L’epilogo della saga degli Olsufiev sullo sfondo della Rivoluzione d’Ottobre nel secondo romanzo di Alessandra Jatta.

di Francesca SARACENO

L’apolide (Voland 2024, fig. 1) è il secondo romanzo di Alessandra Jatta, pronipote della protagonista di entrambe le storie, ovvero la bisnonna Olga Šuvalov.

Se nel primo libro (Foglie sparse, Voland 2021, fig. 2) l’autrice raccontava gli effetti devastanti della rivoluzione d’ottobre in Russia, attraverso i ricordi vividi e spaventosi dell’augusta antenata, in questo secondo volume, corredato delle immagini di documenti originali, ricostruisce la fuga della famiglia Olsufiev dagli orrori bolscevichi, e l’approdo in un’Italia fortemente provata dal sanguinoso primo conflitto mondiale, in una Firenze non ancora ostaggio dei turisti, ma già da anni meta privilegiata e ambita di colti e facoltosi viaggiatori di tutta Europa.

La famiglia Olsufiev, però, non sta andando in Italia in vacanza in cerca di arte e clima mite; Olga, Vasilij e i loro cinque bambini sono in fuga da due anni, da una “grande madre” che li ha ripudiati, cacciati via. Dall’autunno del 1917 non c’è più posto in Russia per quelli come loro, rappresentanti di una classe sociale aristocratica che si reggeva sul lavoro e le sofferenze del popolo. Per scampare alla furia cieca dei bolscevichi in rivolta, che avevano sterminato la famiglia dello zar Nicola II e seminavano terrore e morte dalla città alle campagne, gli Olsufiev avevano lasciato Mosca in tutta fretta, portando con loro lo stretto necessario. E lo “stretto necessario”, per una famiglia aristocratica comprendeva anche gioielli, argenteria, documenti, libretti bancari, atti di proprietà. Difficile, troppo per Olga, separarsi da oggetti ormai inutili ma che erano stati parte della sua vita, la sua quotidianità. Perderanno quasi tutto strada facendo, e si ritroveranno con indosso cappotti logori e pezzi di tappeto cuciti su suole di cartone al posto delle scarpe, ad attendere al porticciolo di Tuapse, in Georgia sul Mar Nero, la nave che li condurrà fuori dall’incubo, appena in tempo per sfuggire all’ennesimo massacro. La rivoluzione era arrivata anche lì.

“Nobiltà decaduta” sarebbe potuto diventare un sottotitolo appropriato per questo libro, viste le premesse; ma basta scorrere le prime pagine, dove una scrittura agile e incisiva infila parole ed emozioni una dopo l’altra, per accorgersi che a decadere – in realtà – era il mondo intorno a Olga. Il mondo di Olga. Una vita fatta di agi e privilegi che lei ha sempre percepito come l’unica realtà possibile. L’unico “ordine delle cose” immaginabile; un mondo in cui quelli come lei, nobili e ricchi, dovevano costituire la classe dirigente, mentre operai e contadini dovevano produrre ricchezza per loro. Così, semplice e lineare. Non aveva mai neanche lontanamente dubitato che quell’ordine fosse “giusto”, né mai pensato che potesse essere sovvertito; per lei sarebbe stato semplicemente contro natura. Olga, dunque, non si arrende al nuovo statu quo, rimane fedele fino all’ultimo alla propria “natura”, sebbene costretta a fronteggiare una condizione imprevista, ma che voleva assolutamente considerare provvisoria e reversibile.

Ed è con questa evidenza, manifesta agli occhi del lettore fin da subito, che va seguito il corso della storia; e che va analizzata anche la condotta “monolitica” della protagonista dal momento in cui riesce a portare in salvo la famiglia fino al suo ultimo respiro. Senza pregiudizi o distorsioni ideologiche che, inevitabilmente, risentirebbero di almeno un secolo di sviluppo del pensiero e di affermazioni di diritti civili. Perché la riflessione che si impone, scorrendo le pagine di questo romanzo, non è quella empatica della lotta di classe, che induce naturalmente a solidarizzare con il popolo vessato e finalmente insorto, ma quella che si incunea su un punto di vista “alternativo”, quasi mai considerato: quello della classe aristocratica detronizzata. E che semmai induce a guardare con una certa “razionale” indulgenza a questa donna che non ha mai, mai immaginato una realtà diversa dalla sua. Come reagisce un ricco (ma oggi direi anche un “arricchito”) alla povertà che reclama diritti? Come si pone davanti all’idea di una più estesa libertà e di una uguaglianza sociale in cui “condividere” invece che “pretendere”?

Ecco, stando al racconto della Jatta, ma – a ben vedere – anche alla più stretta attualità, semplicemente non lo accetta. È fuori dalla sua logica. Lo avverte come un’inaccettabile ingiustizia. La questione, tutt’altro che semplice, andrebbe esaminata forse secondo parametri psico-antropologici, perché sarebbe troppo facile derubricare tutto alla prevalente paura di perdere soldi e privilegi.

La figura di Olga Olsufieva in questo romanzo è magnificamente delineata nella sua assoluta schiettezza. Travolta da eventi di cui non comprende le ragioni, né profonde né superficiali, perché nata e cresciuta in una condizione di superiorità economica e sociale che sente assolutamente “regolare”, reagisce decidendo di conservare a se stessa e alla propria famiglia, uno status che ritiene le afferisca quasi per diritto divino; non nel senso letterale di una qualche particolare investitura celeste, ma di un ordine costituito fin dalla creazione del mondo. Non può esistere, nella sua visione delle cose, una realtà diversa da questa.

Mentre le urla rabbiose dei bolscevichi in rivolta si avvicinano al porticciolo di Tuapse, dove la famiglia attende la nave Druid che li salverà da morte sicura, Olga controlla che le quattro figlie siano tutte lì accanto, ma più ancora si accerta che sia al sicuro, tra le braccia del padre, l’adorato Alëša, il piccolo di soli 5 anni, unico figlio maschio destinato a diventare quarto conte Olsufiev; quando il bambino scivola in mare durante il rocambolesco trasbordo, Olga si lancia per salvarlo dai flutti, trattenuta a stento dal marito, mentre un marinaio compie il miracolo al posto suo. Quale madre non lo avrebbe fatto? ci si potrebbe chiedere. Durante la fuga aveva già temuto di perdere Assia, la più grande dei suoi figli, e adesso tenere insieme la sua famiglia è diventato l’obbiettivo a brevissimo termine che si è posta. Ma l’ultimogenito è il vertice della sua piramide affettiva, perché nell’ordine delle cose di Olga Olsufieva il piccolo Alëša è il seme che proseguirà la gloriosa stirpe; la tessera più importante di quel puzzle prestabilito, che la rivoluzione ha destrutturato. Scrive l’autrice:

“Senza il figlio non si può ricomporre ciò che è stato scomposto.

È convinta, la contessa, che mentre loro saranno via, lontano, anche la patria Russia saprà ristabilire l’ordine costituito dalla notte dei tempi. E quando l’avrà fatto, lei tornerà con la sua famiglia a riprendere il posto che spetta loro per diritto, e che nessuna assurda rivoluzione può usurpare. È solo questione di tempo, si dice. Ma quando nella città di Batun avrà difficoltà a trovare alloggio in una locanda perché il proprietario teme che non sarà in grado di pagare il conto, Olga è costretta a riconoscere la sua condizione: “un’apolide russa, scappata dalla rivoluzione, senza soldi né Patria.” E lo sentirà come “Una contraddizione in termini, un ossimoro, un errore.” Il marito, conte Vasilij Olsufiev, non è da meno. Lo troviamo indignato, più che ansioso, a uno sportello della filiale di Batun della Banca Mercantile di Mosca, dove pensa di prelevare del denaro dal suo conto; il direttore lo saluta con l’appellativo di “cittadino” – alle sue orecchie più o meno un insulto – prima di informarlo che non è più padrone dei suoi soldi dal 25 ottobre 1917: “Ora (il suo) è il denaro del Popolo sovietico!” . La differenza tra lui e la moglie è nella reazione: lei, fredda e calcolatrice, usa l’amicizia con l’influente comandante inglese della Druid, per farsi concedere le camere alla locanda; lui non trova di meglio che chiedere aiuto a San Matteo, “il patrono di quelli che hanno tanti soldi”; ma al momento solo sulla carta…

Ora, le circostanze in cui si vennero a trovare i bisnonni dell’autrice, per quanto a noi “posteri” comodamente sistemati da un’ottantina d’anni circa in regime di democrazia e diritti inalienabili riconosciuti a livello internazionale, possano apparire quasi una meritata “penitenza”, in realtà dovrebbero farci – molto – riflettere sulla triste condizione di CHIUNQUE si trovi – anche oggi – nella malaugurata condizione di non poter più contare su uno Stato che tuteli i suoi diritti; di non avere più certezze né appigli, a parte la propria intraprendenza e determinazione nel conservare, quanto meno, la vita. Questo è – di fatto – un “apolide”. Una condizione uguale in ogni tempo; le parole di Vasilij Olsufiev potrebbero essere le stesse di un qualunque rifugiato:

“In questa guerra tutti hanno fatto quello che non potevano fare… E pensi che qualcuno li abbia fermati? Che qualcuno ci abbia difesi? Svegliati, Olga. Siamo stati lasciati soli!”

In fatto di “vittime” la guerra non guarda in faccia nessuno; chi pensa di essere “immune” solo perché ritiene di trovarsi “dalla parte giusta”, sbaglia grandemente. Le pagine di questo romanzo non fanno che confermare quanto i libri di storia ci raccontano da decenni. La differenza è che la povertà vera non è (mai stata) quella che lamentavano gli Olsufiev…

Olga e Vasilij arrivano a Firenze in condizioni economiche decisamente precarie ma in treno, con biglietti di prima e seconda classe (la cui preziosa testimonianza l’autrice fornisce attraverso foto degli originali), e soprattutto sapendo di avere a disposizione in città una villa di famiglia, modesta rispetto al palazzo in cui vivevano a Mosca, ma “degna” del loro lignaggio. Arrivano con i nervi e gli abiti logori, ma con l’orgoglio e l’alterigia rinvigoriti dall’essere scampati, nonostante tutto, a un destino drammatico. Se ne accorgeranno i domestici e i fiorentini che con quei russi avranno a che fare, per svariati motivi.

In Toscana, Olga dedicherà la sua intera esistenza alla ricomposizione di quel puzzle strapazzato dai bolscevichi, incurante della nuova realtà in cui dovrà farlo. L’Italia e i suoi abitanti, così culturalmente diversi da lei, non la spaventano; saprà “dominarli”. Avrà qualche difficoltà in più il marito, più irriducibilmente nobile di lei in termini di “diritto all’ozio”, dovendosi adeguare a quella “idea bislacca che hanno gli italiani di impegnarsi in attività redditizie”. Fare “impresa” non era esattamente nelle sue corde aristocratiche, ma si accorge ben presto che in Italia i soldi non arriveranno da soli; bisognerà che il facoltoso possidente se ne interessi in prima persona – almeno un po’ – delegando il meno possibile, e a gente affidabile.

L’azienda agricola che il conte Olsufiev ha conprato a Monteguidi – accendendo un mutuo – con l’intenzione di risollevare lo stato disastroso delle sue finanze, non darà i frutti sperati. Ma nel frattempo, l’incrollabile determinazione di Olga nell’assicurare a se stessa e ai figli il destino che ritiene loro spetti, la porterà a spendere più di quanto possa permettersi, e a intessere una serie di relazioni con le famiglie più in vista della città, sia russe che italiane; l’obbiettivo è accasare tutti i figli nel migliore dei modi. Quei rozzi bolscevichi non avrebbero piegato la sua resistenza. Anche se i giornali italiani le raccontano di un fermento rivoluzionario che, anche qui, cova nemmeno tanto sotto la cenere; ma lei non può e non vuole pensare che la rivoluzione che le ha devastato la vita possa inseguirla fino in Italia. Ed è toccante come l’autrice manifesti un sincero sentimento di empatia nei confronti dell’altera bisnonna, e della sua famiglia, quando ricorda al lettore che tutti loro arrivavano da un inferno difficilmente immaginabile: “Non c’è gioia nel loro prima. Solo paura.

Soffrono costantemente la nostalgia dell’amata Russia, ma non appena Olga si rende conto che il ritorno in Patria non è valutabile a breve termine, fa in modo che l’Italia diventi per lei e la sua famiglia quanto meno un trampolino di lancio verso una nuova felicità. Anche a costo di mettere la testa sotto la sabbia e vivere abbondantemente oltre le proprie reali possibilità. Una residenza sfarzosa, il gioco d’azzardo, gli abiti ricercati. L’apparenza, come si è detto, ha un ruolo fondamentale nel suo progetto. Così Olga fa in modo che le sue ragazze si integrino nel tessuto sociale fiorentino, il migliore ovviamente, nonostante le iniziali difficoltà culturali che le impongono ai possibili nuovi amici altezzose e viziate, decise a primeggiare in ogni cosa. La pungente intelligenza di Mašik, gli sbalzi d’umore di Assia, all’inizio, non giovano alla socialità; quando invece basterebbe un po’ della leggerezza di Daria per accattivarsi qualche affetto. Ma non importa: Olga è decisa a garantire a ciascuna di loro uno status e una collocazione di assoluto prestigio, e lo farà a costo della vita. La bellezza e la gioventù faranno il resto.

La storia “italiana” della famiglia Olsufiev, che emerge dai ricordi di Alexandra Andreevna, trisavola dell’autrice, si snoda sullo sfondo d’eccezione di una Firenze che splende di arte e natura, ma che non sfugge a certi stereotipi fin troppo consolidati; quelli dell’Italia stracciona di “mendicanti e ubriaconi” che bivaccano intorno alle piazze “come statue trascurate”, scrive l’autrice con estrema sensibilità; o della scarsa pulizia che satura l’aria di un orribile puzzo di fogne e sterco. Una sorta di rozzo contraltare, tutto nostrano, opposto alla struggente bellezza delle architetture e dei tesori d’arte conservati nei musei, che la Jatta – giustamente – non può sottrarsi dall’esaltare. E proprio sulla scorta di queste meraviglie, stupendamente descritte, l’autrice fornisce al lettore un ulteriore motivo di riflessione, quando Alexandra Andreevna mostra alle nipoti i ritratti di Pietro il Grande e della moglie Caterina, donati nel Settecento a Cosimo dei Medici “nell’ambito di quel disegno di avvicinamento all’Europa che aveva caratterizzato il regno del grande zar”; ebbene, c’è stato un tempo in cui l’arte contribuiva fattivamente a instaurare e consolidare le relazioni internazionali.

Incalzanti i tempi della narrazione e bellissime le descrizioni dei luoghi più caratteristici del centro storico di Firenze, anche di opere meno conosciute come il monumento a Nikolaj e Anatolij Demidov, nella omonima piazza, che i figli del nobile russo avevano donato alla città per celebrare il padre, fondatore, a suo tempo, di un orfanotrofio. Uno degli aspetti più interessanti di questo avvincente romanzo, è che le vicende della famiglia Olsufiev si incastrano autonomamente nella storia dell’Europa di quegli anni; l’autrice non deve ricorrere a stratagemmi narrativi per inquadrare un periodo, dal momento che la sua trisavola può agevolmente raccontare – ad esempio – di quella volta che al teatro imperiale di san Pietroburgo aveva assistito alla rappresentazione della Signora delle camelie di Dumas, interpretata nientemeno che dalla “divina” Eleonora Duse; o delle tante famiglie russe, documentate, che in quegli anni avevano messo radici in Italia, contribuendo allo sviluppo del territorio ove si insediavano. Spaccati di un’epoca che fanno di questo racconto biografico un magnifico romanzo storico.

E non poteva essere altrimenti, perché gli eventi di cui è protagonista la famiglia Olsufiev si svolgono mentre l’Italia e l’Europa si preparano a un secondo devastante conflitto mondiale, e l’autrice ne dà conto puntualmente attraverso i timori – del tutto fondati – dei bisnonni Olga e Vasilij, che leggono i giornali italiani e stranieri degli anni Venti, dove le cronache politiche riferivano dell’ascesa al potere di Benito Mussolini e del suo partito di violenti squadristi; una deriva autoritaria accolta, in un primo momento, con entusiasmo dalla comunità russa che nei fascisti vedeva tenaci oppositori del comunismo bolscevico, ma non di Olga, infastidita – oltre che terrorizzata – all’idea di doversi trovare coinvolta in ulteriori disordini. Per questo la contessa continua a scacciare foschi presagi occupandosi caparbiamente della sistemazione delle figlie e della carriera militare del rampollo di casa; le orribili vicende della rivoluzione bolscevica, le tragiche conseguenze che la sua famiglia aveva subito, e i nuovi venti di guerra, non dovevano in alcun modo interferire con i suoi piani di “restaurazione” sociale. E questo valeva tanto più per l’inconcludente marito, conte Vasilij, già infastidito dal doversi occupare personalmente della azienda agricola di Monteguidi, sistematicamente gabbato dall’amministratore, e del tutto incapace di instaurare buoni rapporti con i suoi braccianti fiorentini. E quando questi ultimi si presentano alla sua porta, minacciosi e con i berretti sfacciatamente calati sulla fronte, chiedendo “terra e pace per una guerra che non volevano combattere”, Vasilij, accecato da un rigurgito di autoritarismo, non sa far altro che rispondere sprezzante: “Snimite šapki!” ovvero, “Toglietevi i cappelli!”. Come se solo quello contasse: ristabilire ruoli e gerarchie; come se quella richiesta perentoria bastasse a risollevare la disastrosa condizione finanziaria dell’azienda e della famiglia. Vasilij lascerà la sua personale “valle di lacrime” ripetendo quella inutile frase a fior di labbra, ostinatamente attaccato a un’ideale di classe ormai spazzato via dalla storia.

La morte di Vasilij obbligherà la contessa, che fino a quel momento aveva gestito praticamente da sola casa e figli, senza minimamente occuparsi del conto in banca sempre più in rosso, a chiedere aiuto a un avvocato amico di famiglia, i cui consigli le permetteranno – di fatto – di salvare il suo futuro e quello dei ragazzi. Olga non si rende conto, se non vagamente, che la rivoluzione che ha sovvertito il regime in Russia e che si sta allargando ormai a tutta Europa, ha operato un cambiamento radicale anche in lei, costringendola a scendere a compromessi con se stessa e con la sua alterigia, a fare i conti con una nuova realtà in cui, se vuole conservare la propria reputazione e condizione sociale, deve “impegnarsi”; attività che i nobili russi, semplicemente, disconoscevano. E questo, se da un lato la riempie di orgoglio, scoprendosi capace di far fronte efficacemente alle avversità, dall’altro la deprime al pensiero che il suo “mondo precedente” non sarà ristabilito, che non tornerà mai più in Russia, e che anche il ritrovato prestigio sociale rimane comunque grandemente ridimensionato in questa nuova realtà italiana, e privato di quell’aura di inviolabilità che era stata per lei il senso stesso della vita.

Si rifugia nell’illusione del gioco d’azzardo e degli oppiacei; si fa consolare dai versi di D’Annunzio, di cui adora

“Il rifiuto della razionalità, l’abbandono all’istinto […] impressioni che sente così familiari. Così russe.”

Il suo capolavoro, come madre e come aristocratica, sarà riuscire a sistemare le quattro figlie con altrettanti rampolli di famiglie blasonate, e l’ottenimento della carriera militare nella Marina per il suo Alëša. Olga smuove mari e monti e, nella primavera del 1927, riesce a ottenere la cittadinanza italiana, con cui cessa finalmente la sua dolorosa condizione di “apolide” e che permette al figlio – che la riceve di conseguenza, in quanto ancora minorenne – di frequentare l’Accademia Navale a Livorno e instradarsi verso quel glorioso futuro che la madre insegue per lui da sempre. Ma proprio il più giovane e amato dei suoi virgulti sarà per Olga motivo di grande dolore, ostinandosi a sposare una ragazza da lei malvista:

“troppo italiana per il suo Alessio, troppo borghese, troppo provinciale”.

Sentiva la risolutezza del figlio come un atto di insubordinazione, non tanto verso di lei, ma verso quell’ordine costituito che da vent’anni tentava di restaurare, verso quel puzzle in cui la giovane Marcella era come una tessera “estranea” al disegno.

In realtà Alëša era ormai forse più “italiano” della ragazza che amava; crescendo in un contesto culturale e sociale molto distante da quello russo aristocratico, aveva sviluppato una sensibilità diversa, una nobiltà d’animo, più che di blasone, che gli aveva fatto guadagnare il rispetto dei futuri suoceri e lo aveva portato addirittura a convertirsi al cattolicesimo. Il matrimonio “borghese” del figlio, gli eccessi della propria vita che non riesce a dominare, logoreranno Olga lentamente dall’interno, fino all’inevitabile epilogo.

Lo scoppio della guerra sconvolgerà le vite dei ragazzi Olsufiev; il destino ha risparmiato alla contessa l’onta intollerabile di sapere il quarto conte Olsufiev costretto a combattere con la Marina italiana contro la Russia. Ma le ha risparmiato soprattutto il finale drammatico – direi quasi “titanico” (da leggere in chiave cinematografica) – in cui però il sottotenente Alëša dimostrerà tutto il suo valore umano e professionale, nonostante, la tracotanza fascista che gli impone una missione da tutti considerata suicida.

E forse – dico forse – non è un caso che, a questo punto della storia, l’autrice spenda qualche riga per spiegare ai lettori che l’incrociatore Alberto di Giussano sul quale è imbarcato Alessio, aveva preso il nome dal personaggio di fantasia che avrebbe guidato la Lega Lombarda contro le truppe di Federico Barbarossa nella battaglia di Legnano;

“una leggenda”, scrive la Jatta, “trasformata in realtà dal regime fascista, sempre alla ricerca di eroi del passato, veri o falsi che siano.”

Diffidare, sempre, dei facili eroismi e degli eroi faciloni…

Alëša farà coraggiosamente il proprio dovere, dimostrando grande generosità e spirito di sacrificio. Ma se c’è un eroe in questo romanzo è l’orgoglio di Olga Olsufieva, che ha resistito al tracollo di una nazione e di un’epoca, ostinato e resiliente; destinato, nel tempo, a cambiare forma, a trovare un nuovo senso e una nuova identità nei discendenti di quella grande famiglia russa, cui le radici aristocratiche non hanno impedito di compiere i rispettivi percorsi di vita mantenendone intatto il ricordo, ma in un mondo dove gli ideali di libertà e uguaglianza, finalmente, non facevano più paura. Almeno nell’Occidente democratico.

Almeno finché saremo capaci di difenderli.

©Francesca SARACENO , Catania, 3 aprile 2024