“Paolini e il teatro di Caravaggio”, la “luce” del maestro lucchese illumina la mostra.

di Vittorio SGARBI

I Pittori della Luce. Da Caravaggio a Paolini

(saggio in occasione della mostra; ringraziamo l’autore per la gentile concessione)

L’intenzione è quella di restituire a Pietro Paolini, lucchese, la reputazione e la estrema centralità, nel novero dei caravaggisti, che gli era stata riconosciuta dalle fonti storiche, dai collezionisti e dagli antiquari, con una debole reazione degli storici e degli studiosi, fino alla prima, sonora, avvisaglia della monografia di Patrizia Giusti Maccari (1987), per molti versi meritoria. Ma a questa non è seguita una rinnovata prospettiva storica, come è toccata, nella stessa stagione degli studi, a personalità come Serodine, Tanzio da Varallo, Guercino, Guido Cagnacci, Mattia Preti, Battistello Caracciolo. Forse anche per ragioni geografiche. L’intensità di attenzioni per la pittura lombarda, dopo l’ouverture caravaggesca di Longhi, con l’assidua attenzione di Giovanni Testori ai maestri dei Sacri Monti; per la pittura emiliana, con le grandi mostre di arte antica, e il rilancio di Guercino e Cagnacci (attraverso la morbosa passione monogamica di Sir Denis Mahon per Guercino, e il coinvolgimento erotico di Arcangeli e Pasini per Cagnacci); e per la pittura napoletana, con l’impegno “mostruoso” di Raffaello Causa e di Nicola Spinosa, ha lasciato ai margini la Toscana, annuvolata nella immaginazione visionaria di Furini, Cecco Bravo e Pignoni. E Toscana, con la variante senese, innescata dalle fruttuose ricerche di Giovanni Pratesi, vuol dire Firenze, con le imprese critiche di Piero Bigongiari, Mina Gregori, Luigi Baldacci, Carlo del Bravo, e il valoroso seguito di Giuseppe Cantelli, Francesca Baldassari, Sandro Bellesi. Così, fra gli altri, è toccata gloria (da Brandi a Bagnoli) a Rutilio Manetti e a Bernardino Mei. Mentre defilata è sempre rimasta, con i suoi artisti, Lucca. Nella risonanza verso i profeti, i primi maestri delle ricerche di così attrezzate e agguerrite schiere di critici, il nome di Pietro Paolini non è mai evocato, per esempio, dal Berenson, dal Longhi e, dal Voss, che non gli riconobbero la statura che gli era dovuta, dedicandogli attenzione e considerazione. E questo nonostante che alla “Mostra della pittura italiana del Sei e Settecento”, nel 1922 a Palazzo Pitti, proprio Longhi avesse giustamente attribuito a Paolini il Ritratto virile già in collezione Marchesi, ritenuto del Caravaggio; e Voss alitato il suo parere (soltanto orale) sul notevole Ritratto di uomo con frontespizio di Dürer del Memorial Art Gallery di Rochester, capisaldi della poetica di Paolini.

Dopo la monografia della Maccari, principia un intermittente ma non decisivo interesse critico sul maestro, che aveva episodicamente attratto l’attenzione di studiosi come Alessandro Marabottini Marabotti, Anna Ottani Cavina, Roberto Contini, e, in tempi più recenti, Gianni Papi e Nikita de Vernejoul. Che, d’altra parte, Paolini, nel variegato arcipelago caravaggesco, fosse destinato alla marginalità è dimostrato da una circostanza paradossale: negli anni delle cacce di mercanti e conoscitori come Maurizio Marini, Mario Bigetti, Luciano Maranzi e Federico Zeri, uno dei suoi più bei dipinti, il Concerto a cinque figure, ora in collezione Micheli, sostò a lungo negli ambienti di un locale notturno romano molto frequentato negli anni ‘80, l’“Open Gate”. La sacralità del capolavoro non aveva avuto lusinghieri riconoscimenti. E non meno singolare è che a me sia toccato intercettare la pala d’altare per la cappella di una delle famiglie più importanti di Lucca, i Mazzarosa, sostituita da una copia invece di essere immobile per destinazione. Possiamo dunque dire che, in tempi moderni, la sua fortuna sia stata carsica, benché stabile, e sostenuta più dal collezionismo che dagli studi e da occasioni pubbliche. Questa è la prima volta che ne sono chiamati a raccolta tanti.

Ho voluto preparare l’esposizione partendo dalla rivoluzione di Caravaggio, indiziaria, con la presenza di un’opera assai notevole come il Cavadenti, sulla quale, per taglio e genere, sicuramente Paolini dovette riflettere, testimoniando la più integrale coerenza tra i pittori di luce. Sono molto pochi i riferimenti cronologici e documentari sulla lunga vicenda umana e artistica di Paolini, che pure per Filippo Baldinucci fu «pittore di gran bizzarria, e di nobile invenzione». Le notizie raccolte dall’erudito lucchese Giacomo Sardini (1750-1811) furono pubblicate postume da Tommaso Trenta (1822). Secondo Baldinucci Paolini fu a Roma, nel fervore caravaggesco, per sette anni. Tornò aLucca dopo la morte del padre ed era ancora a Lucca quando iniziò il «contagio» in cui morì la madre. Notizie confermate dai pochi dati disponibili: della permanenza a Roma è traccia in un documento del 1628, quando Paolini è registrato negli Stati delle anime di san Biagio della Fossa. Il padre morì verosimilmente nel 1626, e Paolini è menzionato con i fratelli in un atto di sequestro del 1628. É  poi documentato a Lucca nel 1632 e nel 1633. È  che il ritorno sia avvenuto gradualmente, e che Paolini abbia alternato rientri in patria, richiamato dalle urgenze familiari, a fruttuosi soggiorni a Roma per aggiornarsi sui fatti artistici fino al 1629-1630, quando scoppiò l’epidemia di peste. Cos’era avvenuto in quei trent’anni, a partire dall’arrivo di Caravaggio a Roma nel 1595 circa, e poi per due, e anche tre, decenni dopo la sua morte? La mostra tenta di spiegarlo non come una rappresentazione dei tanti e variegati volti del caravaggismo a Roma, ma attraverso l’elemento più innovativo, più discontinuo, rispetto all’età del manierismo che è il tema della luce.

Dal Cavalier d’Arpino al Caravaggio, soprattutto quello drammatico degli ultimi quattro anni, la sostanziale discontinuità è rappresentata dall’ambientazione e dagli interni illuminati artificialmente. Si passa dal giorno alla notte; ed è come se la situazione notturna presupponesse una sfida, attraverso l’introduzione di nuove fonti luminose, attraverso la luce artificiale. Una parte cospicua della produzione caravaggesca sembra annunciare, con modi intuitivi e allusivi, l’era della elettricità. L’ ambientazione notturna si era manifestata in alcuni tentativi suggestivi e sperimentali nel nord Italia negli anni della formazione di Caravaggio, in Savoldo, Bassano, Antonio e Vincenzo Campi, Cambiaso. Tutti fenomeni guardati con sicuro interesse da Caravaggio giovane. Nella produzione matura di Caravaggio queste ambientazioni annunciate, primamente nella Vocazione di san Matteo, sono lo scenario obbligato, a partire dalla Morte della Vergine, e soprattutto dalla Cena in Emmaus del 1606, alla quale si legano una recente acquisizione come l’Ecce Homo di Madrid e, di conseguenza, i capolavori napoletani, in particolare le Sette opere di misericordia con la luce di una sola fiaccola, nel buio di una convulsa strada di Napoli. E sarà così in tutte le opere successive, dalla Decollazione del Battista de La Valletta al cupo e terribile Seppellimento di santa Lucia di Siracusa, alla Natività e alla Resurrezione di Messina, alla Negazione di Pietro, al Davide e Golia della Borghese. L’ultimo Caravaggio è tutto a luce artificiale.

La prima risposta a queste ambientazioni notturne viene da Rubens a Roma, quando, nel 1609, dipinge la suaNotte” per la Chiesa dei Filippini di Fermo. Una prova virtuosistica di effetti speciali, dove il bambino è come un bozzolo di luce al neon che irradia sui personaggi circostanti. Dopo la morte di Caravaggio, nel 1610, lo spagnolo Jusepe de Ribera e il francese Valentin de Boulogne sono i due più importanti protagonisti della pittura naturalista a Roma. A differenza di Ribera, che nel 1616 si stabilisce a Napoli –all’epoca sotto la dominazione spagnola– l’intera carriera di Valentin si svolge a Roma. A lui tocca un posto da grande protagonista, muovendosi con agilità in tutti i soggetti affrontati dal maestro, con risultati sorprendenti e innovativi, soprattutto per l’invenzione di una luce strisciante e uniforme, dai riflessi perlacei, che si vede anche nel San Giuseppe e l’angelo recentemente apparso a Londra. Il pittore italiano che mostrerà più vivo interesse in questa direzione è proprio Pietro Paolini ma, prima di arrivare a lui, nel tempo del suo soggiorno a Roma nel terzo decennio del Seicento, la sperimentazione “elettrica” passa per numerosi maestri, a partire da quelli che avevano vissuto l’esperienza napoletana, in primis Battistello Caracciolo così come lo vediamo nella Liberazione di san Pietro al Pio Monte della Misericordia in dialogo con il maestro, nella Immacolata concezione per la chiesa di santa Maria, nella Salomè degli Uffizi e infine nella declinazione tragica della Santa Caterina da Siena della Fondazione Cavallini Sgarbi. Tutta la produzione di Battistello è tentazione di effetti luminosi in termini radicali, che raggiungono il loro apice nella ricerca della personalità denominata pertinentemente “Maestro del lume di candela”, più o meno coincidente con la figura storica di Trophime Bigot, spericolato sperimentatore di mirabili effetti di controluce, certamente stupefacenti. Ed è sulla sua scia che va registrata l’esperienza di Gherardo delle Notti. La così intensiva concentrazione su questa pittura di luce è attestata, in diverso modo, da artisti come Bartolomeo Manfredi, Giovanni Francesco Guerrieri, Mattia Preti, Rutilio Manetti, in una lunga escursione che include anche, con radicale convincimento, Pietro Paolini. Una notevole prova di Rutilio Manetti, una inconsueta Cattura di Pietro, attestata ab antiquo nella villa Maidalchina di Olimpia Pamphilij presso Viterbo, mostra un’emergente fiaccola sul fondo che irradia luce sull’episodio di teatrale complessità. Ma non sarà difficile riscontrare analoghi effetti in Ercole e Onfale di Giovanni Francesco Guerrieri, nelle Tentazioni di san Francesco di Simon Vouet in San Lorenzo in Lucina o nel seducente Amore Vincitore di Orazio Riminaldi.

La complessa esperienza di Pietro Paolini, che presuppone una fuga dalla realtà in favore di una rappresentazione di carattere teatrale, è condivisaanche con effetti più scenografici, da Mattia Preti. Giustamente per Paolini Nikita de Vernejuol parla di “commedia dell’arte”. Il pittore non dipinge la realtà, ma mette in scena episodi di interpretazione attoriale dei Bari e della Buona Fortuna. Puro teatro è anche il Ritratto di famiglia, inscenato nella bottega dell’artista, con l’autoritratto del pittore che esibisce un suo dipinto indicato dalla madre perché l’artista che lo fronteggia (il fratello?) ne derivi un’incisione. Ed è in questa chiave, condivisa con Mattia Preti, che si misura la peculiarità di Paolini, e si determinerà una scuola o un atteggiamento locale, se si ritrova nei dipinti intenzionalmente arcaizzanti, nei soggetti di genere, di Giovanni Domenico Lombardi. Un interessante caso di revival “ravvicinato”, nel tentativo di conservazione di un’aura seicentesca fuori tempo massimo, anche per lo stesso pittore, se si confronta con la sua produzione religiosa in pale d’altare come il Martirio dei santi Giovanni e Paolo e il Martirio di san Romano.

Le sperimentazioni luministiche consumate dai caravaggeschi a Roma entro il secondo decennio con le prove di Ribera, Cecco del Caravaggio, Gentileschi, Borgianni, Saraceni, hanno il loro approdo nella manfrediana methodus che vede il suo interprete più autorevole in Valentin de Boulogne, seguito da altri maestri francesi, nei soggetti di vita di strada che moltiplicano le opere del primo tempo di Caravaggio tra i Bari e la Buona ventura. Paolini nel suo soggiorno romano si muove in questo ambito e ne trasferisce l’atmosfera e le capricciose invenzioni, già entro lo scadere del secondo decennio, a Lucca. Lo ha stabilito in modo impeccabile la de Vernejuol, scrivendo: «Valentin de Boulogne è l’artista a cui Paolini si avvicina di più, stilisticamente e concettualmente. Si saranno incrociati per strada, in botteghe di pittori o in case di mercanti d’arte. Paolini adotta l’inquadratura serrata che concentra l’attenzione sull’essenziale, i volumi pieni delle figure ritagliate, la pennellata grassa e l’illuminazione laterale che stacca i volti dallo sfondo».

Lo misuriamo anche nell’inedito Pitagora, or ora apparso in un’asta a Londra. Nella sua lettura delle opere dell’artista, soffermandosi sul personaggio inquietante all’estrema sinistra del dipinto I bari con cinque personaggi, la studiosa aggiunge osservazioni interessanti che spiegano l’insistente riferimento di Paolini a Caroselli: «Fin dall’inizio Paolini introduce delle bizzarrie nei suoi dipinti. Gli errori nelle proporzioni dei personaggi, le distorsioni delle prospettive e gli oggetti in bilico, non possono essere ascritti solo alla giovinezza del pittore, ma testimoniano anche un desiderio consapevole di introdurre dubbio e turbamento».

Questa idea di una pittura che non è una presa diretta sulla realtà ma la ripresa di una rappresentazione teatrale, di una recita, è molto convincente. Lo indicano i gesti delle dita, alla bocca del perplesso innamorato allo specchio, del giovane e divertito complice, nella Buona fortuna. Anche per il Concerto bacchico, capolavoro del pittore conservato a Dallas, siamo evidentemente davanti auna rappresentazione. La de Vernejuol parla appropriatamente di tableau vivant. Il concerto in costume contemporaneo è guidato da un giovane Bacco, una donna suona il liuto, gli altri cantano, e intanto la giovane donna di spalle con un liuto a tracollo si allontana dal gruppo, leggendo o cantando, fuori scena. Le composizioni di Paolini sembrano nascondere un rebus. Anche la cosiddetta Età della vita declina il caravaggismo in una chiave nuova, con la citazione esplicita del vaso di fiori che viene dal Caravaggio del primo tempo. L’atmosfera, come d’abitudine, è notturna, con una luce strisciante che dà volume alla figura del vecchio e della ragazza vanitosa. Escluderei che il soggetto corrisponda al titolo convenzionale. Paolini non è mai allegorico o didascalico. Non si può escludere che, per arrivare a risultati così sofisticati, sotto il dominio di luci radenti, Paolini abbia valutato l’esperienza di un altro provinciale a Roma, documentato presso Marcantonio Borghese, cugino di Scipione, tra 1615 e 1618: Giovanni Francesco Guerrieri, detto il Fossombrone. Per composizioni e combinazioni sono evidenti le affinità tra opere come le allegorie di Paolini, l’Ercole e Onfale di Guerrieri, il Giovane uomo al bivio tra virtù e vizio di Angelo Caroselli.

Su queste convergenze e equivoci si sonomisurati Marta Rossetti e, specificamente, Giovanni Papi nel saggio dal titolo eloquente: “Un dipintodi Giovanni Francesco Guerrieri e uno di Caroselli scambiato per Guerrieri”. Allo stesso modo, in bilico tra Caroselli e Paolini, è il Ritratto di giovane con una maschera in mano.

Al rientro a Luccale scene di genere lasceranno spazio a soggetti sacri di ascendenza neo caravaggesca con espliciti riferimenti a van Baburen e a Carlo Saraceni. Al 1630 vanno riferiti i Martìri di san Bartolomeo e di san Ponziano, e il potente San Rocco della chiesa dell’Addolorata di Lupinaia, con il pensoso cane. È questo il momento di rimeditare su Gherardo delle Notti e Trophime Bigot, in dipinti come il Ritratto d’uomo che scrive al lume di una lucerna, ora a New York, e il Ritratto virile già in collezione Marchesi. E se si avverte una trasformazione dei soggetti di genere verso una pittura più morbida nel Ritratto allegorico di donna della collezione Koelliker e nell’Allegoria della vista e del tatto degli anni Trenta, capolavori di durevole invenzione appaiono La lezione di astronomia, l’Allegoria della vita e della morte, di Palazzo Mansi e l’Allegoria della morte di Palazzo Cerralbo di Madrid.

Al culmine di questo percorso vanno la Madonna del Rosario con san Domenico e santa Caterina, il Martirio di sant’Andrea in San Michele in Foro a Lucca  e l’ Eccidio degli ufficiali del generale Wallenstein in Palazzo Orsetti a Lucca, commissionato insieme a una perduta Uccisione del generale Wallenstein dai Diodati, precedenti proprietari di palazzo Orsetti, a ridosso del complotto che il 5 febbraio 1634 portò all’uccisione di Albrecht von Wallenstein in cui era coinvolto anche Giulio Diodati.

Si tratta del più straordinario telero, scenografico e rembrandtiano, quasi una “ronda di notte”a Lucca. Un tumulto, un temporale, una storia di violenza. L’aveva bene inteso il Baldinucci dicendo: «Diede gran forza alle sue figure valendosi di scuri profondi». Il pittore da stanza, con molte variazioni su temi musicali, come nel Concerto a cinque figure della collezione Micheli o nel Mondone che suona il liuto con Cupido in attesa, lascia spazio a un artista diverso, ma ancora riconoscibile, che si afferma nei soggetti devozionali, in capolavori intensi e drammatici come i Santi Carlo Borromeo e Felice da Cantalice e l’Adorazione del Santissimo Sacramento nella chiesa di sant’Andrea a Gattaiola.

Difficile poi capire, nella produzione della maturità, come Paolini, già intorno alla metà del secolo, possa trasformarsi in un pittore di gusto neoveneto (se non neomelodico!), dipingendo la pala d’altare già Mazzarosa, ora in Fondazione Cavallini Sgarbi. Caravaggio è dimenticato per Paolo Veronese, proiettandosi Paolini verso Pietro da Cortona, nell’ampio panneggiare della veste di santa Caterina e nel rilievo antico sullo sfondo, e aprendo la strada alle contrite opere devozionali di Girolamo Scaglia e alle scenografie luminose di Giovanni Coli e Filippo Gherardi.

Un fenomeno curioso di approfondimento teatrale e virtuosistico dei dipintidi genere di Paolini, certamente tenuto come modello, con l’insistente riferimento al lume artificiale come unica fonte di luce, in cupi notturni, è nell’opera di Pietro Ricchi. La leggenda è quella di un artista che “non meno sapea maneggiar la spada che i pennelli”. Anche nel caso di Ricchi la lezione di Paolini, virata in effetti speciali, deriva da uno spunto caravaggesco riconosciuto dal Baldinucci, tutto giocato sulla luce di candele, a partire dalla fiaccola delle Sette Opere di Misericordia di Caravaggio, attraverso il modello di Trophime Bigot e appoggiandosi, infine, al maestro lucchese, come si vede nella Giuditta con la testa di Oloferne del Castello del Buonconsiglio di Trento. Con Ricchi, già verso il 1660, la pittura di luce si spegne, e la lunga notte densa, intensa e misteriosa–vera–di Paolini finisce nei fuochi d’artifici

I Pittori della Luce. Da Caravaggio a Paolini a cura di Vittorio Sgarbi.Lucca, 8 dicembre 2021–2 ottobre 2022

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