che si dicevano tra loro Cassana (“Bambini era miglior inventore e disegnatore di lui”) e Bambini (“Cassana era più abile maneggiatore di colori”) viene da chiedersi come si pone Grassi tra l’uno e l’altro, ossia se –a tuo parere- si esprimerà meglio come inventore o come colorista?
R: Essendo stato allievo e collaboratore del primo, direi che Nicola fu innanzitutto un colorista e di valore: mi pare che le tavole del libro lo dimostrino ampiamente. La formazione cassanesca lo limitava al genere ritrattistico e, al massimo, alle mezze o singole figure, mentre per le competenze compositive da conoscere e impiegare nella pittura di storia Grassi dovette riferirsi a Nicolò Bambini, un artista che vantava un’educazione romana e che aveva dipinto assieme a Cassana. Di questa collaborazione scrivo nel saggio, così come del processo del 1705 con Nicolò Cassana incolpato di spacciare per suoi lavori dipinti da Bambini e Grassi chiamato a testimoniare in difesa del maestro (purtroppo il documento è perduto). Di tale sodalizio è eco pure il primo lavoro autonomo di Nicola Grassi, la pala di San Gottardo (1710)
che riprende, con una certa acerbità, più che il modello neoveronesiano di Sebastiano Ricci a San Giorgio Maggiore del 1708, la più conformistica traduzione di Bambini di due anni dopo per la cappella Giustiniani a San Stae. Seguendo detta direttrice stilistica, le opere degli inizi di Nicola sono colorate e non luminose, la scoperta della luce avverrà poco dopo, con il contatto con l’arte piazzettesca e la presenza all’Ospedaletto con Giambattista Tiepolo. È interessante notare che il debito accumulato in partenza diventerà un punto di forza delle capacità mimetiche di Nicola Grassi: per tutta la carriera s’ispirerà alle invenzioni dei suoi contemporanei così come degli artisti del passato, interpretandole in modo felicemente personale e nascondendo con molta cura ogni possibile prova di conio. Quest’aspetto di complessità culturale figurativa di Grassi è stato dimostrato con efficacia anni fa da Riccardo Lattuada, in un articolo rivelatore che mi ha guidato nel ritrovare altri calchi inventivi e le tecniche usate per celarli.
Interessante nella tua ricostruzione anche un aspetto che potremmo definire poco edificante dell’attività di Cassana e non di lui solo, anche di Sebastiano Ricci con il quale anzi fu sodale; parlo della falsificazione di opere poi spacciate per quelle di grandi maestri; risulta che Grassi abbia anche lui contribuito a questi espedienti?
R: Formalmente non risulta che Nicola Grassi sia stato un falsario: dai documenti, la sua vita è scorsa in modo ordinario, se non esemplare. Essendo però stato allievo di Cassana, sulla cui attività truffaldina ha scritto molto bene Franco Paliaga nel suo L’apparenza inganna, non si può pensare che non ci possa essere qualche macchia sulla sua fedina, a cominciare dalla perduta testimonianza (presumibilmente di parte) nel processo del 1705 che si è detto sopra. Inoltre esistono due curiosi dipinti al museo di Bordeaux riconosciutigli da Klara Garas che nel 1763-64 apparivano nell’inventario della collezione di Guglielmo V d’Orange come autografi di Paolo Veronese. Altre tele di simile fattura ‘neocinquecentesca’ sono avvicinabili a quel momento, cioè subito dopo la morte di Sebastiano Ricci (1734) che di questi pastiche era noto specialista e forse monopolista in ambito veneto. Ad esempio la rovinatissima Carità del museo di Marsiglia che nel 1742 (dunque con Grassi vivente) era attribuita a Van Dyck, quando era sovrapporta all’Hôtel de Toulouse a Parigi, oppure la finora inedita Adorazione dei pastori di collezione privata genovese, dove l’omaggio a Bassano e agli altri maestri del Rinascimento sembra quasi a un passo, non si capisce se prima o dopo, la contraffazione. Con il Convito in casa di Levi di qualche anno dopo, dipinto noto dall’immagine nella Fototeca Morassi, il gioco è più limpido: la mimesi del celebre capolavoro veronesiano è perfetta, Grassi aggiunge una balconata da cui si sporgono le sue caratteristiche figure per smascherare la sua autografia e un’indiscutibile bravura.
Se volessimo fare un sorta di sommario delle esperienze stilistiche di Nicola Grassi si potrebbe –sintetizzando al massimo- dire che fino al 1715 è ‘cassanesco’ e poi –quadri dell’Ospedaletto- c’è la svolta piazzettesca, allorché “ingagliardisce gli scuri” (per usare una nota frase relativa alla pittura caravaggesca) e diviene -come tu scrivi- “un maestro del ‘700 veneziano”; infine i dipinti di Tolmezzo “da stimare tra le maggiori opere di Grassi” . Ti chiedo: ci sono motivi particolari che giustifichino questa svolta? La morte del maestro, ad esempio, e quindi una sorta di liberazione personale? Oppure richieste della committenza ? oppure ancora situazioni collegate a un particolare contesto magari di tipo religioso ?
R: No, non credo che Nicola Grassi sia stato felice dell’improvvisa morte a Londra del proprio maestro: si doveva stare bene in una bottega privilegiata dalle tante commissioni del Gran Principe Ferdinando de’ Medici e visitata dal re di Danimarca e Norvegia nel 1709; in quello stesso anno il Senato veneziano aveva chiesto a Cassana di stilare l’inventario della straordinaria collezione di Ferdinando Carlo Gonzaga-Nevers. Sono tutte esperienze fruite positivamente da Grassi, per esempio nei due dipinti con scene bibliche pastorali già attribuite sintomaticamente al figlio del Grechetto, artista quest’ultimo prediletto dal duca di Mantova. Certo è che suona come la fine di un’epoca la dipartita a breve distanza di Nicolò Cassana, del Gran Principe e di Giovanni Castelli, zio dell’agente a Venezia della corte toscana, socio in affari con Cassana e tra i primi committenti documentati di Grassi. Sulla ribalta artistica tra i “comendabili sopra tutto in ritratti” (così la guida di Venezia di Coronelli del 1713), Nicola Grassi trovò nelle committenze pubbliche religiose un parallelo ottimo mercato, lo testimoniano i diciannove Santi francescani ordinatigli nel 1711 dai frati di San Francesco della Vigna, di cui sono sopravvissuti quattro esemplari oggi nella sacrestia della chiesa veneziana. Dopo i primi anni a gestire, diciamo così, l’eredità cassanesca, Grassi dovette aggiornare la propria posizione stilistica accordandola sulle novità portate avanti da un suo esatto e grande coetaneo, Giambattista Piazzetta, di luce, di ombra e di nuovo realismo, quello appreso da Crespi. L’ammirazione fu fondamentale e mai più interrotta, lo prova la tarda Pietà di collezione Buttò che Nicola Grassi esempla sul modello della piazzettesca Morte di Dario oggi a Ca’ Rezzonico. Con Tiepolo il rapporto fu più intermittente: autore di quattro pennacchi all’Ospedaletto (che andrebbero restaurati dopo il non più così recente incendio), Grassi deve essere comunque essere rimasto colpito dalla dinamica chiaroscurale, permettimi da ‘Tintoretto alla seconda’, che Giambattista mise in campo nelle sue opere in quel ciclo.
La conseguente Rebecca al pozzo è il capolavoro di Nicola Grassi ed è la risposta migliore alla scelta ‘neotenebrosa’ di un artista originale che ha trovato – trentottenne circa – la sua via. Il rientro dall’estero di Sebastiano Ricci e di Antonio Pellegrini, già amici di Cassana, contribuirà alla svolta luminosa dell’arte di Grassi, che deve molto, come tanti altri pittori veneziani di quegli anni nella mia opinione, all’insegnamento di Antonio Balestra, il veronese allievo di Maratti da cui Nicola trae non solo eleganti modelli figurativi ma, pure, la consistenza lattea della pittura, come si vede nella Flagellazione di Cristo di Budapest.
Alla fine del terzo decennio il linguaggio di Nicola Grassi sarà definito: il luminoso San Giuseppe di Ossero, in Croazia, è del 1730, l’anno seguente firmerà l’iridescente Pietà di Endenna di Zogno, nel bergamasco. I cambiamenti stilistici seguono con sincronismo i fatti artistici veneziani, nonostante le opere siano destinate verso realtà che a noi oggi possono sembrare lontane da San Marco ma che, invece, dovevano avere dei legami con la Dominante: un caso è la Santa Caterina di Sot, in Serbia, allora feudo dei principi Odescalchi e sotto la direzione religiosa dei francescani, ordine per cui Nicola lavorò con continuità. Un altro esempio è la serie di sedici tele con il marchio della manifattura tessile Linussio nel duomo di Tolmezzo che menzionavi, ognuna rappresentante, sulla scorta degli Apostoladi piazzetteschi, il mistero umano e divino di Cristo, della Madonna, dei santi e della crocefissione: esse in più traducono visivamente l’ideologia del committente e imprenditore, un uomo nuovo, disinteressato a titoli nobiliari, che affermò di essere uno strumento della Provvidenza nel voler portare benessere, superando sacrifici e fatiche, alla Carnia.
Ancora riguardo ai dipinti di Tolmezzo alcuni studiosi ritengono che nel san Luca abbia voluto raffigurare se stesso, mentre mi pare che tu propenda a ritenere come suo autoritratto un altro lavoro, di un paio d’anni dopo; puoi spiegare perché questa idea potrebbe essere quella giusta?
R: In realtà non propendo per nessuna ipotesi. Lo studioso che pubblicò il secondo dipinto che intendi, cioè Egidio Martini, lo propose in maniera dubitativa, opinione che mi son sentito di rispettare di fronte pure allo stato conservativo non perfetto dell’opera, la cui identificazione resta suggestiva per la posa, si direbbe allo specchio, dell’effigiato. Del resto, non abbiamo veramente nessun dato che il San Luca di Tolmezzo possa raffigurare Nicola Grassi: c’è qualche labile somiglianza con la prima tela che si diceva, ma in realtà l’evangelista risponde a un tipo, più che a una specifica effigie, alla fine dei conti abbastanza consueto nel repertorio del maestro. Inoltre, una fonte riporta che nell’Adorazione dei magi del 1740 ci fosse l’autoritratto del pittore, ipotesi che pare da scartare per l’assoluta genericità dei personaggi rappresentati, così come pare che sia Andrea Zucchi il ritrattato nell’incisione del 1719 da un dipinto, disperso, di Nicola Grassi.
Nella produzione di Nicola Grassi possiamo trovare alcuni grandi lavori e opere di carattere meno elevato, forse meno ispirato; se è vero che nella carriera di un artista queste discrasie non devono meravigliare tuttavia nel caso di Grassi si può ritenere che questo sia l’effetto di un percorso forse troppo attento al richiamo delle altre esperienze e quindi meno originale? puoi spiegarne i motivi?
R: La strategia creativa di Grassi si basò, in effetti, molto sul confronto e l’interpretazione con i risultati degli altri maestri del Settecento veneziano: chiaramente ci furono dei momenti di stanchezza, soprattutto dopo la metà del quarto decennio, con la morte di Sebastiano Ricci che sicuramente fu un faro per l’arte di Nicola. Ci fu una prima ripresa all’indomani dell’esposizione, in piazza San Marco, dell’Assunzione della Vergine di Giambattista Piazzetta per la Germania, spettacolare opera di tavolozza schiarita che ebbe un pubblico successo rinfrancando lo spirito coloristico di Grassi. La decisiva linfa d’ispirazione giunse con il ritorno in patria di Jacopo Amigoni, nell’estate del 1739. La cifra internazionale della pittura amigoniana diede lo stimolo finale all’ultima attività di Nicola Grassi che iniziò a cimentarsi pure nella decorazione di soffitti, sempre su tela. Va poi aggiunto che la discontinuità avvertibile in opere che ritengo comunque autografe della maturità dell’artista è imputabile nell’intervento di aiuti, che vedrei attestati dal Giacobbe pianta le verghe della parrocchiale di Sezza di Zuglio, in Carnia, pendant di una Rebecca al pozzo di tenuta qualitativa più alta. Il problema dei collaboratori e dei seguaci dell’artista è stato discusso nella mia monografia: se le fonti ricordano come suoi allievi il bavarese Franz Lichtenreiter e il friulano Fortunato Antonio Venturini, si possono individuare altre anonime personalità interessanti che hanno utilizzato i suoi stilemi, così come si può ipotizzare con buone ragioni l’influsso di Grassi su Francesco Sebaldo Unterperger e Cesare Ligari. Senza dimenticare che il padre di Nicola, il sarto Giacomo Grassi, fu ricordato “pittor” nel necrologio del 1733.
In un contesto artistico figurativo di primo livello, quale quello veneziano del XVIII secolo, con nomi quali Tiepolo, Piazzetta, Balestra, Bellucci, Ricci, è plausibile ritenere le opere di Nicola Grassi adeguate a sostenere il confronto, per qualità, inventiva, ispirazione ?
R: Assolutamente sì. Reputo profondamente errato pensare, come si fa oggi nell’età delle mostre a ciclo continuo, che l’arte – di qualsiasi epoca – sia degna unicamente per merito dei grandissimi. Per quanto mi riguarda, nelle presentazioni del volume ho spesso affermato che il Settecento a Venezia è stato un concerto pittorico meraviglioso e che le migliori orchestre non sono fatte da soli primi violini. Nicola Grassi fu ricordato nella Descrizione delle pubbliche pitture del 1733 e, con parole di lode, nella Pittura Veneziana del 1771, le principali fonti per la conoscenza di quella civiltà figurativa: è dunque storicamente provato che fu un coprotagonista di una grande tradizione. Spero che con il mio lavoro si sia meglio percepito il suo posto in quel mosaico che va da Bellini a Canova: direi non tra i capifila, ma neanche tra i muti gregari al seguito. Nicola Grassi ha una voce originale, è un utile testimone e spesso interprete simultaneo d’importanti accadimenti pittorici: la sua capacità di reazione ne dimostra l’innegabile stoffa, quasi fosse uno di quegli incassatori nello sport, come certi tennisti abili a rimandare indietro e in campo il colpo, magari lo smash da campione, dell’avversario. Anche questo è talento e si può vincere qualche torneo.
Ultima domanda, una curiosità: hai pubblicato un disegno di Giambattista Tiepolo in collezione privata che raffigura la scuola dl nudo, dove proponi di riconoscere lo stesso Tiepolo e probabilmente Piazzetta; hai potuto riconoscere qualcun altro, magari proprio Grassi ?
R: Quello splendido disegno, piuttosto famoso, fu scoperto da Antonio Morassi ed è stato recentemente esposto a Venezia a Palazzo Ducale.
Curiosamente non molti studiosi si sono dati da fare per capire chi fossero i vari artisti rappresentati in questa classe di un’accademia che a Venezia non esisteva (l’istituzione fu fondata appena a metà secolo). Su Valori Tattili ho iniziato a rifletterci sopra, dopo aver riconosciuto Antonio Balestra nel personaggio seduto all’estrema destra in primo piano mentre disegna sul foglio di un allievo, il cosiddetto corrector di Morassi, in virtù dell’autoritratto degli Uffizi e della testimonianza zanettiana sulla “scuola” che il maestro veronese teneva aperta per la “gioventù”. Accanto dovrebbero quindi stare gli scolari diretti di quel tempo, ricordati sempre da Zanetti, Mattia Bortoloni e Giambattista Mariotti, mentre alle spalle di Balestra c’è in piedi Gregorio Lazzarini, i tratti del volto assommabili all’autoritratto del museo Correr, anche lui ricordato come responsabile di una scuola artistica. Il ‘camerone’ dovrebbe essere quello preso anni prima in affitto dal Collegio dei Pittori con la destinazione di ‘scuola del nudo’: l’autore del disegno dovrebbe essersi raffigurato nel giovane un po’ spettinato, dallo sguardo vigile e dal caratteristico naso un po’ adunco, in seconda fila verso l’angolo; pure la fisionomia regolare di Giambattista Piazzetta, in prima fila l’unico che non disegna, appare riconoscibile in base all’autoritratto giovanile già del conte Firmian. La caccia è aperta, bisognerà capire chi sono gli altri effigiati: l’incertezza sui due ipotetici autoritratti di Grassi, comunque di datazione avanzata, trova un ulteriore riprova nella circostanza che non si trovano qui volti a loro assimilabili. È in corso di stampa un saggio di Matej Klemenčič, che insegna all’università di Lubiana, con la proposta d’identificare lo scultore Antonio Corradini nella figura del grosso modellatore che si vede nella seconda fila superiore tra la finestra chiusa e il lampadario. Come vedi, sul Settecento e non solo veneziano c’è ancora molto da scoprire.
P d L ottobre 2019