di Nica FIORI
“Oggi è Ssanta Luscia occhi e ccannele, / per urbi et orbi c’è granne allegria. / Le donne che sse chiameno Luscia/ oggi vònno magnà zzuccher’e mmèle”.
Con questi versi Giuseppe Gioachino Belli inizia il suo sonetto dedicato alla festa di Santa Lucia, evidenziando subito i suoi attributi, occhi e candele, che a Roma vengono declamati in un’espressione tipica, quando si vuole rimproverare qualcuno per non aver visto bene, e riguardo agli occhi egli precisa che:
“Pare che Iddio quattr’occhi j’abbi fatto / a sta Sant’avocata de li guerci, / si ddua ne porta in fronte e ddua ner piatto; / e sti ddua che jj’avanzeno li smerci, / ché accusí c’è a la Chiavica er ritratto, / cusí a la Tinta, a li Gginnasi e in Zerci”.
Il poeta col suo crudo linguaggio ci fa sapere che la santa “smercia”, ovvero mette a disposizione di chi ne ha bisogno, quei due occhi che le avanzano nelle quattro chiese romane a lei intitolate: Santa Lucia della Chiavica (ovvero del Gonfalone), Santa Lucia della Tinta, Santa Lucia de’ Ginnasi (non più esistente) e Santa Lucia in Selci.
L’iconografia di Santa Lucia, morta secondo la tradizione il 13 dicembre 304 a Siracusa, nel corso della grande persecuzione di Diocleziano, è quella di una giovane donna che presenta due occhi su un piatto; può avere anche la palma del martirio e la spada o il pugnale, strumenti del martirio stesso, oppure una lampada, in quanto apportatrice di luce. Il patronato di Lucia sulla vista è legato proprio al suo nome connesso con la luce. Nome che ha stimolato nella fantasia popolare una tortura riguardante gli occhi (strappati dai carnefici o addirittura da lei stessa, perché troppo lodati dal promesso sposo), che in realtà non ci sarebbe stata.
Le fonti antiche relative alla sua vita raccontano che Lucia era una nobile fanciulla siracusana, figlia di un pagano e della cristiana Eutichia. Poiché la madre soffriva da anni di emorragie, Lucia decise di condurla in pellegrinaggio alla tomba di Sant’Agata, a Catania, e lì le sarebbe apparsa Sant’Agata che le avrebbe detto che la sua fede aveva già guarito la madre. Tornata a Siracusa, Lucia decise di donare i suoi beni ai poveri e rinunciare al matrimonio. Il fidanzato, irato, l’avrebbe allora denunciata come cristiana al governatore di Siracusa Pascasio, che l’avrebbe imprigionata e condannata a morte, dopo il tentativo di farla portare in un postribolo per essere violentata. Un tentativo che non riuscì, perché lei divenne pesantissima per opera dello Spirito Santo, tanto che i lenoni chiamati per prenderla non poterono smuoverla, come raffigurato da Lorenzo Lotto nel dipinto Santa Lucia davanti ai giudici (1532, Iesi, Pinacoteca Comunale)
e successivamente neanche i buoi, come è stato rappresentato da Leandro Bassano nel Martirio di Santa Lucia (1590-1600), nella chiesa di San Giorgio Maggiore a Venezia.
Dopo un ulteriore tentativo da parte di Pascasio di farla morire, inondandola con pece e olio ardenti, Lucia fu trafitta in gola con una spada e morì, non prima di aver ricevuto l’ostia consacrata da un sacerdote, episodio raffigurato tra gli altri da Giambattista Tiepolo nella Comunione di Santa Lucia (1748-1750, Venezia, Chiesa dei Santi Apostoli). Si racconta pure che, poco prima di morire, la santa predisse l’abdicazione di Diocleziano e la fine di Pascasio, che in effetti sarebbe stato di lì a poco processato a Roma per la sua cattiva amministrazione e condannato a morte.
Il corpo della martire fu seppellito nel luogo dell’esecuzione, lo stesso dove fu poi costruita la basilica di “Santa Lucia al sepolcro”, che vanta la presenza del capolavoro di Caravaggio Il seppellimento di Santa Lucia, da poco rientrato nella sua sede dopo essere andato in mostra al Mart di Rovereto, non senza un’accesa polemica tra Vittorio Sgarbi, curatore della mostra trentina, e alcune personalità siciliane che si battevano per non farla uscire dall’isola. Come ha fatto sapere il Viminale,
“La sua ritrovata sistemazione nella Basilica segue alla realizzazione degli interventi necessari a garantire adeguati standard di sicurezza al dipinto, commissionati dalla Soprintendenza di Siracusa e pure finanziati dal Mart nell’ambito delle intese con il Fondo degli edifici di culto”.
L’opera (olio su tela, cm 408×300) venne dipinta dopo che Caravaggio, fuggito da Malta, arrivò in Sicilia trovando a Siracusa l’aiuto dell’amico Mario Minniti (autore tra l’altro del Martirio di Santa Lucia, conservato a Siracusa nel Museo regionale di Palazzo Bellomo).
Grazie all’intercessione di Minniti, gli venne commissionato dal Senato cittadino Il Seppellimento, che venne collocato nella chiesa probabilmente il 13 dicembre del 1608, in occasione del restauro del santuario.
Il dipinto raffigura un gruppo di cristiani che assistono al triste avvenimento che si svolge in primo piano sulla sinistra, dove due fossori stanno scavando una fossa davanti al cadavere di Lucia. I protagonisti sono sovrastati da un grande spazio vuoto, che fa pensare a un luogo di desolazione e morte (forse una latomia, come l’Orecchio di Dionisio, che deve il nome proprio a Caravaggio), ma la luce di Lucia, per dirla con le parole di Iacopo da Varazze nella Legenda Aurea, “brilla della purezza della verginità senza alcuna macchia… e sa seguire fino in fondo la via tracciata dalla volontà divina, senza mai adattarsi nella negligenza”. D’altra parte è proprio “lucis via”, la via della luce, un significato del suo nome.
E per Caravaggio la luce, che si fa strada nella penombra del dipinto, simboleggia la Grazia, proprio come nella precedente Vocazione di San Matteo della chiesa romana di San Luigi dei Francesi, e colpisce uno degli scavatori, presagendo la sua conversione, mentre l’altro affonda i piedi nella fossa.
Il corpo di Lucia, purtroppo, non si trova più nel suo sepolcro siracusano. Dopo essere stato portato a Costantinopoli nel 1039 dal generale bizantino Giorgio Maniace, che lo donò a Teodora Porfirogenita, arrivò nel 1204 a Venezia al seguito dei crociati veneziani ed è lì che attualmente si trovano le spoglie della Santa, nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia (la primitiva chiesa di Santa Lucia venne abbattuta per costruire la stazione ferroviaria, che conserva il suo nome). Nel santuario di Siracusa sono presenti solo alcune piccole reliquie, inserite nella statua d’argento che viene portata in processione nella sua festa.
Molte altre città, oltre a Siracusa e Venezia, tributano un importante culto alla santa, che è apprezzata anche nei Paesi riformati. Nella penisola scandinava gode di grande venerazione e il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, in Svezia viene eletta una “vergine saggia” che è scortata da fanciulle con una corona di candele in testa, come per auspicare la luce nella lunga notte nordica. D’altra parte la sua collocazione nel calendario corrispondeva un tempo al giorno piò corto dell’anno, quello del solstizio invernale, prima che il calendario gregoriano spostasse il solstizio al 21 dicembre.
Ma torniamo a Roma, dove nel centro storico sopravvivono tre chiese dedicate alla santa. Per me che abito nel rione Monti è quasi d’obbligo ogni anno in questa ricorrenza fare un salto nella chiesa di Santa Lucia in Selci, che è inserita all’interno di un convento di Agostiniane e di norma apre solo per la messa domenicale o festiva.
Già passare per l’antica via in Selci è un’esperienza indimenticabile, perché sembra di respirare ancora l’atmosfera del Medioevo per le alte murature del convento (diviso tra più ordini monacali) e la vicinanza di due torri nella vicina piazzetta di San Martino ai Monti. In realtà la via esisteva già in epoca romana, quando era detta vicus Suburanus, e si contrapponeva al più ricco vicus Patricius (corrispondente a via Urbana) in quella che era la Suburra. Il portale di accesso al monastero è preceduto da una piccola scalinata che porta a un atrio dove sul fondo è collocata la classica ruota di legno girevole, unico contatto con le suore. Alla sinistra vi è l’accesso alla chiesa, a navata unica con tre cappelle per lato, che offre alcuni gioielli artistici, tra cui la cappella dei Landi, dalla bellissima decorazione a stucco. La cappella, la seconda sulla sinistra, è dedicata alla Trinità ed è stata realizzata da Francesco Borromini (1637-1638), che subentrò a Carlo Maderno e ad Antonio Casone nel rifacimento secentesco dell’antica chiesa, la cui origine viene fatta risalire a papa Onorio I (625-638) o addirittura a papa Simmaco (498-514).
La chiesa e il convento (già dei certosini e dei benedettini) sono stati assegnati alle Agostiniane da Pio V intorno al 1568, ma le monache promossero i lavori di rifacimento a partire dal 1603-1604 e la chiesa venne consacrata nel 1619. Dato che in precedenza era dedicata alla Madonna (Santa Maria Felice), la pala dell’altare maggiore raffigura l’Annunciazione, opera di Anastagio Fontebuoni, iniziata nel 1606. Di fronte all’altare Landi, è l’altare di Santa Lucia, con la grande pala raffigurante Il martirio di Santa Lucia, uno dei capolavori romani di Giovanni Lanfranco (1630).
Come in altre composizioni di Lanfranco, notiamo il contrasto tra la folla in lontananza e la scena principale, con i due protagonisti in primo piano, immersi in un paesaggio buio, ma caratterizzati da colori accesi, come il rosso dell’abito del carnefice, che stringe in una mano un pugnale, mentre con l’altra tiene ferma la testa di Lucia. Al di sopra, nel cielo, appaiono due grandi angeli, uno con la palma del martirio e l’altro con una corona di rose, accompagnati da angeli più piccoli.
Un ulteriore riferimento alla santa titolare lo troviamo nella volta nell’affresco ottocentesco, raffigurante la Gloria di Santa Lucia, che sostituisce la precedente pittura secentesca di Giovanni Antonio Lelli.
Più conosciuta è la chiesa in via dei Banchi Vecchi, Santa Lucia del Gonfalone, detta anche “della chiavica” dall’adiacente cloaca, “in pescivoli” da una pescheria e anche “nuova”, per distinguerla dalla vecchia, che sorgeva nei pressi del Tevere e sulle cui rovine è sorto l’Oratorio del Gonfalone. La santa era particolarmente venerata nel rione Regola e il giorno della sua festa si svolgeva nei pressi della chiesa una fiera detta “la spasa”. In una di queste feste Benvenuto Cellini offrì alla santa un occhio d’argento, come ringraziamento per avergli conservato la vista, che aveva rischiato di perdere mentre lavorava.
Questa chiesa, caratterizzata da una sobria facciata settecentesca in laterizio e travertino, si lega alla fondazione e allo sviluppo dell’importante arciconfraternita del Gonfalone.
Pur trattandosi di un edificio le cui prime notizie risalgono alla metà del XIII secolo, l’aspetto dell’interno è ottocentesco, in quanto dovuto a un radicale rifacimento avvenuto sotto il pontificato di Pio IX, tra il 1863 e il 1867, a opera dell’architetto Francesco Azzurri.
La decorazione pittorica, realizzata da Cesare Mariani, testimonia l’ambizioso progetto di rinnovamento della città voluto da papa Mastai Ferretti, nel tentativo di rinvigorire il potere temporale del papato nel periodo del nascente Stato italiano.
La decorazione della volta vuole esaltare la liberazione degli schiavi da parte della confraternita del Gonfalone, uno dei compiti di cui andava fiera già dal Cinquecento, insieme ad altre opere di carità. Il linguaggio di Mariani s’ispira sia a Raffaello sia al Michelangelo della Sistina, in una sorta di ponderato recupero della pittura cinquecentesca. Lungo la navata della chiesa sorgono sei cappelle, tre per lato, delimitate da pilastri decorati con alcuni personaggi biblici connessi con la liberazione di popoli oppressi.
Nella zona absidale sono presenti altri affreschi dello stesso Mariani e nel catino la maestosa Visione di San Bonaventura, un avvenimento legato alla fondazione dell’arciconfraternita. L’altare maggiore custodisce una copia della Salus Populi Romani, attribuita a Livio Agresti, un pittore del Cinquecento. A Santa Lucia è dedicato un altare con la bella statua di gusto neoclassico di Scipione Tadolini (1822-1893), uno scultore che si era formato nello studio del padre bolognese Adamo Tadolini, che fu uno degli assistenti principali di Antonio Canova.
Quanto alla piccola chiesa di Santa Lucia della Tinta, in via di Monte Brianzo, prende il nome dall’antica contrada di tintori. Si chiamava anche Santa Lucia delle Quattro Porte (quattuor portarum), perché era vicina al muraglione antico che costeggiava la riva del Tevere dalla Porta Flaminia al Ponte Elio, dove si aprivano quattro porte minori (posterulae), una delle quali era detta di Santa Lucia.
La chiesa è dedicata a una santa romana, martire sotto Diocleziano, che sarebbe morta con il marito (o forse figlio) Geminiano, i cui corpi erano custoditi nella chiesa.
Questa Santa Lucia, omonima di quella siciliana, viene di fatto confusa con l’altra, tanto che la santa vergine di Siracusa è ricordata in un suo altare (con una tela di anonimo) e nella tela al centro del soffitto, raffigurante Santa Lucia assiste alla salita in Cielo di Sant’Agata, realizzata nel 1781 dal polacco Taddeo Kunz, autore anche dei putti entro ovali nello stesso soffitto.
La chiesa, già menzionata in un’epigrafe del 1002 oggi scomparsa, viene citata in una bolla di Niccolò IV in occasione della ricostruzione del complesso nel 1290. Restaurata dalla compagnia di cocchieri nel 1580, quindi nel 1664 dal principe Borghese (per via del patronato concesso alla famiglia da Paolo V), subì ulteriori restauri e modifiche nel Settecento, epoca cui risalgono la facciata, la decorazione del soffitto, restaurato nel 2013, e l’altare maggiore.
Dal 1824 la chiesa è affidata all’Arcisodalizio della Curia Romana e dal 1970 è gestita da Fraterna Domus, una comunità di Sorelle che hanno una casa d’accoglienza accanto alla chiesa.
Oltre alle raffigurazioni presenti nelle chiese, a Roma, nei Musei Capitolini, si può ammirare un olio cinquecentesco di Benvenuto Tisi detto il Garofalo, che la ritrae in tutta la sua smagliante bellezza con la palma e il piatto con gli occhi. Sorprendenti sono la pettinatura e l’abbigliamento matronale che la fanno assomigliare a un’antica dea, immersa in un paesaggio incantato con edifici rurali e montagne in lontananza, mentre in primo piano una colonna e un trapezoforo di marmo richiamano l’antichità.
Come non pensare alla dea vergine Artemide, che aveva un suo culto a Siracusa nell’isola di Ortigia? Anche lei era legata allo splendore della luce, così come il gemello Apollo (rispettivamente alla Luna e al Sole), ma Lucia richiama anche la romana Giunone Lucina, protettrice delle partorienti, invocata per dare alla luce i bambini. Santa Lucia con il suo simbolico nome sembra proprio aver ereditato alcune funzioni di divinità connesse con la luce, che sono state trasformate nel cristianesimo con un diverso significato spirituale.
Nica FIORI Roma 13 dicembre 2020