Leggerezza e Complessità nel lavoro di Mark Bradford

di Giorgia TERRINONI (da una conversazione di Anna DI FUSCO con Mark BRADFORD)

Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore

(Italo Calvino)

Lo scorso 13 giugno Mark Bradford è stato ospite delle Conversazioni d’autore del MAXXI, con Hou Hanru, Direttore Artistico del museo. L’incontro è stato organizzato anche grazie all’American Academy in Rome. Un’opera di Bradford, Dive into Criticism (2014) – una donazione di Stephen Robert e Pilar Crespi – è entrata nella collezione permanente del MAXXI. Si tratta di una tela di grandi dimensioni (alta più di 2 metri e mezzo e larga quasi 4 metri), in cui molteplici materiali stratificati danno corpo a una sorta di mappa immaginaria. Dive into Criticism è quasi una metafora della città contemporanea, intesa come un coacervo di tracce, segni, percorsi e comunità.

L’auditorium del museo era tutt’altro che gremito e la maggior parte del pubblico era composta da americani. Questo mi ha molto sorpreso e negativamente! Possibile che il pubblico romano ignori del tutto, o quasi, l’identità di Mark Bradford?

Allora faccio un passo indietro e provo a raccontare qualcosa sull’artista. Per farlo attingerò a quel che io conosco, a ciò che lui ha raccontato durante la conversazione con Hou Hanru, ma anche a un’altra testimonianza raccolta in un’occasione abbastanza speciale.

Mentre era Roma, Bradford ha fatto visita ai detenuti del carcere di Rebibbia. Era insieme a Anna Di Fusco, un’artista che a Rebibbia collabora ad un progetto per sostenere nello studio i detenuti e che con questi ha realizzato un workshop di pittura. Durante l’incontro Anna e Mark avrebbero dovuto premiare i lavori dei detenuti; in realtà, l’occasione sì è trasformata in qualcosa di più e Anna ha voluto raccogliere le parole e i pensieri di Mark. Quindi mi affido anche ai suoi preziosi appunti per restituire un po’ dell’umanità profonda che è dentro il lavoro di Bradford.

Mark Bradford è nato a Los Angeles nel 1961, dove ancora vive e lavora. La città di Los Angeles riveste grande importanza nella sua storia personale e artistica, emblema qual è di un luogo colmo di dicotomie, allo stesso modo in cui lo è l’esistenza di certi individui – Bradford in testa. L’artista è cresciuto in un sobborgo malfamato abitato esclusivamente da afroamericani. Una comunità blindata e conservatrice. Figlio di madre sola – la madre a sua volta era orfana – Bradford ha faticato non poco per restare a galla. Non fa mistero di essere stato una testa calda e di aver percorso parecchie strade sbagliate. Ma afferma di essere sempre stato un creative boy; certo, ha impiegato parecchio tempo prima di esserne consapevole, ma poi  questa consapevolezza si è trasformata in una risorsa. Una risorsa per emergere. Probabilmente, a tale dimensione creativa egli deve la capacità di far coesistere le molte realtà attraversate, anche le più contraddittorie. Mark ha raccontato un’esperienza vissuta e rivissuta da bambino insieme alla madre – “una femminista e una radicale, ma senza cartelli” – che esemplifica molto bene le realtà conflittuali, quasi schizofreniche, con le quali è entrato quotidianamente in contatto. Come si è già detto, la comunità alla quale apparteneva era esclusivamente composta da afroamericani disagiati. Ma, quasi tutti i giorni, l’artista e sua madre andavano in macchina a Malibù, allora paradiso indiscusso dei bianchi benestanti. I 30 minuti di macchina che separavano questi due mondi antitetici rappresentavano per lui un confine immaginario, eppure potentissimo. Un confine razziale, ma anche esistenziale. Con questa e molte altre contraddizioni, nel tempo, Bradford ha imparato a convivere, finanche a farle coesistere. E, su queste e altre contraddizioni si basa molta parte del suo lavoro.

Mark non ravvisa alcuna discontinuità tra l’attività ventennale come parrucchiere nel salone di sua madre e quella di artista. Si è iscritto al California Institute of Arts di Valencia da adulto e qui si è laureato nel 1997. Nel suo caso la formazione di strada precede e motiva quella accademica. Nel decennio successivo, sono arrivate le partecipazioni a importanti rassegne internazionali, dalla Biennale di San Paolo a quella del Whitney nel 2006, dalla Carnegie International (2008) alla Biennale di Istanbul (2011). E con esse è arrivato il successo.

Attualmente, il mercato delle opere di Bradford è potentissimo. Secondo Artprice (le stime riguardano un periodo compreso tra il 2000 e il 2015), il fatturato in asta dell’artista si aggira sui 18 milioni di euro. Nell’ottobre del 2016 Bradford ha raggiunto il suo record d’asta. L’opera Rat Catcher of Hamelin III (2011) è stata venduta da Phillips a Londra a 3.733.000 sterline.

Mark non ha alcun problema a convivere con la sopraggiunta ricchezza. La considera, senza ipocrisie, una grande possibilità. Quando ha iniziato a vendere con successo i suoi lavori, la prima cosa che ha comprato è stata un paio di scarpe da ginnastica (ha una passione per le sneakers). Poi ha acquistato il salone della madre e l’ha trasformato nel suo studio. Infine, è stata la volta del magazzino di forniture per parrucchiere in cui faceva acquisti. Questo spazio si è trasformato in una fondazione per l’arte contemporanea, Art + Practice. Obiettivo della fondazione è presentare l’arte in contesti sociali dai quali è generalmente esclusa; inoltre, l’intero ricavato delle attività viene destinato a quanti hanno necessità e volontà di riemergere da situazioni difficili. Insomma, Mark usa il denaro e la fondazione per offrire una possibilità. La stessa possibilità che sente di aver avuto lui…

In un’analoga direzione si muove anche il progetto Rio Terà dei Pensieri avviato Venezia (avrà una durata di sei anni e sarà interamente finanziato dall’artista che collabora con l’omonima cooperativa impegnata nell’offrire opportunità di reinserimento ai detenuti locali), basato sul lavoro di un gruppo di detenuti. La detenzione nega visibilità agli individui e la loro stessa identità è minata. Bradford ritiene che attraverso la valorizzazione del lavoro possa essere restituita ai detenuti un’identità visibile.

Tutto il lavoro artistico di Mark è intrinsecamente legato all’attivismo e all’impegno sociale. Così anche i suoi grandi dipinti astratti che mixano arte alta e cultura popolare e che, attraverso la stratificazione di materiali differenti e l’uso del collage, incarnano metaforicamente le partizioni delle metropoli contemporanee, fondate sull’identità razziale, il genere sessuale e le classi sociali.

In questi mesi, Bradford rappresenta gli Stati Uniti alla 57^ Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. L’artista si è appropriato dell’iconico padiglione USA, dove ha presentato Tomorrow is Another Day. Ha raccontato di essersi a lungo interrogato – durante gli anni recenti che hanno visto gli afroamericani coinvolti in una serie numerosa di proteste – circa l’idendità odierna degli afroamericani. Tomorrow is Another Day – citazione tratta significativamente da Via col Vento – nasce dal crollo identitario che ha coinvolto l’intera popolazione statunitense negli ultimi anni. Il padiglione pensato da Bradford vuole superare abbattendoli – anche letteralmente – molti confini. E lo fa attraverso una pittura – scultura che sta collassando. Lo spettatore è costretto a interagire con uno spazio divenuto inedito; egli è costretto a interagire con le periferie, con i margini, con il dentro che invade il fuori e il fuori che invade il dentro.

Così, la prima sala trae suggestione dalla figura Efesto, il dio disabile. Bradford fa riferimento a una delle due versioni del mito, quella che narra del dio allontanato violentemente dall’Olimpo per aver difeso la madre Era. Efesto sarebbe allora il dio emarginato e auto-confinatosi nel cuore di una montagna rovente. Ma che, solo ed esclusivamente attraverso le proprie abilità, si riappropria del suo posto sull’Olimpo.

L’altra suggestione dalla quale generano le opere della prima sala è legata agli uragani che si abbattono sul territorio statunitense. In entrambi i casi, tra loro molto diversi, vi è in atto un’analoga forza: una forza che tende a spostare qualcosa verso i margini e che, in seguito, scaraventa ciò che è marginale di nuovo all’interno.

Nella seconda sala l’artista gioca con lo spazio e crea una giungla materica, astratta, eppure rigogliosa che divora l’architettura, riducendola a una rovina. L’opera si guarda dal basso verso l’alto, come vuole la tradizione della pittura religiosa. Lo spettatore è sommerso, la rigogliosa e opprimente giungla scultorea lo confina in uno spazio sottostante, quasi sotterraneo. La libertà è solo sopra!

A seguire c’è la stanza della Medusa, caratterizzata dalla presenza alle pareti di dipinti o-scuri. Medusa sta al centro, una scultura realizzata con carte impiegate nei negozi di parrucchiere, figura fragile e insieme letale. Essa è fatta della stessa materia del mondo, è il mondo. Nell’arte di Bradford il valore del materiale supera quello della rappresentazione.

Medusa è l’incarnazione della femminilità, una figura antica eppure non contemporanea. La sua è una femminilità potenzialmente dirompente. Perciò essa è temuta, mai affrontata – se non da Perseo che è, in qualche modo, ignaro del pericolo che essa rappresenta. La sua è una femminilità rabbiosa che, lasciata libera di erompere, reagisce con aggressività alle aggressioni di una società ancora centrata sulla forza del maschio.

Nemmeno l’America non è la terra dei liberi, sebbene in molti abbiano voluto farcelo credere. È terreno di complessità, come lo è tutto ciò che riguarda gli uomini e le loro insanabili diversità. L’artista tenta di conferire trasparenza alla complessità. Ed ecco che la complessità si fa leggerezza, ma resta pur sempre complessità.

di Giorgia TERRINONI    giugno 2107