Metti un dipinto e un testo popolare del ‘500 e lo storico dell’arte si trasforma in linguista, nell’ultimo libro di Marco Tanzi

P d L

Conosco Marco Tanzi –come credo non pochi dei lettori che mi stanno leggendo- solo nelle vesti di valoroso storico dell’arte, autore di pregevoli pubblicazioni per lo più dedicate all’arte e alla pittura padano lombarda, oltre che di altrettanto pregevoli esposizioni, tra cui mi basti citare quella chiusasi nel gennaio del 2018, al Museo Ala Ponzone di Cremona dedicata a Luigi Miradori, il Genovesino, che ebbi l’opportunità di visitare con altri colleghi di Bologna, trovandola davvero impeccabile. E certamente –non posso non confessarlo- se non fosse stato per un comune conoscente (un po’ squinternato) che me ne ha fatto dono, probabilmente avrei forse appena appena sfogliato e neppure tanto attentamente il libretto di cui mi accingo a parlare, che presenta come copertina –e come titolo- una stampa del 1608 “In laude del famosissimo Cabalao” rimaneggiata in modo da far comparire in quello stesso stile antico il nome dell’autore moderno (cioè Marco Tanzi Cremonese).

Copertina (avanti e retro)

Il quale già dall’inizio non ci nasconde (excusatio non petita …) che la stesura del volumetto è tutta colpa degli “effetti del covid sulle alterazioni psichiche di uno storico dell’arte in quarantena” casualmente imbattutosi in un componimento poetico di fine Cinquecento che- come vedremo- corrispondeva in modo tanto curioso quanto preciso ad una tela, che un antiquario sudamericano gli aveva inviato in foto per uno studio.

Non siamo certo di fronte a chissà quale invenzione letteraria, beninteso, cioè non è come il trucco cui ricorre Manzoni di datare al XVII secolo la vicenda dei Promessi Sposi, al contrario è quasi prassi che chi si ritrovi recluso senta l’urgenza di leggere e scrivere, un’evenienza in cui si sono trovati in molti: sappiamo bene che la reclusione forzata è una delle circostanze che sviluppano al massimo livello la voglia di lettura ed evidentemente di scrittura. Tanto per fare qualche esempio più nobile (Tanzi non se la prenda), tutti sanno che Gramsci scrisse i Quaderni in carcere, mentre forse pochi sanno che Eleonora d’Aquitania, la colta, bella e ribelle regina, compare nel sarcofago che ne racchiude le spoglie, scolpita, non per caso, con un libro tra le mani. Per non dire poi, per ritornare ai nostri giorni, che la grande disponibilità di tempo è stata un’occasione colta al balzo da numerose piattaforme di streaming che hanno invaso i computer con riscontri molto significativi.

Detto questo, se è vero, come ha proposto di recente su la Repubblica lo scrittore argentino Alberto Manguel, ossia, più o meno, che come una pagina de La Recherche  anche una di Pinocchio possono offrire consolazione e illuminazione se ci troviamo soli in una stanza, perché meravigliarsi se la occasio al nostro autore sia venuta dalla trama di un testo che, come lui stesso avverte “definire minore sarebbe più che un eufemismo” ? Senza contare che per chi –il sottoscritto- è immerso quotidianamente nella lettura e redazione di articoli da passare su About Art, di pubblicazioni da lanciare se non proprio recensire, oltre che nella continua spesso spasmodica attenzione alle novità editoriali che nel nostro campo pressoché quotidianamente ci vengono segnalate, rivolgere l’attenzione al Cabalao non era un dovere così impellente.

E allora cosa è capitato? E’ capitato più o meno quello che, come ci confessa l’autore, è accaduto a lui stesso cioè di doverci interessare di un argomento tutt’altro che ‘alto’ spinti dalla curiosità di capire bene fino in fondo innanzitutto chi fosse il nostro Cabalao, tanto più considerando che in ogni caso è stato capace di riuscire a scomodare –al di là della richiesta dell’antiquario- le attenzioni di un docente universitario stimato come Tanzi, e in secondo luogo che cosa si celasse dietro un “personaggio da Commedia dell’arte”, ma a guardar bene forse non così trascurabile se è vero che era stato fatto oggetto a suo tempo di attenzione da parte di “letterati e musici di vario livello” fino al punto addirittura “di essere effigiato in un dipinto di dimensioni cospicue

Pasqualino Rossi (cerchia di), Quando che Cabalao vendeva menole …”, ubicazione ignota

C’è da credere però, leggendo il volumetto, che piuttosto che investito da una sorta di fulminazione come Paolo sulla via di Damasco, lo studioso Tanzi si sia occasionalmente trasformato in un camaleontico Zelig, indotto dalla curiosità a spingersi in un’impresa letteraria fuori del suo usuale campo d’indagine, prendendo in esame un testo, come si è visto, classificato minore, ed un dipinto considerato nient’affatto “un bel quadro!” e tuttavia entrambi in grado di portarlo ad “indagare sul rapporto tra testo e immagine”, a cercare di “sapere chi era questo Cabalao”. Di qui, dunque, a causa della pandemia –o forse, se non suona blasfemo, grazie ad essa- l’idea e insieme la necessità, smesse le vesti di storico dell’arte, di mettersi al lavoro sul “Capitolo in sdruzzolo in laude del Famosissimo Cabalao”, vestendo i panni del filologo e del linguista, senza però tralasciare di scusarsi in vari passaggi con chi quelle discipline le pratica professionalmente, e non senza aver dato conto dei meriti che vanno agli “aiuti” di Andrea Canova e alla “erudizione enciclpoedica” del compianto Giampaolo Dossena, scelto come proprio personale Virgilio.

Ma– e lo diciamo subito fuori da ogni possibile fraintendimento- è  evidente che Tanzi non sta per niente giocando a nascondersi dietro vesti non sue, perché riappare subito lo studioso a 360 gradi, capace di infilarsi senza remora alcuna in un campo rivelatosi “un intrigo di labirinti dai quali si snodano altri labirinti o, se vogliamo, una congerie di scatole cinesi”.

Si può capire perché allora ad un certo punto anche il sottoscritto, riponendo da un lato della scrivania altri volumi in predicato di recensione (e mi scuseranno gli amici Riccardo Lattuada, Daniela Scaglietti Kelescian, Richard Spear, oltre alla prof.ssa Annalisa Stancanelli e all’avvocato, grande collezionista ma anche scrittore, Stefano Antonio Marchesi, ma prometto che dei loro brillantissimi volumi mi occuperò al più presto) si è avviato alla lettura e a questa breve sintesi di un’opera che effettivamente con quelle degli amici sopra citati c’entra solo di sguincio. La curiosità dunque è stata la molla che poi non ha mosso solo il sottoscritto. A dimostrarlo posso raccontare un episodio -tacendo l’attore che insieme a chi scrive ne è stato protagonista- che credo farà piacere a Marco Tanzi, il quale mi pare abbia collezionato in questa circostanza considerazioni ed applausi da filologi e letterati ma non da storici dell’arte, mentre in questo caso di un noto docente storico dell’arte si tratta; incontrandoci in un caffè al Babuino e vedendo il libro nelle mie mani (in effetti me lo portavo spesso dietro per leggerlo più in fretta) “Accidenti –mi ha detto- Ma è di Tanzi ?! Ma com’è che si è messo a scrivere queste cose?” poi dopo sfogliate alcune pagine “beh –ha proseguito- me lo ordino subito, è davvero simpatico e intrigante”.

Lodewijk Joseph Fruytiers, Nanetto con nasone e barba, Anversa, Plantin Moretusmuseum

Ora, per tornare al Cabalao, posso dire che per chi, come il sottoscritto, è appassionato della ricerca storico artistica -specie quando non è inficiata da incursioni di malaccorti pseudo esperti né, d’altra parte, da un malinteso spirito di corpo-, è stato un piacere scoprire come Tanzi abbia saputo via via dipanare l’intricata matassa concernente l’intera vicenda collegata al Cabalao letterario prima e a quello pittorico poi, risalendo con ragionamenti stringenti, frutto di deduzioni e dimostrazioni sempre assai ben argomentate, alla paternità di chi ha creato la figura del “venditore di pescheria minuta, aghi e spille … fiori e zoccoli nei pressi di Rialto”, Cabalao, appunto, il “nanerottolo, con le gambe storte ed il crapone”. Sono davvero chiaro esempio, le pagine dalla 19 alla 23, di cosa voglia dire costruire un impianto compositivo, ossia disegnare l’architettura che sostiene il racconto, con pagine significative del metodo con cui l’autore abbia saputo lavorare su “una cosuccia che più di nicchia non potrebbe” illustrando lo “strano personaggio … giovane, sventurato e ridicolo”, una figura “tanto nota e ricorrente nella letteratura popolare” al punto che il nome di Cabalao finirà per essere associato ad “una persona sciocca che coltiva tuttavia velleità di grandezza stolide e ingiustificate” alla stregua di “un piccolo sgangherato Rodomonte”.

E mi dica chi non ne ha conosciuto qualcuno che rispondesse a questa fisionomia, non solo nei pressi di Rialto ma ben oltre, come ci fa capire bene il testo di Giorgio Zarafaio risalente al 1606 recuperato dallo studioso, dove l’apertura è più che significativa

“Son quel nobile Cabalao/ da le zente nominato/ per Venezia e in altre bande/ la mia fama ogn’or si spande”,

dove per “altre bande” si deve pensare anche a territori molto distanti, se è vero che, come scrive Tanzi, addirittura il personaggio Cabalao “sarà spesso recuperato per qualificare un minchione”, epiteto non precisamente radicato dalle parti della laguna, ma sicuramente lapidario e di valenza quanto meno nazionale.

Ad esso si possono in effetti accostare altre simili fisionomie di più o meno simpatici balordi come Cacini (a Roma), o meglio ancora il Bertoldo bolognese, anch’esso “una maschera per eccellenza … giullare, buffone … un contadino povero legato alla fisicità e ai piaceri della vita” uscito dalla penna di Giulio Cesare Croce – un autore che non a caso ricorre spesso nelle pagine di Tanzi- e che assume –inserito com’è nella logica del “mondo alla roversa”- un valore emblematico relativamente a quello che fu un certo universo umano assurto a tema culturale e raccontato dalla stampa popolare del tempo (per queste ultime citazioni, cfr E. Casali – B. Capaci, a cura di, “La festa del mondo rovesciato. Giulio Cesare Croce e il carnevalesco, Bo, 2002).

Per quanto concerne invece il nostro “sgangherato Rodomonte”, per conoscere il contesto in cui si deve inserire, un elemento non insignificante pare senz’altro lo stesso nome del protagonista, Cabalao, che se non direttamente, almeno foneticamente e simbolicamente, si accosta al baccalà (così Alberto Sordi schernisce un pazientissimo ma distratto Bernard Blier nel film “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa” tanto per fare un esempio come piacciono a Tanzi), oppure, e più convincentemente, a personaggi del teatro comico, ad esempio alle maschere della commedia dell’arte “come possono essere stati gli Zanni” (e commedia degli Zanni era chiamata la Commedia dell’Arte sul finire del ‘500), la cui ‘componente’ di “servo sciocco, dedito alle digressioni burlesche e alle trovate ridicole” sarà impersonificata da Arlecchino ( e in seguito anche da Pulcinella).

Ma se questo posizionamento appare come si diceva senza dubbio convincente, né –va detto- le solide argomentazioni dell’autore danno adito ad equivoci sotto questo aspetto, in realtà laddove il lavoro dello studioso appare senza dubbio più ricco e significativo rispetto allo scopo che egli stesso – se non sbagliamo- evidentemente si prefiggeva è nel capitolo che tratta de “La breve fortuna di Cabalao: da Giulio Cesare Croce a Domenico Balbi” una vera e propria miniera di citazioni, richiami, precisazioni, svolte seguendo il filo rosso di una narrazione che collega autori “celeberrimi” com’è appunto l’emiliano Croce (grazie al quale Bologna diviene “uno dei due poli della fortuna di Cabalao” insieme all’altro “ovviamente Venezia”), ad altri poco o male conosciuti come lo stesso Zarafaio già citato, e soprattutto da agio all’autore di richiamare immagini pittoriche che si rapportano strettamente ad opere comiche, come nel caso del dipinto di Annibale Carracci (Vedi fig tavola 16) che raffigura proprio una “Scena comica con un bambino mascherato da Zanni”.

Annibale Carracci, Scena comica con bambino mascherato da Zanni, Palermo, Palazzo Butera, coll. Francesca e Massimo Valsecchi

Ma soprattutto grande rilievo assumono i rimandi ad autori che a suo tempo hanno in qualche modo parlato anch’essi del Cabalao.

Qui lo scavo di Tanzi si fa estremamente interessante recuperando tradizioni orali e scritte con Cabalao in qualche misura protagonista, a partire dai testi dell’ “eruditissimo canonico lateranense romagnoloTommaso Garzoni, come del “teorico e compositore” bolognese Giovanni Maria Artusi, anch’esso canonico lateranense che “fa proprio il nome di Cabalao come pseudonimo” al fine di attaccare musicisti innovatori del calibro di Claudio Monteverdi, per poi ritrovare il ‘nostro’ nel Prologo della Berenice, commedia del veneziano Giovan Francesco Loredan il Vecchio e ancora anni dopo nelle commedie del bolognese Adriano Banchieri “monaco olivetano, compositore e poeta”, ma soprattutto autore della “Novella di Cacasenno figliolo del semplice Bertoldino”, continuazione del Bertoldo e Bertoldino di Giulio Cesare Croce, e infine vederlo riemergere con il fiorentino Giovan Battista Andreini autore de La Venetiana dedicata a Domenico Fetti “depentor celeberimo” oltre che nel poema “L’Olivastro, o vero il poeta sfortunato” dedicato a Ferdinando II° de’ Medici.

Alla fine, però, seppure raggruppiamo tutti questi testi (e ce ne sono anche altri) e vediamo le ragioni per cui il Cabalao in essi viene citato, si deve dare ragione allo stesso Tanzi quando conclude che “non aveva poi torto chi giudicava il personaggio Cabalao irrimediabilmente minore nel panorama della letteratura popolare tra Cinquecento e Seicento, nonostante le brevi comparsate in testi, poemi e commedie di autori notevoli…”; un giudizio che ricalca quello del critico e commediografo Renato Simoni di molti anni fa secondo il quale Cabalao  altro non è che “ … l’abbozzo di una maschera non giunta al palcoscenico”.

Se però si può concordare con questa conclusione, non altrettanto si conviene quando lo studioso vuole ridimensionare il suo lavoro “ad una piacevole distrazione” che ci sembra una porta aperta al disconoscimento o meglio alla sottovalutazione del peso che ebbero i temi, gli episodi e gli stravaganti personaggi sopra citati sul milieu culturale del tempo. Perché se ritorniamo sul nome stesso del Cabalao,  accostabile semanticamente proprio con la Cabala (cosa che Tanzi ovviamente fa notare ma di sfuggita) non si può ignorare il valore che certamente hanno avuto gli studi alchemici, esoterici o cabalistici -che sicuramene il nostro autore ha ben presenti- nel rinnovamento del bagaglio sapienzale del tempo (per svariati artisti e letterati, ma non solo), sicché colpisce, in una ricostruzione davvero ricca di annotazioni erudite e precisi approfondimenti, il ridimensionamento di situazioni e temi, i quali -pur sostanzialmente fenomenici all’interno di quel contesto culturale- furono però quelli dal carattere più marcatamente bizzarro ed inconsueto.

Si potrebbe anzi dire che intorno a tali  elementi, che rimandano a valori esperienziali e partecipativi (applicati all’arte di oggi, e certo a Tanzi non dispiacerà, li chiameremmo environments o happening), si agitano delle componenti sicuramente più temerarie se non rischiose a livello sociale, portatrici sotto questo aspetto di una sorta di erosione dell’autorità come conseguenza di una possibile quanto radicale connessione di letteratura e vita, interna ad una curvatura che vira artisticamente in senso anticlassico, ma soprattutto in linea con lo spirito di certe accademie nate in particolare dalla parte occidentale delle sponde del Mincio, come quella dei Vignaioli o quella dei Facchini della Val di Blenio, cui era affiliato  anche il pittore e poi trattatista Giovan Paolo Lomazzo, del quale sono ben noti i Rabisch, forse perfino più del certamente più significativo Trattato dell’arte della pittura scoltura e architettura, probabilmente per il loro carattere anticonformista, per non dire di reazione all’oscurantismo postridentino – che non è chiaro, però (e su questo occorrerebbe insistere), quanto potessero davvero incidere in un contesto dove predominava lo spirito borromaico di totale e intransigente adesione ai dettati conciliari.

Lo dimostra l’osservazione che scaturisce dal punto di vista con cui il tema è stato affrontato da Elisa Casali nel saggio intitolato “Il poeta e il ciarlatano. L’astrologia e la ciarlataneria nell’età di Giulio Cesare Croce” pagg. 197 – 233, facente parte del volume sul “mondo rovesciato” sopra citato da lei stessa curato, insieme e Bruno Capaci, dove la studiosa arriva a concludere che

“Croce prende le distanze sia dall’astrologia dotta che da quella ciarlatanesca … riconosce agli astrologi il sapere di astrologare, di praticare l’astrologia naturale, cristianizzata, legittimata e ammessa dalla Chiesa controriformata”.

Non deve sorprendere questo giudizio della studiosa se consideriamo ad esempio che la stesura di gran parte delle opere del Croce va datata ben oltre il 5 gennaio 1586, allorquando Papa Sisto V Peretti emanava la Bolla “Coeli et Terrae Creator” che condannava l’astrologia o meglio l’ astrologia iudicialis  dichiarata lesiva del libero arbitrio dell’essere umano, mentre veniva invece lasciato un certo margine di tolleranza  all’astrologia cosiddetta naturale, cioè quella che poteva aiutare a regolarsi ad esempio nel lavoro dei campi, come pure in medicina o ancora nella navigazione.

I territori lagunari com’è ben noto non rimasero certamente estranei né alle pratiche astrologiche né tanto meno alle iniziative repressive dell’Inquisizione che, com’è altrettanto noto, portarono spesso a vere e proprie fratture con Roma, e dunque probabilmente un’incursione su questo terreno, una maggiore articolazione di giudizio non sarebbe stata inutile (posto che il tema è stato non poco trattato), ma ci rendiamo conto che spostandosi troppo su questo asse il discorso avrebbe preso un carattere ben diverso e distante dall’impostazione leggera (se ce lo consente l’autore) data a questo libro -si potrebbe definire un esperimento- che se non rientrerà nel ristretto club dei ‘classici’, ma non ci giureremmo, in ogni caso grazie alla forza compositiva e alla ricchezza argomentativa rende la lettura certamente una esperienza da raccontare.

Capitolo in sdruzzolo, s.l.; s.d. (X)

Perfino –è il caso di rimarcare-  in quelle pagine in dialetto (e sono, inevitabilmente, assai) in cui ci voleva un professionista -capace di avvolgere, se si può dire, l’analisi filologica in una struttura narrativa tipica dei racconti incentrati sul tema dell’ “eroe” (per quanto particolare, come nel nostro caso) cui però si giustappone un preciso diagramma di trama-  per indurre chi, come chi scrive, ha iniziato a barcollare già all’inizio di fronte a certi termini strettamente dialettali (“Quanti c’ha scorso tutto el mar Atlantico”) quando l’autore, il cinquecentesco Francesco Cieco Veronese, presentando il “magnanimo Cabalao degno di gloria”  cita il “grand’homo … xe quel che vendea menole e angosigole”.

Secondo Marco Tanzi  è ravvisabile tuttavia in questo primo capitolo quasi “un tono aulico” e vagamente ariostesco, con “metafore e citazioni classiche e dalla mitologia di non immediata individuazione per un pubblico di lettori di strada”, un tono ben diverso dal secondo dei due Capitoli (“Quando che Cabalao vendeva memole / e adesso va criando aghi da pomolo …”) (vedi il cartiglio a pag 102 dove compare anche un’aggiunta che non c’è nelle diverse redazioni a stampa)  “più pirotecnico e picaresco” ma con una chiusa dove Cabalao (che compare in bella vista nel dipinto da cui la ricerca è scaturita, s’incupisce divenendo “quasi una figura  malinconica … zimbello dei ragazzi di strada e delle ‘cattive femene’ e un po’ anche dei Signori, i quali tuttavia lo lasciano campare …”.

Capitolo in sdruzzolo, Bologna, presso Bartolomeo Cochi, 1617 (V)

Ma in ogni caso qualunque sia il tono, resta il fatto che sarebbe stata vana impresa condurre a termine la lettura dei testi se non fossero stati accompagnati da un apparato di note che non si può che definire fuori dall’ordinario, veramente rimarchevole, frutto di un’acribia di cui non si può non dare atto e senza la quale, come dicevamo, non si sarebbero capite non poche delle pagine facenti parte del “Capitolo in sdruzzolo di Francesco Cieco Veronese”, uno dei numerosissimi testi poco pretenziosi, quasi dei “fogli volanti” o “ventaroli”, come quelli che – oltre solitamente ai mendicanti- lo stesso Croce cantava e vendeva nei crocicchi delle strade di Bologna, poi “piegati e fascicolati” a mo’ di opuscoli e infine “rilegati in volumi miscellanei”, appellati come “componimenti comici o ridiculosi”.

Il termine non può non richiamare in qualche modo alla mente le “Pitture ridiculose” nate all’interno di una “poetica comica”, come l’ha definita Francesco Porzio, la cui idea centrale, pressoché combaciante con i temi della letteratura popolare, è, insieme al “ritorno ai primi principi e alla semplicità, alla Natura” anche “l’esaltazione degli uomini e degli ignoranti o dei folli”, secondo quella “importante corrente di idee … definita ControRinascimento” che non vede “nulla di meschino nei semplici e umili fatti” (cfr. F. Porzio, Pitture ridicole. Scene di genere e tradizione popolare, Mi, 2008).

E in questo senso, non crediamo sia sproporzionato inserire in questa scia anche la vicenda raccontata da Tanzi. Del quale va sottolineata tra le altre cose la magistrale ricognizione -primo e necessario compito di uno studioso- operata sulla genesi dell’opera, sulle diverse edizioni conosciute dello stesso Capitolo, sulle varianti riscontrate come pure sulle imprecisioni che vi compaiono, sulle varie collocazioni, sui contributi e sugli studi che ne hanno trattato, per non dire dei richiami letterari e mitologici che s’intravedono.

Tommaso Pombioli, Musicisti di strada, coll. privata

Ma dove gli spunti diventano irresistibili è nel gioco degli equivoci, degli infingimenti e degli inganni, come pure delle sofisticherie e delle arguzie cui rimanda la lettura di Capitoli e Barzellette dentro i quali, come detto e come vale ripetere, non è stato agevole muoversi se non con l’aiuto delle note dell’autore. Non possiamo ovviamente rendere appieno come pure meriterebbe, la quantità di doppi sensi che straborda dal testo: qualche esempio può dare comunque parzialmente l’idea, come nei versi che seguono:

Cabalao, una signora solennissima/ el ciama suso, che’l vendea di bocoli,/ el ghe mostré la so tenca grossissima. / Essa ghe dise: o semenza de trotoli, no me vegnir adosso in tanta furia”.

Laddove la “tenca”, ovvero “tinca” per di più “grossissima” non si fa fatica a capire a cosa alluda, ma si deve leggere la meticolosa spiegazione che compare nella lunga nota per rendersi conto del lavoro di scavo in quella cultura plebea che è stato fatto da Tanzi per spiegarne il senso e gli ulteriori elementi metaforici.

Insomma, se si accetta che questo lavoro sia “non metodologicamente corretto”  –come l’autore insiste a dire– tuttavia è difficile credere che egli abbia semplicemente seguito “il filo ondivago dei miei pensieri”; basti pensare infatti a come ci aggiorna su quella che è considerata la prima edizione del Capitolo in sdruzzolo, cioè quella del 1582, che presenta “un linguaggio che tenta di essere più veneziano possibile” tale da risultare “leggermente artificiosa”.

Capitolo in sdruzzolo, s.l.; s.n. 1582 (I)

Laddove peraltro l’illustrazione che la caratterizza, una xilografia “con un cavaliere che infilza con la lancia un leone”, di tale qualità da far credere ad un pittoricismo che chiama in causa nientemeno che il Pordenone o Paris Bordon, appare però di “nessuna pertinenza con il testo” . Ma lo stesso si può dire per l’immagine xilografata con cui è illustrata l’edizione del 1606, dove però l’interesse sta tutto nella notazione che Tanzi fa in circa la espunzione di cinque terzine rispetto alle altre, precisamente nel secondo capitolo dal verso 55 al 66.

Tutto lascia supporre che questo debba imputarsi “ai riferimenti sessuali piuttosto espliciti”,  che comunque in questo caso “superano agevolmente la valenza metaforica”; e se pure è vero, commenta ancora lo studioso, che proprio in questo stava la fortuna di simili componimenti però “non dimentichiamo il peso dell’Inquisizione in particolare a Venezia nei decenni che seguirono il Concilio di Trento”. Il che ci rimanda a quanto facevamo cenno prima, laddove è ovvio che il Cabalao, emblema letterario della dismisura, descritto costantemente in preda ad una sorta di continua incontinenza, si muova come in una sorta di “Pian della Tortilla in laguna”, in cui tutto appare fuori regola: “ritmi concitati: pesci, strilli, bambini, botte, inseguimenti, cadute in acqua, furberie porno soft con annesse ‘maldestrerie’ eccetera”.

E la chiuderemmo qui, se non fosse che il nostro autore alla fine rientra nel campo che più gli compete con un saggio conclusivo in cui analizza il dipinto da cui ha preso le mosse tutta la vicenda che altro non gli pare che

“l’illustrazione in simultanea di alcuni degli episodi narrati nel Capitolo e di altri non passati alle stampe ma facenti sicuramente parte della tradizione orale”.

Il dipinto “bizzarro e stravagante abitato da un’umanità strampalata” –quella del Cabalao per l’appunto- viene riferito dietro suggerimento di Fabrizio Magani, al pittore vicentino, ma con chiare influenze romane, Pasqualino Rossi (Vicenza, 1639 – Roma, 1722). Ma ecco comparirne un altro di quadro, stavolta di un antiquario di Firenze, “identico a quello sudamericano, ma di qualità assai più sostenuta” , e “con un diverso e più corretto equilibrio compositivo” oltre che con “una qualità più nobile” che con l’ausilio stavolta di Francesco Frangi viene attribuito a Josef Heinz il Giovane (Augusta, 1600 – Venezia, 1678);

Joseph Heintz il Giovane, “Quando che Cabalao vendeva menole …”, coll. privata

la comparazione con altre opere del pittore tedesco e i confronti stilistici, ma anche i riferimenti al contesto sociale e lavorativo: il “cestariol”, i pescivendoli, i mercati e le pescherie, alla fine fanno credere che possa essere proprio il Cabalao “il protagonista della tela fiorentina di Joseph Heintz”.

Ne siamo convinti anche noi, per quel che vale;  anche se, per quanto ci riguarda, di fronte ad un personaggio “piccolo piccolo” , rimasto “per manifesta inferiorità” per tanto tempo ai limiti “della storia e della letteratura” ci resta alla fine il dubbio di aver esagerato in trattazione.

Lasciamo però a questo punto al lettore entrare nel dettaglio della ricostruzione complessiva che Tanzi ha sviluppato per arrivare al risultato finale perché è al pubblico come sempre che spetterà giudicare se e quanto essa sia convincente; sempre ammesso che

“dopo l’eroica fatica di trascriver questa storia –come scherzava Manzoni- “si troverà poi chi duri la fatica di leggerla”.

P d L   Roma 20 dicembre 2020