L’inconscio di Caravaggio: la psicanalisi può spiegare come nasce il processo creativo? Un percorso per capire la faccia nascosta di un genio.

di Giuseppe RESCA

Il dottor Giuseppe Resca, psichiatra e psicoterapeuta, conosciuto come attento collezionista e valente conoscitore d’arte, è autore del recente libro Caravaggio Profiling. Il volto dell’assassino. Si tratta -com’è stato ampiamente rappresentato anche in questa sede (cfr https://www.aboutartonline.com/caravaggio-profiling-una-sorprendente-rilettura-delle-opere-del-genio-un-movente-inconscio-unisce-tutti-i-comportamenti-delittuosi-del-pittore/ ) – di una particolare lettura della genesi e degli sviluppi dell’estro creativo del genio lombardo, fuori dagli schemi interpretativi degli addetti ai lavori in senso stretto, ma soprattutto ben al di là dei cliché dei purtroppo molti improvvisati apprendisti “studiosi” (tra virgolette) che hanno ridotto il complesso fenomeno del ‘caravaggismo’ al punto da renderne la narrazione non solo non attraente ma perfino irritante. Con questo primo articolo -che inaugura un percorso interpretativo della genesi delle opere dell’artista alla luce della psicanalisi – prende invece il via un altro tipo di narrazione che nasce all’insegna di un approccio professionalmente assolutamente adeguato e che, crediamo, attirerà l’interesse dei nostri lettori e di quanti a Caravaggio hanno dedicato attenzione e passione oltre che la loro competenza e la loro scienza.

Caravaggio: il processo creativo

Ottavio Leoni, Ritratto di Caravaggio, 1621, Biblioteca Marucelliana, Firenze.

Questo pittore è un giovenaccio grande di vinti o vinticinque anni con poco di barba negra grassotto con ciglia grosse et occhio negro, che va vestito di negro non troppo bene in ordine che portava un paro di calzette negre un poco straccione che porta li capelli grandi longhi dinanzi”.

Quando lessi per la prima volta questa descrizione di Caravaggio, estrapolata dall’interrogatorio del barbiere Marco Romano davanti al tribunale del Governatore di Roma dell’11-12 luglio 1597 (in occasione di una disputa plebea per un ferraiolo con un certo Pietropaulo), sobbalzai come se mi spuntasse davanti l’autore, in carne e ossa, di quegli straordinari quadri giovanili, di bellezza inaudita, che mi avevano ammaliato fin dal primo momento.

E la sciatteria di quel profilo reale, rubato alle cronache del tempo, in perfetta sincronia con le date di esecuzione di quei sublimi capolavori, mi apparve, rispetto alla perfezione immacolata delle suddette opere, ancor più stupefacente. Perché tutti sappiamo che l’estro creativo non si rapporta alla fisionomia dell’autore. Ma, nel caso specifico, era come osservare un baco da seta intento a filare non un semplice filo, ma la camicia di seta più perfetta che esista: tutta, dall’inizio alla fine.

Oggi quella sorpresa potrebbe trasformarsi in un’idea.

È  possibile che il processo creativo di un artista proceda da una insoddisfazione personale, da un sentimento di sé tormentoso, dalla frustrazione di una realtà che non consente di sentirsi libero, come individuo, uomo, persona, soggetto? Forse alla base di ogni Ideale dell’Io vi è uno stato di sofferenza psichica. Ma è possibile che una condizione di vera e propria alienazione, oltre alle indispensabili prerogative neuropsicologiche soggettive, predisponga alla formazione di un grande artista?

Magari non vale per tutti. Ma nello specifico di Caravaggio, non si potrebbe ipotizzare una sorta di difettualità somatica congenita, reale o percepita, tale da generare un sentimento di minorità? E se a tale sentimento si aggiungesse la presa in giro, la bullizzazione dell’ambiente, così da trasformare la bruttezza in piaga, in marchio, in stigma sociale? C’è da credere che da tale sequenza si possa generare un ri-sentimento, così profondo da ingenerare a sua volta pulsioni antisociali da un lato e fantasie di onnipotenza dall’altro.

Tutto ciò comporta, nei soggetti predisposti, la necessità di elaborazione del vissuto, che potrebbe essere, in Caravaggio, il suo processo creativo. In lui, come in Toulouse Lautrec, per fare un esempio. Oppure il contrario: nessuna elaborazione. E questo porterebbe con ogni probabilità verso una carriera delinquenziale. Ma non in Toulouse.

Cos’ha quindi Caravaggio di speciale? Lui li ha fatti e subiti entrambi, questi sviluppi. Un processo (miracoloso nei suoi risultati artistici) e un non-processo, deleterio nelle sue conseguenze mortifere. Un doppio registro: due identità diametralmente opposte e irriducibili una all’altra, ma perfettamente coerenti a sé stesse e compresenti nella stessa persona.

Coerenza nell’impossibilità psicologica del soggetto ad aver ragione di se stesso e dei propri discordanti bisogni: una delle due persone aspira all’Immortalità (il valent’huomo, come definiva Caravaggio l’essenza dell’esser pittore), l’altra alla morte (l’omicida, quale si rivelò essere il suo destino). Senza alcuna possibilità di sintesi tra l’una e l’altra.

Nella prima parte del lavoro (il libro “Caravaggio profiling”) ci si proponeva di rapportare l’artista all’assassino, la sua opera artistica come un tutt’uno con i suoi misfatti (libro che ha appunto come sottotitolo “il volto dell’assassino”), e si seguiva il corso di questa doppia personalità lungo l’arco della sua breve vita. In questa seconda parte mi sforzerò di spiegare il processo creativo di Caravaggio, ponendo l’accento, più che sulle pulsioni anancastiche (portare Spada, dare-ricevere morte, darsi-morte), sulla libera elaborazione dell’imperfezione, della bruttezza, dell’arbitrarietà della percezione, che va emendata da ogni falsità rappresentativa. Perché in questo consiste il metodo artistico di Caravaggio: pervenire alla verità delle cose e non fermarsi a come appaiono agli occhi. Verità intrinseca, che va rivelata, non semplicemente rappresentata.

La ricerca di Caravaggio della verità delle cose (“ut natura pictura”, secondo il motto a lui più consono) avanza, nel suo processo creativo, contemporaneamente alla presa di coscienza di una verità interiore spaventevole. Egli se ne appropria pian piano, convertendo l’originaria bellezza delle prime opere in orrore, il quale discende dalla percezione dell’istinto di morte che percorre la Storia e la propria microstoria all’unisono. E termina nella consapevolezza finale di un Destino fatale: l’esecuzione a morte per decapitazione. Preconizzata già a partire dalla Testa di Medusa (1596) con il proprio autoritratto e conclusa con il doppio autoritratto del Davide e Golia tuttora Borghese (1610).

Caravaggio, Medusa, 1597 ca, Firenze, Uffizi
Caravaggio, Davide con la testa di Golia, Roma, Galleria Borghese

Questo nuovo lavoro segue il percorso delle sue pitture come se fossero il setting di una terapia psicoanalitica. Che rivela, attraverso apparizioni successive, la presa di coscienza dell’autore delle proprie dinamiche interiori. E se l’immaginario lettino non è propriamente quello dell’analista, ma piuttosto quello di un fachiro, cosparso di spine, non è colpa di nessuno dei due, medico e paziente: si tratta del Destino.

Giuseppe RESCA  Roma  16 Aprile 2023